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lavoro vs liberta

Ma che dice il vecchio Guglielmo?

Giuseppe Laino

mod article13332027 15Guglielmo Ragozzino, nell’articolo La politica come professione. Onesta, pubblicato su il manifesto del 12 gennaio 2013, è preoccupato dall’astensionismo di quella nutrita parte di elettorato che, pur avendo “alle spalle un intenso impegno politico e sociale, una lunga storia di movimento e di battaglie civili”, nutre disincanto e sfiducia verso il mondo della politica. Costoro, potenzialmente di sinistra,  giovani o meno, vanno, a suo dire, in qualche modo recuperati.

Cosa propone il simpatico e noto giornalista a questo fine?

Intanto l’esigenza di contribuire a far cambiare loro idea poggia sul preconcetto che la vera politica sia collocata in altro luogo, diverso e migliore da quello in cui essi, poverini, la immaginano. La politica, quella che occorrerebbe rilegittimare recuperando il suo significato effettivo e le sue finalità originarie, risiede nella gestione della cosa pubblica, del bene comune, ci dice Guglielmo Regozzino. Una volta fissato il suo scopo, per tornare a credere in essa come d’incanto, aggiunge, basterebbe darsi regole ben precise. Ad esempio, l’impegno dell’eletto a mantenere rapporti contagiosi con i movimenti, l’indicazione di massima dei suoi introiti e benefici, il rifiuto della politica degli annunci e della eccessiva personalizzazione, sarebbero norme minime e ragionevoli.


Probabilmente è proprio l’insistenza a formalizzare regole, dopo essersi dato uno scopo che si fa beffe di ogni regola, a costringere molte persone particolarmente sensibili e dotate di senso civico, ad allontanarsi inesorabilmente dalla politica corrente, partitica e no. Perché, al contrario di quanto normalmente si pensa, l’onestà non è acquisibile costringendo gli uomini in gabbie fatte da ferree norme, ma realizzando relazioni vive in cui essa diviene di per sé un naturale valore.

È proprio questa la ragione per cui, con sempre maggiori energie, e in ogni angolo della Terra, si ricercano nuovi significati con cui declinare i modi dello stare insieme. E che ogni esperienza tesa a definire nuovi e coinvolgenti luoghi del comune, diviene preziosa più che l’osservanza di vecchi e abitudinari riti.

La politica, intesa come gestione della cosa pubblica da parte di un eletto legittimato a decidere dal consenso ottenuto, oltre che a sancire la delega come strumento delle democrazia - unico strumento, quasi fosse, della politica, il pensiero unico e inamovibile - divide l’umanità tra chi ha il potere della decisione e chi non lo ha affatto. Concentra il potere nelle mani di pochi. Abitua all’idea che l’uomo comune, quello che è costretto al lavoro per poter vivere, sia impotente e incapace a prendere decisioni. Che queste ultime siano sempre più difficili e, quindi, sempre più bisognose di tecnici e specialisti dei vari settori e insieme, sempre più lontane da coloro che per necessità debbono occuparsi d’altro.

È logico che questa politica separata dalla vita necessiti di regole che costringano l’eletto in ambiti ben precisi. Perché essa acquisisce la forza oggettiva e pericolosa della merce che, aiutata dallo spettacolo, dalla propaganda, dalla bella immagine e dal linguaggio accattivante che si accompagnano al denaro, riesce ad imporsi sul mercato e con ciò ad infinocchiare lo spossessato da ogni potere, il cittadino divenuto cliente, il poveruomo che ormai ha scambiato l’essere con l’avere. Questa politica, come ogni altra merce, possiede una forza che, però, non può essere imbrigliata da nessuna regola all’interno del nostro prevalente modello di società spacciato come unico ed eterno, perché qui regna la cosalizzazione del tutto, qui ogni cosa è merce, ogni cosa si fa merce.

E se noi abbandonassimo il tavolo su cui diretti interessati e apologeti in buona o cattiva fede ci hanno finora costretto, e partissimo dall'esigenza di concepire la politica come un fare teso al superamento della dicotomia governanti/governati e non alla sua perpetua riconferma?

Se ci sforzassimo di concepire la politica, non come cosa altra rispetto a ciò che facciamo quotidianamente, ma come l’essenza vera di ogni nostra piccola azione? Se, finalmente, concepissimo la politica come il modo e il luogo delle nostre relazioni? Come la pratica che ci connette gli uni agli altri e tutti insieme alla natura, animale, vegetale o inanimata che sia. Come ciò che deve evidenziare i nessi indissolubili con il nostro passato e, ancor più con il nostro futuro colmo di figli e nipoti che hanno diritti pari ai nostri?

Se avessimo una simile concezione della politica  non avremmo bisogno di delegare a nessuno il potere del fare e del decidere. Capiremmo, finalmente, che il delegare non solo rimanda la decisione ad altri ma la rimanda pure ad altre epoche, magari rischiarate dal bel sol dell’avvenire ma comunque lontane anni luce dal tempo reale, caratterizzato dall'accettazione,  dalla sudditanza e dalla sofferenza. Capiremmo di non aver bisogno né di delegare, né di aspettare che il delegato agisca, perché scopriremmo che l’azione risiede in noi già da oggi.

È tanto difficile capirlo?

Forse sì, ma se nel frattempo parecchi uomini si accorgessero che il potere che è nostro non è affatto delegabile, e neppure divisibile, al contrario di quanto finora ci hanno insegnato? Che nessuno mai potrà avere il diritto di decidere della nostra vita e della nostra morte in nessunissima circostanza? E che gli unici a fare siamo sempre stati noi, proprio noi, ultimi a cui hanno sempre insegnato che la storia è fatta da altri. A cui hanno inculcato l’idea che siamo solo pedine del fato imperscrutabile, di dio e di  uomini fatti dei. Se davvero ciò stesse accadendo potremmo mai liquidare schifati queste tensioni come stupida antipolitica?

E se usassimo quel che la crisi che ci attanaglia può offrirci? Se usassimo quest’occasione per cambiare?

Se, finalmente, ci preoccupassimo di acquisire un po’ di consapevolezza circa la nostra reale forza? Quella che già esplichiamo quando, scegliendo i modi del nostro vivere, ricreiamo giorno dopo giorno il tanto odiato sistema capitalistico? Quando decidiamo cosa fare nel nostro tempo libero; quando decidiamo quali valori porre a guida del nostro esserci; quando accettiamo stupidamente come giusto e moralmente accettabile che il tempo del lavoro e il denaro che può conseguire solo da quello, siano determinanti a fondare il nostro stile di vita.

Se la smettessimo di preoccuparci di chi delegare e ci occupassimo di ciò che consegue veramente alle nostre quotidiane scelte e del potenziale enorme che è racchiuso nei nostri cuori e nelle nostre menti, non rischieremmo forse di liberarci da quella servitù volontaria a cui noi stessi ci siamo inchiodati?

Non avremmo fondato, così facendo, un nuovo modo di essere, un nuovo modo di relazionarci, una nuova politica?

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