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marx xxi

Monti ha aggravato la crisi italiana

di Spartaco A. Puttini

Serve la programmazione economica per la rinascita del Paese

Monti ha lasciato il timone della cosa pubblica e si è ufficialmente candidato alle prossime elezioni. La maschera utilizzata per recitare il ruolo di super partes è così finalmente caduta anche per chi, nel corso dell’ultimo anno, si è ostinato a non vedere il segno chiaramente reazionario delle scelte economiche e sociali del governo “tecnico”. Scelte essenzialmente politiche ed ispirate dall’estremismo neoliberista (di destra) che hanno colpito i ceti popolari e salvaguardato gli interessi particolaristici delle oligarchie legate a doppio filo alla finanza anglo-americana e al processo di centralizzazione dei capitali a guida tedesca. Ciò a dimostrazione del fatto che il premier difendeva interessi precisi, alieni da quelli nazionali.

La crisi italiana prosegue, inasprita dalla politica di austerità del governo “tecnico” e dai suoi clamorosi insuccessi. La situazione economica e sociale del nostro paese continua a peggiorare e sta prendendo una china pericolosa per la stessa sopravvivenza delle istituzioni repubblicane.

Sotto il peso della reazione neoliberista importata da oltre Atlantico l’americanizzazione del sistema fa passi da gigante, sia in campo politico che in campo sociale. Il governo Monti ha rappresentato la massima espressione del rigurgito liberale contro le istituzioni democratiche e contro le promesse progressiste formulate nella nostra Costituzione.



Il grande fallimento

L’attacco ai diritti del mondo del lavoro non sta affatto facilitando l’assunzione di lavoratori da parte di imprese che si trovano spesso con l’acqua alla gola per le misure recessive dell’esecutivo ma provoca un ulteriore ingrossarsi delle file dei disoccupati, che nel 2013 toccheranno molto probabilmente quota 3 milioni. Dal primo semestre del 2008 al primo semestre del 2012 è stato calcolato che il paese ha perso più di mezzo milione di posti di lavoro. A rendere il quadro ancor più fosco andrebbero conteggiati i lavoratori precari, di fatto sotto-occupati, nonché la percentuale (elevatissima) di giovani, spesso qualificati, compresi in queste categorie. Basti pensare che il tasso di occupazione per la fascia di età compresa tra i 15 e i 34 anni è crollato dal 51% al 44% (cioè di 1 milione e 360 mila unità) nello stesso arco di tempo.

Dalla fine del 2007 ad oggi l’economia italiana ha perso circa il 7% del suo peso e la produzione industriale è di un quinto inferiore al volume che aveva nel 2008. In questo contesto la ricchezza prodotta si è contratta ovunque, tanto al Nord (-6%) quanto al Sud (-10%). Il calo ancor più forte del Mezzogiorno ha provocato un nuovo fenomeno migratorio che tende ad ingrossarsi. Continuando di questo passo le politiche depressive provocheranno la mezzogiornificazione dell’intera penisola e il fenomeno migratorio potrebbe tornare a contagiare anche altre aree del paese e crescere di intensità.

La crisi italiana è stata aggravata dalle manovre di Monti. La gragnola di tasse indirette sta ponendo in forte sofferenza la domanda interna, impoverendo fette sempre più consistenti della popolazione. Le previsioni dei professori sono state tutte riviste al ribasso e la luce in fondo al tunnel di cui favoleggiava Monti si identifica sempre più come un treno in corsa sfrenata sotto il quale l’Italia rischia di restare schiacciata.

Lo stesso fine conclamato dell’azione governativa, il risanamento dei conti pubblici e la crociata contro il debito pubblico, si allontana sempre più in virtù degli effetti recessivi delle misure di austerità che, alimentando la recessione economica, provocano una riduzione delle entrate e, di conseguenza, un peggioramento del rapporto debito/pil a causa della contrazione di quest’ultimo. Abbiamo raggiunto il record di debito pubblico passando dal 120% del 2011 al 123,3% del 2012. Persino l’FMI ha ammesso che le politiche di austerità sono incompatibili con lo sviluppo.

