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quote rosse

Intervista a Vladimiro Giacché

di Bruno Settis e Francesco Marchesi

Incontriamo Vladimiro Giacché il 2 febbraio a Pisa, dove è venuto a partecipare all’Assemblea pubblica di Rivoluzione Civile che si è tenuta al CEP, in quanto membro del direttivo dei Comunisti Italiani e candidato alla Camera in Toscana. Di formazione filosofica (alla Scuola Normale) e tradizione comunista (il secondo nome è Ilio), ha lavorato nel settore finanziario pubblico e privato. Negli ultimi anni Vladimiro è emerso in Italia come un penetrante commentatore della crisi, intrecciando la critica dell’ideologia (La fabbrica del falso, DeriveApprodi, seconda ed. 2011) con quella delle politiche economiche (oltre all’attività giornalistica su Il Fatto Quotidiano, Pubblico e altrove,Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Aliberti, seconda ed. 2013). Insomma, con il contributo che Vladimiro fornisce all’elaborazione delle linee di proposte economiche della lista di Rivoluzione Civile (di cui abbiamo già discusso, e torneremo a discutere, in altri articoli), ci ricorda che nella società civile ci sono anche i comunisti. E, infine ma non ultimo, è sempre garantita una chiacchierata piacevole.


Qual è la posizione di Rivoluzione Civile in merito alla crisi del Monte dei Paschi di Siena, in relazione, in particolare, al problema dell’infiltrazione delle banche da parte della politica, da molti considerata la causa scatenante di questa crisi?


Noi riteniamo che l’infiltrazione dei partiti in una economia, si suppone, sana non sia l’origine del crack di MPS. Pensiamo invece che questa affondi le sue radici nel periodo della massiccia privatizzazione del sistema bancario italiano: all’inizio degli anni ’90 il 73% delle banche italiane era controllato dallo stato, mentre alla fine del decennio questa percentuale risultava esattamente dello 0%.

Erano state privatizzate tutte le banche commerciali (ad esclusione del caso particolare del credito cooperativo, comunque non pubblico in senso stretto), tutte le banche di credito a medio-lungo termine ed infine l’unica banca di sviluppo che avevamo, ossia il Mediocredito Centrale. Alcuni degli omologhi stranieri di questi istituti sono tuttora saldamente in mano pubblica.

A partire da questo momento le banche iniziano a ragionare, correttamente dal loro punto di vista, in un’ottica squisitamente privatistica e di breve periodo, volta soprattutto, come si dice, alla creazione di valore per gli azionisti. Inoltre tendono a seguire le mode del sistema bancario internazionale, una delle quali è la corsa al “gigantismo bancario” che si è registrata intorno alla metà del primo decennio del nuovo secolo: tra il 2006 e il 2007 si fondono Banca Intesa e il San Paolo di Torino, Capitalia e Unicredit, ed infine a Novembre 2007, quando già sono chiari i segni della crisi economica imminente, il Monte dei Paschi acquista Antonveneta ad un prezzo assolutamente irragionevole. La ragione di questa corsa è in tutti i casi la stessa: conseguire “dimensione” in modo da poter acquistare quote di mercato, in altre parole una rendita oligopolistica, nonché valorizzare il capitale. In tutti e tre i casi menzionati queste operazioni non hanno impedito la svalorizzazione del capitale.

Questo caso dimostra però un’altra cosa: privatizzazione non significa fine dell’influenza della politica all’interno del sistema bancario. Metafora di ciò è il nuovo presidente dell’ABI, dopo le dimissioni di Mussari, è Antonio Patuelli, il quale partecipava alle tribune politiche per il Partito Liberale prima di Carosello quando ero ragazzo.

Per quanto riguarda le cose da fare, certamente i cosiddetti Monti-bond, cioè l’acquisto di titoli di MPS da parte dello stato per una somma di 3.9 miliardi di euro, sono un errore. Non perché lo stato non debba intervenire, ma al contrario perché deve farlo entrando nel capitale della banca, e non con un prestito che non gli garantisce alcun controllo sulla gestione della banca stessa. E deve farlo per due motivi: da un lato tutelare l’investimento che si fa in banca, ma soprattutto per iniziare a recuperare il concetto che il credito è un bene pubblico, concetto completamente dimenticato negli anni della privatizzazione selvaggia, ma recentemente tornato di moda ad esempio nel Regno Unito dove è stata creata una banca pubblica per il credito alle piccole e medie imprese. Questo si inserisce in una visione più ampia che noi vorremmo riaffermare anche con la creazione di un nuovo istituto pubblico per il credito a medio-lungo termine, ed in generale una azione volta ad un riequilibrio tra settore pubblico e privato: è proprio lo squilibrio a favore di quest’ultimo una delle cause della crisi. Continuare nella direzione di un dimagrimento del settore pubblico, aprendo ancora più spazio agli operatori privati (il cosiddetto “mercato”), significa curare la malattia col veleno che l’ha generata.

