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Berlusconi Monti: marciare divisi, colpire uniti

di Nicola Casale

Le prossime elezioni sembravano avere un vincitore annunciato, il centrosinistra. La ricomparsa di Berlusconi e l’aggressività di Monti han fatto barcollare la certezza: Bersani potrebbe vincere, ma anche no. Sarebbe la seconda volta, in poco più di un anno, che il centrosinistra si vedrebbe scippare la vittoria, o l’avrebbe dimezzata. A fine 2011, con la caduta di Berlusconi, fu Napolitano a orchestrare il governo Monti per evitare le elezioni con la sicura vittoria del Pd. Lo stesso obiettivo è perseguito ora da una combinazione di elementi. Berlusconi punta a impedire la vittoria di Pd-Sel almeno al senato, e Monti pure, assieme alla sua compagnia di giro. Un centrosinistra vincitore dimezzato dovrebbe allearsi con Monti in posizione di debolezza. Ciò provocherebbe grandi tensioni nella coalizione Pd-Sel e all’interno dello stesso Pd. Con quali conseguenze? Una probabile esplosione delle contraddizioni, finora rimandate con continui compromessi. Questa volta, però, con un soggetto interno pronto a uscirne con la sua pattuglia di parlamentari, Renzi.

Divisi in campagna elettorale, Berlusconi e Monti puntano, dunque, allo stesso obiettivo: impedire al centrosinistra di governare, e si preparano a provocare la crisi di questo schieramento per una nuova stagione di governo di centro-destra.

Berlusconi, peraltro, l’ha detto con chiarezza, con l’offerta a Monti della leadership di un rinnovato centro-destra. Monti ha rifiutato, cercando di tenere lontano, almeno in campagna elettorale, l’ingombro-Berlusconi e soprattutto la Lega, di cui teme l’“anima sociale” (che ha impedito a Berlusconi la riforma delle pensioni) e le spinte alla divisione del paese.

A onor del vero va detto che se anche il centrosinistra vincesse con numeri maggiori è difficile che il suo governo duri molto più dell’ultimo governo Prodi, rimettendo di nuovo la palla al centro-destra.

Come si spiega la paura di un governo di centrosinistra? In generale il programma del Pd non ha nulla di alternativo a Monti: contenere il debito pubblico, sostegno alle imprese per la ripresa, liberalizzazioni, riconquista armata di Medio Oriente e Africa. Le correzioni di Vendola non sono in grado di cambiarne il segno. Quel che preoccupa è la timidissima venatura “sociale” che ancora vi è contenuta, che fa temere incertezza nell’attuare passaggi decisivi su mercato del lavoro, pubblico impiego, scuola e sanità. Quando Monti invita il Pd a separarsi da Cgil, Fiom, Vendola e Fassina non lo fa per paura di questi soggetti, ma perché teme che la vittoria del centrosinistra possa rinfocolare le aspettative di lavoratori, giovani, donne, pensionati di potersi sottrarre all’infinita serie di sacrifici prevista a loro danno per “uscire dalla crisi”.

Si potrebbe pensare eccessiva la preoccupazione, in quanto tutti quei soggetti han dato magnifica prova dell’impegno a evitare ogni resistenza di massa alle politiche di Monti. Ma il problema è: come reagiranno lavoratori, ecc., agli ulteriori e peggiori sacrifici in cantiere? Se vedranno nel successo del centrosinistra una possibilità di tregua nell’attacco alle proprie condizioni, difficilmente accetteranno contro-riforme troppo pesanti. In più, potrebbero iniziare a esigere che i costi della crisi siano addebitati anche altrove, con una patrimoniale seria e una caccia all’evasione che non persegua solo i piccoli. Di fronte al rischio, Monti e Berlusconi preferiscono una sconfitta elettorale del centrosinistra e, in alternativa, preparano il terreno per sconfiggerlo subito dopo le elezioni. Allo stato dei fatti i loro progetti appaiono largamente realizzabili.

