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Sulla crisi e sull’europa: appunti di fase

Centri sociali del nordest

Economia mondo e crisi

L’insistenza, con cui negli ultimi tre anni abbiamo sottolineato il carattere “globale” della crisi attuale, non può far sottovalutare come essa si sviluppi in realtà in maniera tutt’altro che “omogenea”, ma anzi in forme fortemente differenziate nelle diverse aree del pianeta.

Insistendo sul carattere “sistemico” abbiamo infatti cercato di registrare, al tempo stesso tra le sue cause e i suoi effetti, il progressivo declino dell’egemonia economica, militare e politica degli Stati Uniti d’America (e dell’Occidente più in generale) sui processi globali e il progressivo affermarsi di nuovi potenti attori su scala planetaria. Le conseguenze della crisi finanziaria ed economica interessano infatti, in misura e con modalità assai differenti, i Paesi emergenti del cosiddetto BRICS, per i quali lo sviluppo capitalistico ha ancora caratteristiche espansive, non solo in termini di crescita del Pil, ma anche della forza lavoro occupata, del suo salario, del reddito per essa disponibile e delle dinamiche di riproduzione allargata e consumo.

Lo svilupparsi di una crisi inedita come quella attuale può produrre una sorta di “miopia” dell’analisi: una difficoltà a vedere bene le cose lontane che di contro, incentiva la troppa concentrazione dello sguardo ai particolari di prossimità. Il capitalismo globale, se si osserva ciò che accade lontano da noi, non sembra in crisi. Il Brasile, la Russia, L’India, la Cina e il Sudafrica registrano un incremento verticale dei processi di accumulazione capitalistica, in maniera opposta a quanto invece sta accadendo in tutti i paesi occidentali che hanno tassi di crescita vicini allo zero o in marcata recessione.

E’ la globalizzazione dell’economia a determinare dunque il carattere “sistemico” della crisi, poiché tutto è interconnesso e non vi sono aree fuori sistema. Ma per ora il dato più eclatante, e che dà l’idea dell’assoluta novità nella storia del capitalismo, che è sempre vissuto e si è sempre sviluppato nelle crisi, è che, dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica, non vi è un’economia mondiale in crisi, ma anzi in crescita. Fuorché in Occidente. Non era mai accaduto. Attraverso questi dati si può affermare che la crisi di sistema non significa dunque “apocalisse”, ma piuttosto ridefinizione profonda degli equilibri, delle gerarchie, dell’egemonia. Un nuovo capitalismo globale si sta affermando, e non è più centrato sull’egemonia del modello occidentale a guida statunitense. Il sommovimento che crea questo cambio di centralità, non può che riverberarsi sull’intero sistema. Ma non si esaurisce su questo. In crisi è entrato pesantemente anche il modello di capitalismo che era egemone: quello caratterizzato dalla “teologia del libero mercato” per dirla con Hobsbawm.E qui l’analisi può approfondire il significato di un altro aggettivo che abbiamo spesso utilizzato per definire la crisi contemporanea: “strutturale”. Quella che stiamo attraversando è anche crisi strutturale oltre che di sistema. La “struttura” capitalistica che si è via via sviluppata nel corso dei decenni, da crisi a crisi e da conflitto a conflitto, ci ha condotti a quello che già dagli inizi del millennio abbiamo definito come il tempo della dittatura del mercato e della finanza. Le aree del mondo che ne erano subordinate anch’esse e che oggi non sono in crisi, invece, si reggono su una sorta di “capitalismo di stato”. I governi, o il partito-stato come nel caso cinese, controllano le banche e limitano la dinamica degli investimenti finanziari, orientano il mercato attraverso massicce immissioni di denaro pubblico e padroneggiano la leva monetaria. Agiscono direttamente sul mercato in termini di regolazione e ne limitano dunque l’autonomia. L’espansione capitalistica e il suo rapido sviluppo avviene dunque sulla base di un altro modello, di un’altra “struttura” rispetto ai dettami del liberismo. I Brics, attorno ai quali si configura il nuovo centro gravitazionale capitalistico, sono alle prese piuttosto con un problema di ipertrofia: come mantenere i ritmi di crescita senza che eplodano giganteschi problemi sociali, in particolare se non esiste una struttura di Welfare adeguata? L’ingresso velocissimo di masse crescenti di contadini nel mondo del lavoro salariato, se nell’immediato – oltre a produrre enormi traumatici sommovimenti – comporta pure effetti positivi generati dal più facile accesso a beni di consumo e servizi, che cosa genera in un tempo più lungo, dal punto di vista sociale, culturale, politico? Sono domande aperte ed è evidente che, dalle risposte che emergeranno nel futuro, dipenderanno i destini del mondo. Ma in mezzo a tante incognite, il cui esito è in grande misura legato all’intensità e alla qualità dei conflitti sociali che stanno crescendo a quelle latitudini, animati da una nuova composizione del lavoro e da nuove società che crescono attorno ad esso, una cosa è chiara: l’epicentro della crisi, intesa come declino strutturale del modello egemone, è qui da noi.