 
Tu sei non solo un addetto ai lavori nel mondo della finanza, ma anche uno studioso dei meccanismi ideologici. La questione Monte dei Paschi è interpretata dalla grande maggioranza della stampa attraverso due classiche dicotomie: da un lato quella economia reale buona contro finanza cattiva, dall’altro mercato sano contro politica corrotta. In entrambe le opzioni una entità malata corromperebbe la salute del libero mercato. Come si esce a livello di discorso pubblico da queste letture che escludono in principio una posizione come quella che ci hai appena presentato?

Se ne viene fuori, a mio parere, con la prassi e con la verità. In questo senso è necessario far notare che nelle condizioni attuali ad una banca gestita in vista della massimizzazione del valore privato, prestare i soldi non è conveniente. Non perché si facciano molti soldi in altri ambiti, i rendimenti su tutti gli asset reali sono piuttosto bassi, e lo sono anche quelli puramente finanziari, ma piuttosto perché le sofferenze dell’economia europea si riverberano sulle banche in termini di crediti inesigibili o di dubbia esigibilità. Quindi investire molto nel credito risulta rischioso. In questo quadro è necessario l’intervento dello stato, poiché non si può costringere un operatore di un istituto privato quotato in borsa, che deve sottoporsi a quello che Hans Tietmeyer chiamava il «plebiscito permanente dei mercati», ad agire contro i suoi interessi. Un esempio apparentemente lontano da quello di cui stiamo parlando ma in realtà pertinente è la Porsche, che qualche anno fa si è delistata dal listino tedesco in quanto le logiche del mercato finanziario (“la dittatura delle trimestrali”), dissero i suoi dirigenti, impedivano loro di ragionare nel lungo termine. E’ a questo livello che dobbiamo agire: un riequilibrio molto generale del peso del settore pubblico e di quello privato, completamente sbilanciato negli ultimi decenni a favore di quest’ultimo.


Il tuo ultimo libro, Titanic Europa, riporta molte dichiarazioni di tecnocrati europei giunti ad una posizione critica verso le politiche di austerity. Sull’analisi però anche economisti “di sinistra” hanno punti di vista differenti: nel tuo libro si sottolinea come il crollo del potere d’acquisto nei paesi periferici dell’UE incida negativamente sulle esportazioni della Germania, creando potenzialmente una spaccatura nelle classi dirigenti tedesche rispetto ad una tale gestione della crisi. Altri studiosi, come Luciano Gallino o Giorgio Gattei, ritengono invece che un dumping salariale generalizzato possa essere nei migliori interessi degli imprenditori tedeschi in quanto produrrebbe un ulteriore abbassamento delle retribuzioni anche in Germania. Come vedi queste differenti letture ed in generale la situazione europea?


La Germania ha già effettuato in questi anni un dumping salariale molto forte al suo interno, anche se in Italia se ne parla poco perché chi scrive di queste cose in genere conosce molto poco della situazione tedesca. La Germania ha avuto dal 2000 al 2013 un aumento di produttività del 13,4%, di cui poco più del 2% è stato trasferito ai salari lordi. Questa è una politica che, in particolare se applicata in un’area a moneta unica, risulta distruttiva per i partner: oggi si vuole applicare un rimedio che è peggiore della malattia, esportando questa deflazione salariale ai paesi periferici della UE. Due sono i difetti di questa politica: da un lato si tratta di un modo ingiusto di affrontare la crisi, ma soprattutto, in un’ottica di sistema, si tratta di provvedimenti distruttivi. Le politiche di deflazione salariale in un’area economica fortemente integrate risultano infatti efficaci in un solo caso: quando vengono fatte in un solo paese. Generalizzandole la contrazione dei consumi diventa tale che nessuno, come si vede, ci guadagna, neanche con le esportazioni. E’ un dibattito non nuovo, ma sul quale già Keynes offrì il suo contributo.