Tra Monti e Berlusconi c’è identità di intenti quanto a soggetti sociali da spremere, ma permangono differenze su altri versanti. Berlusconi è, per Monti, un ingombro perché impersona un modello di sfrenata ricerca di arricchimento e godimento consumistico che era utile nella fase precedente, ma non più ora che la crisi richiede tagli a redditi e consumi anche dei “ceti medi”. In più Berlusconi continua a coltivare l’alleanza del Nord che, in caso di insuperabili difficoltà nel trarre l’Italia fuori dalla crisi, potrebbe sconfinare nella separazione del paese in entità distinte e contrapposte. La Lega non è morta e i sentimenti nordisti continuano ad alimentarsi negli strati di piccola imprenditoria, artigiani e lavoratori settentrionali.

Un’altra differenza tra i due è nei rapporti con l’Europa. Monti si presenta ufficialmente come esecutore dei voleri europei di abbattere il debito pubblico, ma ha fornito notevole apporto a Draghi nella politica di sostegno finanziario della Bce a banche e stati in difficoltà, cara più agli Usa che alla UE, perché aiuta a sostenere il valore degli attivi finanziari tossici di cui ha bisogno in primis la grande finanza anglo-americana per restare in piedi e per alimentare la sfiducia nell’euro, impedendogli di approfittare del declino del dollaro come moneta capace di rapinare ricchezza ovunque. Il piede in due staffe tipico della borghesia italica lo tiene anche Berlusconi. Questo, però, propende, al momento dato, per accentuare la conflittualità con la Germania. L’obiettivo non è il crollo dell’UE, ma di pestare i piedi per strappare più aiuti per l’Italia, in ultima istanza, la partecipazione della UE (cioè della Germania) al debito pubblico italiano e al rilancio della crescita, con eurobond ed emissioni monetarie della Bce. Tutto ciò che fa gongolare Obama, Fed, Goldman Sachs & associati. Al di là delle intenzioni, il crescere della conflittualità metterebbe, però, a rischio la UE. Monti preferirebbe evitarlo, come preferirebbe evitare le “mattane” con cui Berlusconi aveva delineato una politica estera un po’ eccentrica rispetto a quella Usa, con le amicizie con Putin, Gheddafi e persino qualche apertura a Chavez. Degli Usa, si sa, s’ha da essere amici fino in fondo. Non si può essere “tutti americani” e, contemporaneamente anche un po’ putiniani, gheddafisti e persino un po’ chavisti.

Per quanto riguarda i soggetti sulla graticola, Monti e Berlusconi progettano di alimentare il fuoco. Dal punto di vista capitalistico, per rilanciare la crescita c’è un solo mezzo: indurre una parte almeno dei capitali parcheggiati nella finanza a tornare all’investimento produttivo. Il loro impegno è creare le condizioni adatte al ritorno, che si riducono a due: una forza-lavoro dal costo ancora più ridotto (che dismetta velleità choosy e sia deprivata della possibilità di resistenza organizzata) e l’uso della spesa pubblica, sottraendola ulteriormente al welfare e all’impiego pubblico. Una ricetta obbligata, anche se, nel quadro attuale della crisi, non v’è certezza che dia i frutti sperati e che li dia per lungo tempo. Una specie di scommessa, per la quale necessitano “riforme” ben più drastiche di quelle che il centrosinistra potrebbe varare senza alienarsi del tutto la base di consenso che ancora conserva nel lavoro dipendente, privato e pubblico, nel “ceto medio riflessivo”, tra giovani e donne. Per questo è importante sconfiggerlo alle elezioni o subito dopo, e continuare ad anestetizzare lavoratori, giovani, donne, pensionati, ecc. per fargli sciroppare il tutto senza proteste. Per realizzare l’opera è necessario attrezzare una base sociale che la sostenga. Berlusconi, dopo aver sperato in un sostituto, è dovuto tornare in scena, e sta scuotendo dalla delusione il suo elettorato riattizzandone la determinazione nel battersi contro oppressione fiscale, ostilità sociale e istituzionale verso l’impresa, giustizia ideologizzata, influenza di certi sindacati, ecc. Tutto materiale che tornerà utile allo stesso Monti (per parte sua incapace di attivare qualsivoglia soggetto sociale) quando si dovrà passare alle ulteriori misure a carico di tutti coloro che non hanno capitali da difendere e investire.