La cieca osservanza delle regole del modello neoliberista (fallito ovunque) spinge l’Italia sempre più in basso e, in mancanza di una salvifica inversione ad U, in prospettiva su questa strada non si marcia verso il risanamento ma verso un acuirsi della crisi. Contrariamente ad un pensiero diffuso, anche a sinistra, il default non è il mezzo salvifico per sfuggire dalla morsa della crisi e dell’austerità voluta dalla troika ma è il frutto maturo delle politiche recessive raccomandate da Bce, Fmi e Ue. Così è stato anche per l’Argentina un decennio fa. Non furono gli argentini ad optare per il default per ribellarsi al soffocamento neoliberista ma fu l’adozione del modello neoliberista che spinse il paese al fallimento. Solo dopo l’Argentina tornò padrona di se stessa, grazie a uomini politici che optarono per un'altra politica sovranista e sviluppista, lasciandosi alle spalle la buia notte neoliberale e inaugurando un modello di crescita economica con inclusione sociale.


L’incredibile storia della credibilità di Monti


Non si capisce come, pur dando un giudizio giustamente severo dell’operato del professore della Trilateral, da più parti si continui a sostenere con imbarazzanti acrobazie verbali che la sua presunta credibilità ha offerto un contributo positivo, quantomeno nelle relazioni con i partner internazionali. La credibilità del vecchio professore è quella di chi si dimostra più propenso a curare gli interessi di quella finanza speculativa internazionale che ha alimentato la crisi per lucrare sui tassi d’interessi o di quei centri tecnocratici europei al servizio della germanizzazione della Ue che non a difendere gli interessi dell’Italia.

Del resto da parte di alcuni economisti e politici di primo piano si sono sollevati giudizi pesantemente negativi sul suo operato, e non solo nei settori critici che in Italia vengono tenuti ben lontano dal circo mediatico che è solito incensare Monti.

Wolfgang Munchau sul “Financial Times” ha scritto che:

“[...] ben poco è cambiato nel corso dell’ultimo anno, ad eccezione del fatto che l’economia è caduta in una profonda depressione. Ora ci sono due cose che devono essere sistemate in Italia. […] La prima è quella di invertire immediatamente l’austerità (essenzialmente smantellare il lavoro di Monti). Gli aumenti delle tasse e i tagli alla spesa hanno un effetto controproducente. […] Il peggioramento nella sostenibilità del debito pubblico Italiano diventerà molto più chiaro il prossimo anno [2013], quando avremo più dati statistici sugli effetti calamitosi dell’austerità. […] La seconda priorità è quella di scendere in campo contro Angela Merkel. Una cosa che Mr. Monti non voleva (e non era capace) di fare. […] Solo un leader eletto è in grado di forzare una scelta. Non si può pretendere da un primo ministro tecnocratico di minacciare una contro-mossa credibile se la risposta è no. […] La ragione per cui Monti era così popolare in Germania era che la sua bolla e la sua austerità facevano buon gioco al cancelliere nel ritardare le decisioni difficili sulla risoluzione del debito e la riforma istituzionale a dopo le elezioni tedesche del prossimo anno”1.


Per Evans Pritchard del “Telegraph” l’uscita di scena di Monti rappresenta addirittura l’unico modo per salvare l’Italia.

“L’Italia ha un solo grave problema economico. Ha la valuta sbagliata. […] Monti […] è il sommo sacerdote del Progetto Ue e un personaggio chiave dell’adesione dell’Italia all’euro. Prima se ne va, prima l’Italia può fermare lo scivolamento nella depressione cronica.2


In una recente intervista Roberto Lavagna, il ministro dell’economia di Nestor Kirchner che contribuì a trascinare l’Argentina fuori dalla crisi, ha invitato l’Italia a non continuare a seguire i premurosi consigli della Germania (ormai egemone nella Ue).

“Tagliare il welfare non vi farà uscire dalla crisi”, ha ammonito. L’uomo che contribuì a ristrutturare il debito argentino e che abolì la parità tra il dollaro e la moneta nazionale non ha peli sulla lingua: “Solo quando c’è potere d’acquisto c’è domanda e come si pensa di uscire dalla recessione se non si pensa ad aumentare la domanda di beni e servizi da parte della popolazione? Quale senso economico ha distruggere il welfare state per tutelare gli interessi di settori di potere che non producono ricchezza? Pensare che uscirete dalla crisi attuando le misure che vi raccomanda la troika è un errore gravissimo. […] Credere che si recupererà competitività riducendo il potere d’acquisto della popolazione è folle”3.