L’Eurozona, con la sua debolezza esplicitata dall’assenza di unità politica e dalla contemporanea presenza di una valuta unica e poco flessibile, ha finito con il diventare proprio l’epicentro della crisi del modello occidentale. Conformandosi come crisi del debito sovrano, le difficoltà sistemiche e strutturali, relative cioè ai nuovi rapporti con la dimensione globale e al modello neoliberista egemone al suo interno, hanno fatto diventare l’Europa lo spazio nel quale la crisi è più profonda e dal quale partono i suoi effetti più rovinosi per l’intero assetto globale.

E’ proprio questa considerazione che per noi definisce l’Europa come “ventre della bestia” e, come tale, spazio politico del conflitto e dell’alternativa alla crisi e nella crisi. L’Europa, proprio perché è il luogo dell’attuale contraddizione capitalistica per eccellenza, deve diventare fino in fondo lo spazio della nostra azione politica per cambiare radicalmente lo stato di cose presenti.


Europa: spazio politico dell’alternativa


In Europa si è aperta una nuova fase, simbolicamente marcata dai passaggi elettorali delle prime settimane di maggio: il modello di gestione della crisi fin qui imposto, in particolare dalla Germania e dal board della Bce, è entrato esso stesso in crisi, e in tempi molto più rapidi di quanto commentatori e analisti avessero potuto prevedere. La fase della governance che abbiamo chiamato “della dittatura commissaria per via amministrativa” è velocemente precipitata nella crescente delegittimazione sociale. Con essa le sue politiche di austerity, di compressione della spesa pubblica, di riduzione dei salari e del reddito disponibile, di attacco ai diritti sociali e del lavoro, che sembravano fino a un mese fa dogmi ineluttabili.

La crisi dell’Eurozona si è conformata come “crisi del debito”, nella quale quest’ultimo elemento è stato chiamato a giocare il ruolo cruciale di elemento normativo biopolitico. Attorno al debito è stato organizzato l’attacco alle condizioni di vita di milioni di europee ed europei, e sempre muovendo dalla sua centralità costituzionale, si è tentato di garantire la continuità dei processi di accumulazione finanziaria e concentrazione della ricchezza. Oggi però possiamo dire che l’Europa è innanzitutto lo spazio politico caratterizzato da un diffuso atteggiamento sociale di sottrazione al ricatto del debito e dalla tendenza moltitudinaria di rifiutare la paura indotta dallo spettro del default agitato dalle centrali capitalistiche e dai governi usciti con le ossa rotte dalle tornate elettorali. Ciò appare evidente in Grecia, ma inizia ad affacciarsi anche in Germania, dove il consenso sociale (anche nella composizione operaia e del cosiddetto “ceto medio”) intorno alle politiche del “rigore” comincia a non essere così scontato, dimostrando che in Europa vi sono flussi di orientamento della composizione sociale che sono in grado di oltrepassare i confini degli stati-nazione e di definire un comune sentire ed agire.

E’ una fase importante per i movimenti, perché il riaprirsi dello spazio dell’alternativa coincide con la messa in discussione anche istituzionale del modello stesso di Europa fin qui imposto dalle lobby degli interessi politico finanziari. Appare cioè chiaro come nessuna ipotesi di nuova governance europea possa prescindere dal mettere mano all’assetto politico costituzionale stesso dell’Europa. L’alternativa va definita nelle sue diverse articolazioni, proprio per questo suo disporsi, con significati diversi dall’alto al basso, come necessità generale. Vi è un’alternativa che riguarda dunque la governance: essa è molto importante poiché misura il grado di fallimento a cui sono giunti i “padroni”, quelli della gestione della fase precedente, attraverso le loro politiche di austerity. Assistiamo a un riorientamento del discorso e delle politiche. Potremmo sintetizzarlo con una formula: chi governa oggi in Europa cerca di sbarazzarsi di un ingombrante, e controproducente discorso neoliberista per predicare il ritorno al liberalismo temperato dell’ “economia sociale di mercato” (è questo in realtà il discorso dominante tra le sinistre di governo europee, anche quando rivestito da retoriche neo-socialdemocratiche), ad una governance che sia in grado di moderare i meccanismi di accumulazione del capitale finanziario.