Sul piano politico e di prospettiva, insomma, Berlusconi ha già vinto le elezioni del 24 febbraio, e nulla impedisce che le possa vincere anche sul piano dei numeri elettorali.

Un nuovo soggetto entra in gioco, il M5S. Questo ha caratteri ancora in via di definizione, anche se alcuni capisaldi consentono di individuarne con precisione il percorso (si veda Nicola Casale, Grillo Anomalia o laboratorio?). Grillo sta cercando di blindare la futura rappresentanza parlamentare per cercare di evitare i suoi Scilipoti. Può darsi che vi riesca e può darsi, invece, che qualcuno dei suoi transiti a supporto di uno o l’altro schieramento. A prescindere dalle sorti immediate di questo o quello, il M5S si prepara a difendere la sua alterità da tutti gli altri sfruttandone fallimenti e difficoltà. Pronto a suonare la grancassa contro il centrosinistra subordinato ai poteri forti economici e finanziari, il centro-destra capace solo di aggredire i soliti noti, e contro entrambi irrecuperabilmente casta. Il suo progetto di rigenerazione dello stato, ri-saldamento interclassista sotto le bandiere di un nazionalismo “dal basso” continuerà a trovare adepti nei delusi di destra e di sinistra. Anche da questo lato infatti non si è affatto insensibili alle sirene nazionaliste, basti vedere con quanta facilità in molti sono caduti nel giochino anti-tedesco, scambiando le politiche di riduzione dei debiti pubblici per manifestazioni di mire imperialistiche tedesche sui paesi del sud Europa.

Un significato imperialistico quelle politiche ce l’hanno davvero –e questo porta ad un’altra questione che condiziona l’andamento politico italiano- nel senso che sono manifestazioni di crepe che la crisi può aprire in quello che è stato, finora, un unico blocco imperialista, cui l’Italia partecipa. Gli Usa esigono che l’Europa contribuisca cospicuamente a sostenere il valore degli attivi finanziari, che condizionano la propria finanza ed economia molto più di quanto le condizionino in ogni altra parte, e stanno avviando una politica di crescente aggressività nei confronti della Cina, della quale denunciano (gli Usa!) le mire imperialiste. In Europa (soprattutto in Germania) emergono preoccupazioni nei confronti di queste linee. Si preferirebbe provvedere in modo più drastico a ridurre i debiti pubblici (dopo averli gonfiati per salvare le banche) proprio per evitare che gli stati europei rimangano terreno delle scorribande della finanza anglo-americana, per cercare di ridurre l’immensa bolla finanziaria di capitale fittizio che minaccia esplosioni maggiori di quelle del 2007-08 e per difendere l’euro come moneta in grado di competere col dollaro nel captare ricchezza in ogni parte del mondo. Del pari, destano preoccupazioni le inflessioni aggressive statunitensi anti-Cina, paese con cui soprattutto la Germania ha instaurato un fecondo rapporto economico, con la fornitura crescente di macchinario e tecnologia industriale, e la incipiente currency war. Si tratta, insomma, di due ipotesi entrambe imperialiste. Scegliere tra l’una e l’altra è come scegliere la corda a cui impiccarsi.

La direzione che queste dinamiche prenderanno, nell’assetto geo-politico mondiale che la crisi scuote dalle fondamenta, influenzeranno la politica interna italiana. Per adesso prevale la tradizionale politica dei “due forni”: stare in Europa, ma condizionarne la politica per evitare che diventi soggetto troppo autonomo dagli Usa, cercando di vendersi a chi offre di più. La novità è Grillo che dà al suo nazionalismo un carattere più … nazionalistico, fuori dai vecchi schemi opportunistici. Ciò gli porterà consenso, tanto più in un quadro di ripresa del nazionalismo anche nel resto dei paesi occidentali. Ma, all’inevitabile acuirsi dello scontro inter-statale che il nazionalismo comporta, è facile prevedere che anche il suo nazionalismo finirà col vendersi a chi offre di più. A decidere, in queste cose, non sono gli individui ma i rapporti di forza tra stati.