Andrebbe tenuto presente questo autorevole parere, come quelli sempre più numerosi e circostanziati di tanti economisti nostrani che malauguratamente sono tenuti a margine del grande circuito mediatico che continua a propinare l’immagine dell’attuale presidente del Consiglio come l’uomo della provvidenza e che giura sulla sua popolarità sulla base di sondaggi dei quali è forse lecito cominciare a dubitare. Nei fatti è assai probabile che la politica integralista di Monti incontri (e sia destinata ad incontrare) sempre più resistenze nel paese reale a causa dell’impoverimento diffuso in cui sprofondano fasce sempre più consistenti della popolazione.

Nei fatti stiamo seguendo, anche se ancora a distanza, la Grecia nella sua discesa agli inferi. Ci sono forze politiche che hanno pensato di lastricare di buone intenzioni la strada per l’inferno. Hanno contribuito a presentare Monti come il male necessario, introiettando così in larga parte del popolo di centrosinistra cospicue dosi di debilitante veleno neoliberista e favorendo una colpevole passività riguardo alle politiche impostate dall’esecutivo. E’ un caso che l’Italia abbia mostrato di subire con maggiore acquiescenza di ogni altro paese dell’Europa meridionale la politica di lacrime e sangue che gli è stata imposta dai poteri forti europei e internazionali?


Il peccato originale


Il punto è che Monti non rappresenta il male necessario ma semplicemente il male. La sua politica si è rivelata nociva per il paese. Vi sono ben altre strade da percorrere per uscire dalla crisi generata dal neoliberismo e dal neoliberismo alimentata. La favola che lo stato sociale sia ormai insostenibile o quella secondo la quale gli italiani (indistintamente) avrebbero vissuto in questi anni al di sopra delle proprie possibilità è falsa ma funzionale4.

Falsa, perché il debito italiano ha iniziato a lievitare in modo impressionante dal 1981 a seguito del divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, che fino ad allora aveva garantito la copertura dell’emissione dei titoli di Stato non assorbiti dal mercato consentendo di mantenere un basso tasso d’interesse degli stessi e per tanto permettendo di contenere gli interessi sul debito. Era un sistema che dava al governo una funzione di orientamento dell’economia al fine dello sviluppo generale del paese pur in un quadro capitalistico. Era una delle espressioni della diversità italiana, che si basava su un’economia mista. A seguito del divorzio con il Tesoro Bankitalia non ha più acquistato i titoli in eccedenza sul mercato lasciando che fosse il mercato stesso a determinarne la sorte. Lo Stato è rimasto nudo in virtù della religiosa credenza nell’autoregolazione dei mercati finanziari che, volendo realizzare profitti speculativi, hanno spinto in alto gli interessi sul debito creando l’attuale voragine.

Gli interessi hanno a loro volta ingrossato la mole del debito pubblico in una sorta di effetto valanga. Dunque è stata proprio l’adozione delle convinzioni liberiste e antistataliste di cui lo stesso Monti è uno dei massimi esponenti internazionali a mettere l’Italia su una china pericolosa. I principali fautori di questo golpe morbido mirante a cambiare la costituzione materiale del paese5 (marcatamente permeata dalle partecipazioni statali) sono stati Andreatta (ministro del Tesoro nel 1981 e padre politico di Prodi), Ciampi (allora direttore della Banca d’Italia e successivamente premier di un governo tecnico e Presidente della Repubblica); oltre allo stesso Monti6, che qualche tempo dopo il divorzio auspicò l’adozione di un sistema di emissione dei titoli di Stato a lungo termine (5-7 anni), con aste quindicinali lasciate all’anarchia dei mercati, cosa che diede il suo contributo a far schizzare alle stelle il debito pubblico. Il divorzio fu sanzionato da un semplice scambio di lettere tra Andreatta e Ciampi, al di fuori di qualsiasi dibattito circa l’opportunità di una misura così radicale e dalle violente implicazioni per la spesa pubblica. Per questo si parlò di una “congiura”7. Fu il primo passo per addomesticare la riottosa Italia alle politiche deregolatrici che cominciavano a divenire la bandiera degli Usa. Un primo passo che preparò la strada ad altri assalti controriformisti8 come l’abolizione delle indicizzazioni, le prime polemiche sull’insostenibilità del welfare, le prime proposte di riduzione dell’intervento pubblico e il sostanziale blocco degli investimenti nel settore industriale, preludio ad un suo primo smantellamento.