Ma nello stesso spazio, plasmato invece dalla nuova legittimazione sociale del conflitto contro le politiche del debito, dell’austerity e della cancellazione del welfare, può agire anche l’alternativa radicale al sistema capitalistico. In un blocco di comando finora omogeneo e compatto, si apre un varco provocato dallo scontro tra modelli di governance divergenti, nelle prospettive che individuano e negli interessi di cui sono al servizio. Questo spazio si apre per chi sia in grado di assumere, come noi con altri cerchiamo di fare, un punto di vista che rispetto alla governance sia “esterno ma interessato”. Con estrema chiarezza: di fronte alla crisi proponiamo una alternativa di sistema. Non vi è cambiamento strutturale che possa darsi sul terreno di governo istituzionale dei processi, mentre l’alternativa è la definizione che oggi diamo del “movimento reale che abolisce e supera lo stato di cose presenti”. E la crisi di un modello di governance che interpretava, compattamente e linearmente, la dittatura dei mercati finanziari apre lo spazio di esercizio per l’azione politica, non quello generico “dei movimenti”, ma quello radicale del movimento reale per l’alternativa, come progetto della lotta di classe nell’epoca della crisi.

E’ una fase, quella che si è aperta, dalle grandi potenzialità: il rifiuto sociale dell’austerity non si è tradotto per il momento in un dilagare maggioritario, come avvenuto in altre epoche della storia europea, dei populismi di destra, nelle loro varianti sovraniste, nazionaliste e xenofobe, o apertamente neofasciste. La ricerca dell’alternativa al “rigore” neoliberista e monetarista si qualifica invece ora come prevalentemente “europeista”.

Se dunque definiamo l’Europa come lo spazio politico dell’azione del movimento dell’alternativa, possiamo tracciare al suo interno tre direttrici fondamentali, teoriche e pratiche, sulle quali condurre il nostro cammino: l’“attenta esternità” nei confronti dei processi di governance, interessata cioè alle modificazioni che intervengono in questi ma esterna, come scelta di campo, al loro conformarsi; la permanente ricerca della piena internità alle dinamiche sociali reali, attraverso la costante tessitura di relazioni all’interno della composizione sociale data, dove la pratica della radicalitàsi propone come verifica del carattere strutturale dell’alternativa e si inserisce nello scontro ineludibile tra prassi democratica e rapporti sociali capitalistici, tra capitalismo e democrazia; l’“illegalità di massa” come nuovo processo di accumulo di legittimità sociale, oltre il generico “consenso”, delle pratiche di conflitto che costruiscono l’alternativa, a fronte della delegittimazione, diffusa e massificata, dell’ineguale distribuzione della ricchezza, della dittatura della finanza che l’ha determinata, dei rapporti sociali di produzione che la sottendono.

Seguendo questo ragionamento, va da sé che il processo di costruzione di nuovi istituti del comune, di spazi pubblici ampi capaci di esercitare l’azione politica attraverso una piena internità sociale, è determinante. Sono i luoghi, molteplici, che definiamo coalizioni sociali. Parliamo non di “coalizione” al singolare, come formuletta frontista, ma di “coalizioni” al plurale come processi di relazione attiva tra i molti, da sviluppare concretamente su diversi terreni d’iniziativa che già si dispiegano. Ad esempio contro la precarietà, per i diritti e il reddito come nel caso della proposta di mobilitazione contro il ddl Fornero sul lavoro per il 13 e 14 giugno. Coalizioni come quella che ha dato vita alle straordinarie giornate di lotta francofortesi per un’altra Europa in maggio. O, a partire dalla battaglia sulla gestione dell’acqua e dai conflitti territoriali sulle grandi opere, contro le privatizzazioni dei servizi, per i beni comuni e l’ambiente. La verifica della potenzialità ricompositiva delle coalizioni,è il terreno sul quale costruire una azione politica dispiegata, articolata e dagli esiti non scontati. Ma questa potenzialità va percorsa fino in fondo, perché crediamo nella potenza del movimento reale dei molti come motore del cambiamento.

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