La ripresa del centrodestra (con caratteri diversi) è favorita dal processo di anestetizzazione del fronte sociale avverso. Il contributo principale lo hanno dato centrosinistra e Cgil, che per “salvare l’Italia” hanno accettato (Pd) tutte le misure di Monti o contro cui (Cgil) hanno elevato critiche solo verbali e promosso scioperi di pura testimonianza, organizzati con modalità adatte a farli fallire. Questa “moderazione” non aiuterà a vincere le elezioni, per di più a fronte di una destra che si sta già riattivando, e soprattutto si rivelerà un pesante boomerang in seguito. Anche ammesso, infatti, che un governo di centrosinistra voglia attuare una sola delle pallidissime misure di redistribuzione più “equa” dei costi della crisi e della crescita, quali forze attive lo supporteranno contro lo scatenarsi delle resistenze di un centro-destra ricostituito e ringalluzzito? O, peggio, quali argini potrà porre a una nuova precipitazione della crisi finanziaria che imponga nuovi repentini “salvataggi nazionali” a forza di distruzioni del welfare e liberalizzazioni del lavoro?

Il sicuro fallimento del centrosinistra produrrà effetti negativi su tutta la massa dei proletari (intesi nel senso proprio del termine: chi non detiene altro che la forza-lavoro, associata o meno a competenze), che costituiscono una classe (in senso socio-economico, non, purtroppo, anche di soggettività politica) in via di inarrestabile aumento. Ai nuovi versanti della crisi e di nuovo e più duro attacco ci arrivano indebolite sia le componenti tradizionali che le nuove, i giovani e i ceti in via di precipitazione nella condizione proletaria.

I primi sono stati rappresentati da partiti e sindacati che continuano il processo di auto-logoramento su due aspetti essenziali, dal punto di vista proletario. Sul piano politico hanno consumato ogni discrimine di classe, a favore di una presa in carico dei problemi “generali”, in cui la difesa del sistema capitalistico e del capitalismo nazionale costituiscono la pre-condizione entro cui porre, in modo sempre più subordinato, le esigenze di un indefinito “lavoro”. Sul piano organizzativo i partiti “leggeri”, “liquidi”, progressivamente “personalizzati”, hanno preso le distanze da ogni militanza attiva e si sono sottratti a ogni forma di controllo “di classe”, limitando, al più, il rapporto con la massa alle “primarie” cui viene invitata una generica e liquida, a sua volta, “società civile”. Un processo analogo di “de-classazione” e di de-militanza è avvenuto anche per il sindacato che a lungo ha attratto le migliori energie proletarie, la Cgil. Resiste la sempre più parziale eccezione Fiom, ma in un isolamento e con limiti politico-programmatici che non le permettono di aggregare la forza critica necessaria per invertire la rotta generale. I secondi - le nuove componenti, proletarie o in via di proletarizzazione - non hanno precedenti conquiste da difendere e hanno degli strumenti classici del movimento operaio un’esperienza negativa.

L’azione (o in-azione) di Pd e Cgil hanno avuto influenza decisiva nell’evitare una significativa reazione di massa alle misure di Monti. Non di meno, sarebbe miope ridurre la mancata reazione al solo aspetto soggettivo. Questo ha peso rilevante, perché non è la stessa cosa investire nella mobilitazione quando è gestita da soggetti credibili sul piano politico e per dimensioni organizzative. Ma bisogna considerare anche gli aspetti oggettivi. Su questo piano il quadro in cui si è svolto il ciclo precedente del movimento operaio è mutato. Il padrone non è più fisicamente individuabile, e quando pure lo sia appare depotenziato e sovrastato da forze contro cui non può nulla, pena la scomparsa in quanto capitalista. Processo analogo è avvenuto per lo stato, la cui onnipotenza sembra essersi trasformata in potenza moltiplicata solo sul piano militare (all’esterno e all’interno), mentre è divenuta una quasi impotenza sul piano finanziario ed economico. Il precedente ciclo di lotta proletaria aveva strappato migliorie di lavoro e salario ai padroni e riforme “di struttura” allo stato giovandosi degli orizzonti nazionali in cui il capitale si muoveva. Da quando il capitale ha travalicato ogni frontiera, e la stessa figura del capitalista si è come smaterializzata, il modello politico/sindacale di quel ciclo di lotte è andato in crisi. Ciò provoca disorientamento e incertezza.