L’inserimento nel processo di integrazione europea, da Maastricht all’adozione della moneta unica, ha stabilito per trattato l’impossibilità delle banche nazionali di rastrellare i titoli di Stato e l’impossibilità della Banca Centrale Europea di funzionare come prestatore di ultima istanza (almeno teoricamente). Una norma quest’ultima che ha impedito di porre un freno agli attacchi speculativi contro i paesi periferici e semiperiferici dell’Eurozona nel corso dell’attuale tempesta.

Ma la favola raccontataci sul debito pubblico è anche funzionale, perché rappresenta l’occasione di ridisegnare gli assetti della società e della politica in funzione degli interessi dei poteri forti stranieri e dei loro (numericamente esigui) referenti italiani che puntano sul processo di centralizzazione dei capitali in chiaro collegamento con le centrali anglo-americane o tedesche. Il futuro disegnato per l’Italia è quello di un paese semiperiferico dell’Europa la cui funzione nella divisione internazionale del lavoro sia quella di fornire braccia a buon mercato. Il futuro dell’Italia dovrebbe essere, secondo alcuni, quello di semplice appendice di un’Europa germanizzata. Per altri invece l’Italia dovrebbe competere, ma all’interno di una Ue sempre più a guida tedesca, inseguendo la Germania nella sfrenata ed irresponsabile corsa al ribasso dei salari, fino a che non sarà più possibile cavare sangue dalle rape. L’Italia come un museo, gli italiani come una razza di schiavi.

In ogni caso il precipitoso inserimento nel processo di integrazione monetaria europea che concretamente è stato portato avanti negli ultimi decenni ha costituito lo scudo e l’alibi grazie al quale perseguire il progetto della reazione liberale9.


L’americanizzazione del sistema


L’Italia è al bivio. Con la nascita della Repubblica a seguito della Resistenza le grandi correnti politiche (socialiste, comuniste, democratiche laiche o democratiche cristiane) avevano cercato di rispondere allo storico bisogno di inserire le masse nella vita dello Stato unitario. Uno degli strumenti per risolvere questo storico problema, che affondava le radici nello stesso processo risorgimentale, erano i partiti e per ovvie ragioni soprattutto i partiti di massa, che incanalavano la partecipazione alla cosa pubblica di una fetta consistente del paese reale, che proprio per questo divenivano veicoli (chi più chi meno) dei bisogni popolari e strumento della stessa mobilità sociale in un contesto caratterizzato dall’aspirazione a fare dalle masse lavoratrici la classe dirigente del futuro.

Con luci e ombre, che non è qui il caso di indagare e che meriterebbero ben altre riflessioni, possiamo dire che questo processo, inserito nella cornice più ampia del riconoscimento dei diritti del lavoro e del ruolo fattivo dello Stato come attore che si fa carico del benessere collettivo e che si propone di dotarsi degli strumenti idonei ad inseguire questa finalità in ambito economico e sociale sulla base della “rivoluzione promessa” rappresentata dalla Costituzione, ha avuto un momento ascendente e uno discendente. Quello ascendente corrisponde all’incirca al primo trentennio di vita repubblicana ed ha portato a risultati importantissimi che solo per ignoranza è possibile negare. Ma è bene tener presente che si è trattato di un processo fortemente contrastato da forti interessi, italiani e internazionali. Quello discendente è quello che abbiamo vissuto negli ultimi decenni, con la cancellazione di conquiste sociali importantissime, dentro e fuori il mondo del lavoro (si pensi alla scuola, alla sanità…), la dismissione di un patrimonio di intervento pubblico in economia che nonostante le sue storture aveva pur sempre prodotto il più grande processo di arricchimento della società italiana nel suo complesso (certo, non all’insegna dell’equilibrio e dell’eguaglianza) e la trasformazione del sistema dei partiti.

I partiti sono diventati sempre meno ambito e strumento dell’affermazione delle esigenze delle classi popolari e sempre più macchine elettorali inserite in un sistema assai lontano dalle promesse formulate nella Costituzione della Repubblica, tollerata con un certo fastidio. Un insieme di scelte politiche volte a scimmiottare i sistemi oligarchici liberali vigenti nei paesi anglo-sassoni (in primis negli Usa, magnificati come vero e proprio modello) hanno portato all’accettazione del pensiero unico in campo economico e sociale; all’adozione del sistema elettorale maggioritario, nel tentativo di omologare progressivamente le forze politiche all’interno di un sistema forzatamente bipolare che lasciasse posto ad una gattopardesca alternanza priva di contenuti alternativi sulle questioni fondamentali nella direzione della cosa pubblica; all’allontanamento conseguente della classi popolari e delle loro istanze dalla politica. Il risultato è oggi sotto i nostri occhi.

In quelle scelte si nascondono le radici di molti dei mali che ci affliggono: disaffezione dalla politica, eliminazione della rappresentanza del mondo del lavoro dal dibattito pubblico, deregolamentazione economica e dissesto produttivo, smantellamento del welfare e impoverimento, corruzione e caduta verticale del livello della classe politica.

Con Monti il tentativo di liquidare l’eredità repubblicana ha subito un nuovo impulso. L’americanizzazione del sistema vuole concludere la fase aperta con la demolizione della Repubblica nel ’92. E’ questo il senso della fase e delle prossime elezioni politiche.


Riportare al centro il lavoro


Il contributo che una sinistra patriottica e di classe è chiamata a dare in tale contesto è certamente quello di sostenere, suscitare e cercare di collegare tra loro le lotte sociali che si svilupperanno e che già ora vedono protagonisti alcuni settori del mondo del lavoro, come la Fiom. Porsi il problema della rappresentanza degli interessi reali, materiali, delle condizioni di vita dei lavoratori è imperativo. Dopo che per decenni una certa sinistra sinistrata ha inseguito i fantasmi di altre contraddizioni che avrebbero dovuto mettere in ombra la questione capitale-lavoro, tanto da relativizzarne la centralità, ecco che la realtà ci ha posto di fronte alla più gigantesca offensiva anti-operaia e anti-popolare dell’intera storia repubblicana.

E’ ovvio cercare di organizzare la resistenza alla reazione liberale laddove vi sono ancora punti di forza nella società. Ma non pare sufficiente per riuscire ad arginare l’offensiva nemica. Per evitare che queste battaglie siano di retroguardia e far sì che invece possano rappresentare il primo nucleo di una possibile controffensiva occorre dare alle forze accumulate in tale impegno una prospettiva di cambiamento più complessiva di breve-medio termine. Ma per dare in tal senso un contributo efficace è necessario porsi il problema di come uscire dalla crisi. Sostenere le rivendicazioni sociali non basta. Sostenere la necessità della giustizia sociale nemmeno. Occorre sostenere un cambiamento complessivo della politica macroeconomica del paese in senso espansivo accompagnata da una accorta politica industriale all’interno di un qualificato rilancio dell’intervento pubblico in economia.

L’attuale debolezza non deve esimere dal porsi in quest’ottica. Sarebbe rinunciare a fare egemonia, a costruire un nuovo blocco sociale, a fare politica. Sia di monito la stessa postura assunta dalle forze reazionarie: pur in mezzo alla tempesta scatenata dalla loro ideologia esse continuano a magnificare il neoliberismo, nonostante la morte ormai conclamata del Washington consensus. Ragion per cui quelle idee, per quanto screditate, sono ancora senso comune. Qui vi è una forte carenza a sinistra. La battaglia delle idee e dei progetti, non può più aspettare. Il tempo delle proposte programmatiche è adesso o non si approfitterà del fallimento del neoliberismo per rompere la gabbia del pensiero unico, per la definizione di altri rapporti di forza nella società.