Su un altro aspetto le abitudini del passato non hanno più fondamento oggettivo. Per decenni la crescita capitalistica ha apportato un miglioramento della condizione proletaria. A prezzo di dure lotte, non di meno con risultati tangibili. Negli ultimi due decenni il circuito virtuoso si è interrotto, la crescita è avvenuta in assenza di miglioramenti, anzi con peggioramenti. Con la crisi interviene un nuovo passaggio: la crescita può avvenire solo se il proletariato rinuncia alle conquiste precedenti. L’assunto crescita=miglioramento delle condizioni proletarie è ormai capovolto, tuttavia la coazione a ripetere porta la massa proletaria a credere che il vecchio legame possa essere restaurato. Che si possa uscire dalla crisi, anche grazie ai propri sacrifici, ri-creando una stabile crescita in cui riconquistare almeno in parte quanto ceduto (o, per le nuove generazioni, conquistare qualcosa). Il sogno di ritorno al passato non alberga solo nella coscienza delle masse, ma popola (o spopola) anche in tutta la sinistra che si impegna, e si ingegna, a ricercare soluzioni per rilanciare il capitalismo con iniezioni di keynesismo, recuperi nazionali di “sovranità monetaria”, modelli di sviluppo “verdi”, “alternativi”, ecc. Pure in questa sinistra, sia quando si affianca al Pd per condizionarlo, sia quando presenta liste autonome per condizionarlo dopo le elezioni, è radicata la convinzione che per uscire dalla crisi occorrano soluzioni “buone per tutti”, che salvino, cioè, il sistema capitalistico e permettano, così, di salvaguardare anche le condizioni proletarie. Utopie dure a morire, ma che non aiutano certo a rimuovere gli ostacoli alla ripresa di mobilitazione, a de-anestetizzare il proletariato.

Per questo anno sono in molti (a partire da Monti) ad aspettarsi “crisi sociali” più acute di quelle dell’anno trascorso. Impossibile fare pronostici. Gli ostacoli alla massiccia ripresa di mobilitazione proletaria sono tanti, e di varia natura: politica, sindacale, ideologica, organizzativa. Nessuno può, però, essere efficacemente affrontato se non si comincia a dare un primo, determinante, passo: porre in modo deciso le proprie autonome rivendicazioni, i propri autonomi interessi di classe. Negli ultimi anni c’è stata, in Italia, una sola esperienza che sia andata in questa direzione, la lotta degli immigrati del settore logistico, che ha rivendicato condizioni di lavoro e di vita più dignitose senza farsi irretire da nessuna considerazione sull’andamento “generale” degli affari e di quelli dell’azienda. Un esempio prezioso, la cui propagazione non dipende, naturalmente, solo dalla diffusione della sua conoscenza, ma, soprattutto, dall’esaurirsi della speranza di una soluzione della crisi “comune a tutte le classi”.

Ci si dovrà, poi, porre un insieme di questioni. Come generalizzare la lotta, intrecciandola con le tenaci resistenze su aspetti “territoriali”, “ambientali”, ecc. apparentemente locali ma di valore generale. Con quale programma, mettendo, magari, a frutto le molte intuizioni maturate nelle lotte dal basso per i “beni comuni”, a partire dai primi movimenti sudamericani su questo terreno. Con quali organizzazioni. Come confrontarsi alla stessa scala su cui il capitalismo si è ormai collocato, quella internazionale. Come portare dalla propria parte quei settori che credono di liberarsi dalla condizione proletaria inseguendo la prospettiva di riscatto individuale, finendo con il fare da puntello politico ai propri carnefici, ecc.

Ma nessun secondo passo si può mai fare se non si comincia a fare il primo.

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