Rilanciare l’importanza della programmazione economica per uscire dalla crisi


E’ venuto il momento che lo Stato nazionale recuperi il suo ruolo propulsivo per garantire uno sviluppo che guardi all’interesse del popolo, al suo benessere, al suo futuro. E’ venuto il momento di rilanciare la programmazione economica come il mezzo attraverso il quale promuovere ed orientare una crescita equilibrata basata sull’obiettivo dell’inclusione sociale, dello sviluppo tecnologico in sinergia con la ricerca e nel rispetto dell’ambiente, dell’interesse nazionale.

Il termine programmazione è fastidioso ed è bandito dal linguaggio pubblico. I neoliberisti hanno imposto la loro egemonia in questo cruciale campo. Pubblico è stato associato volontariamente a spreco. Una classe politica parassitaria e convertitasi al neoliberismo ha, con il suo comportamento, facilitato che tale propaganda passasse. Ciò ha permesso ai grandi capitalisti italiani (ed ancor più stranieri) di fare cassa con le privatizzazioni. Ma il sistema-paese non ne ha tratto alcun beneficio, anzi. In questi anni l’iniziativa privata non si è mostrata certo meno dispendiosa per la collettività, né più illuminata. Lo “sviluppo” di questi anni, che ha visto come motore primo la finanza, è andato avanti di bolla speculativa in bolla speculativa, costruendo sulla sabbia, bruciando enormi risorse umane, materiali e ambientali.

Bisognerebbe invece ricordare che se l’Italia ha potuto diventare un paese economicamente sviluppato riprendendosi velocemente dalle macerie della guerra ciò è stato possibile in primo luogo grazie all’intervento pubblico in economia in alcuni settori strategici, come l’energia. Basti pensare che l’elettricità è arrivata nelle case di tutti gli italiani grazie alla nazionalizzazione del settore e che se avessimo aspettato i “grandi” imprenditori italiani probabilmente ci sarebbe ancora una buona metà del paese con la candela e la restante parte schiacciata da tariffe usuraie, piccole e medie aziende incluse.

Ma il ruolo del pubblico nel garantire ed orientare lo sviluppo non può essere circoscritto al caso italiano, per quanto significativo. Tutti i paesi che hanno voluto svilupparsi partendo da condizioni di arretratezza, quando non di sudditanza rispetto alle Potenze che occupavano il centro del sistema mondiale, hanno fatto ricorso, seppur in forme diverse e con intenzioni diverse, all’intervento pubblico in economia nella forma del piano o della programmazione. Di fronte al miracolo cinese occorrerebbe tenere presente che esso è stato reso possibile non semplicemente dall’apertura al mercato tout-court. Si tende a dimenticare il ruolo che in quel modello di sviluppo ha avuto invece il pubblico, tramite la proprietà statale delle industrie strategiche e tramite il piano. Ma questo è solo uno dei numerosi esempi che si potrebbero citare.

Non convince la tematica dei beni comuni come alternativi all’intervento pubblico10, perché nell’epoca dello scontro tra potenze, nell’epoca del tentativo di costruzione di grandi spazi geopolitici integrati, sotto la sfida di un imperialismo sempre più pervasivo, disconoscere il valore ed il ruolo strategico che assume la tematica della sovranità nazionale e svilire le possibilità (storicamente provate) dell’intervento pubblico in economia per sventolare la bandiera delle comunità o dei liberi comuni confusamente partecipati dal basso suona un po’ come pretendere di presentarsi ad uno scontro a fuoco con i guantoni da boxe.

Per sostenere il rilancio del welfare, della spesa sociale e per operare politiche redistributive è necessario fare determinate scelte economiche, perché la giustizia sociale non sta in piedi da sola.

Un qualificato intervento pubblico presuppone il controllo nelle mani dello Stato delle principali leve per orientare le scelte economiche, a partire dalla nazionalizzazione: del settore creditizio (anche per indirizzare i finanziamenti a determinati settori a fini produttivi e/o sociali e/o di innovazione tecnologica ecologicamente compatibile); delle aziende che operano nei settori strategici (energia, trasporti, comunicazioni, industrie pesanti o ad alto contenuto tecnologico, industrie della difesa); e di altre imprese che sarà necessario salvare dalla dismissione e dall’abbandono per rilanciarne l’attività nel quadro di una accorta politica industriale. Può essere considerato forse troppo ambizioso sostenere che devono essere inseriti nella politica economica del paese elementi di socialismo, ma sarà lo stesso incedere della crisi a rendere necessarie simili misure. Sempre se da questa crisi si vuole uscire da sinistra. L’adozione di mezze misure potrà forse soddisfare qualcuno ma la gran parte del paese, che vive sulla sua pelle la crisi e che fatica ad arrivare a fine mese, necessita di un rimedio efficace e concreto e non si ciba di quote rosa o coppie di fatto. Non avviare una risoluzione alla radice dei problemi del paese a partire dalle questioni strategiche rischia di far montare ancor più onde che possono travolgere ciò che resta della Repubblica.

Dal punto di vista dell’intervento pubblico in economia vi è un ampio patrimonio di esperienze storiche cui guardare, con spirito certamente critico ma non pregiudizialmente negativo o liquidatorio. Un patrimonio in gran parte positivo e costellato anche da significativi successi, sia nel XX che in questo inizio di XXI secolo. Sarebbe il caso di studiarlo maggiormente perché coloro che hanno archiviato le politiche di programmazione come arnesi del secolo scorso non ci hanno portato molto lontano, come ora tutti possono vedere.

Una riflessione su questi aspetti rilevanti va avviata per riprendere a sviluppare nel paese una battaglia delle idee che miri a fare egemonia e a scardinare il senso comune costruito in trenta anni di perniciosa propaganda neoliberista.

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Note

1 W. Munchau, La politica fa scoppiare la bolla Monti; in: http://www.investireoggi.it/economia/financial-times-la-politica-fa-scoppiare-la-bolla-monti/
3 L’intervista è stata realizzata da Angela Nocioni ed è apparsa su “Il Fatto quotidiano” in data 11 novembre 2012
4 Sulla sostenibilità della spesa pubblica si veda: D. Moro, Il vero problema è il fisco; in: www.marx21.it 2/1/2013
5 Per una trattazione più esaustiva di questa pagina della storia italiana si veda. N. Galloni, Chi ha tradito l’economia italiana?; Roma, Editori Riuniti università press 2012, pp. 61-94
6 “Nuova Unità”, n.7 2012
7 L. Cavallaro, La congiura dei tecnici; in: “Il Manifesto”, 29 settembre 2012
8 Sulle conseguenze di classe della politica patrocinata da Andreatta si veda: V. Maffeo, La crisi economica e il ruolo della BCE; in: AA.VV. (a cura di S. Cesaratto e M. Pivetti ), Oltre l’austerità; Roma, MicroMega 2011, pp.125-130. L’A. sottolinea come il divorzio abbia rappresentato un mutamento del regime della politica economica “realizzato in opposizione all’ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi d’interesse reali e da un cambio debole”. Un modo per erigere “un baluardo istituzionale grazie al quale politiche fiscali espansive, che avrebbero accresciuto l’occupazione e favorito la difesa dei salari reali, potevano essere rese impraticabili. Alla forza contrattuale acquisita dai lavoratori erano state contrapposte le ragioni della finanza pubblica, rese cogenti dal ‘divorzio’. […] Il bersaglio del ‘divorzio’ erano le conquiste istituzionali, prime fra tutte la scala mobile, ereditate dagli anni ’70. Si trattava, da un lato, di erodere la forza contrattuale dei lavoratori e il consenso di cui essi ancora godevano nella società e negli organi rappresentativi; su questa base sarebbe poi stato possibile cancellare gradualmente le riforme realizzate nel decennio precedente. Dall’altro lato, si trattava di stabilire un contesto istituzionale all’interno del quale era sostanzialmente esclusa la possibilità di perseguire quelle politiche economiche espansive che in passato avevano accresciuto il ruolo e l’influenza dei lavoratori nella vita sociale e politica del paese” (pp. 128-129).
9 Per una trattazione della crisi sul versante dell’eurozona rimando a: S.A. Puttini, L’ombra del IV Reich; www.marx21.it 17/12/2012
10 Mi pare vadano in questo senso le riflessioni di G. Viale, I beni comuni non sono il bene comune; in: “L’Inchiesta”, lug.-sett. 2012
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