Ora, tutto questo apre uno spazio, seppur stretto: il problema infatti è che una politica centrata sulla deflazione salariale non risulta da una scelta contingente, ma è un tratto saliente dei trattati europei. E’ un aspetto su cui ho spesso insistito: vi sono, nei trattati europei, un certo numero di politiche su cui si decide a maggioranza, e che quindi sono “comunitarizzate”, cioè uguali per tutti, mentre restano alcuni ambiti su cui si decide all’unanimità, e che di conseguenza rimangono a discrezione dei singoli stati. Questi due ambiti riguardano le politiche fiscali e le politiche di protezione del lavoro. Non a caso, poiché è evidente che se uno stato intende tassare le imprese quanto è giusto tassarle, senza trasferire il peso di queste imposte sulle persone fisiche, ci sarà sempre un paese come l’Irlanda ad esempio, che tassa le imprese al 12,5%, permettendo così una via di fuga e una concorrenza fiscale al ribasso.

Questa roba qua è radicata nei trattati, e neanche una maggiore unione politica, vagheggiata da qualcuno molto speranzoso anche dalle nostre parti, risulta di per sé un fattore di riequilibrio. Un esempio di unione politica che non ha favorito una convergenza economica tra le varie zone del paese è esattamente quello dell’unificazione della Germania: questo, che sarà probabilmente l’argomento del mio prossimo libro, è un caso interessante perché dimostra come l’unificazione politica e i conseguenti trasferimenti non siano sufficienti a rimettere in piedi un paese in ginocchio a causa della deindustrializzazione. I passaggi di questa storia sono molto simili a quello che vediamo oggi in Europa: unione economica come driver dell’intero processo, conseguente apprezzamento della moneta annessa (il marco della DDR ebbe un apprezzamento del 300%) con conseguente uscita dal mercato dei prodotti denominati in quella valuta, e quindi disoccupazione di massa, deindustrializzazione, privatizzazioni a tappe forzate (spesso condotte in modo dubbio), ed infine emigrazione dalla parte povera verso la parte ricca. Tutte queste cose stanno accadendo oggi. A questo punto il paese “forte”, che ha imposto l’apprezzamento della valuta al paese debole, esporta merci e servizi, ma permane, e anzi si accentua nel tempo, uno squilibrio territoriale molto forte. Questo esempio mostra quindi come l’unificazione politica e i trasferimenti dal paese ricco al paese povero non siano sufficienti, a queste condizioni economiche e valutarie, per riequilibrare le differenze. In tal senso una accelerazione sull’unificazione politica europea risulterebbe una “fuga in avanti” e probabilmente un salto nel buio.

 
Attraverso alcuni documenti più o meno clandestini è emersa nel corso dell’ultima settimana una posizione più definita del PD sulla questione Europa e austerity: la soluzione indicata da Fassina sarebbe, da un lato, un lavoro politico sulla SPD tedesca per allontanarla dalla sostanziale identità di vedute che ha avuto in questi mesi con il governo della Merkel, dall’altro la richiesta della celebre “golden rule”, cioè la possibilità di non includere nel bilancio dello stato gli investimenti produttivi, in vista di provvedimenti di sviluppo da sbloccare subito dopo le elezioni. Il tutto nel quadro di uno scambio, in cui all’Europa si concederebbe la richiesta del controllore esterno sui bilanci dello stato, mentre all’interno si assicurerebbero a Confindustria ulteriori anni di moderazione salariale. C’è una sopravvalutazione dell’efficacia del triangolo socialdemocratico? E la golden rule da sola può essere sufficiente per invertire la tendenza recessiva dell’economia italiana?

La verità è che la SPD è appunto sulle posizioni della CDU, avendone coperto l’operato in questi anni, ed essendo risultata più volte decisiva per l’approvazione di provvedimenti, aggiungendovi solamente qualche clausola non molto rilevante. Wolfgang Münchau, giornalista del Financial Times da noi noto per alcune, ineccepibili, critiche a Monti, ha scritto in un suo pezzo che la SPD non ha fatto reale opposizione ai provvedimenti della Merkel, e che l’unico partito che ha votato materialmente contro queste misure è stato la Linke. Da questo punto di vista trovo che il profilo negoziale scelto dal PD non sia accettabile: è masochistico insistere sul controllore europeo dei bilanci, ed è singolare la scelta di non adottare un approccio negoziale più duro, così come ha fatto Monti con l’appoggio degli stessi democratici, ad esempio sulla supposta unione bancaria europea. Mi riferisco in particolare ad uno dei tasselli di questa unione, cioè la supervisione da parte della BCE sulle banche nazionali, che è saltata sostanzialmente per volontà tedesca e ridotta solo alle banche che hanno asset superiori ai 30 miliardi di euro. Tutto ciò a tutela delle loro banche medio-piccole, che hanno un sacco di problemi di bilancio. E’ quindi curioso che non si riesca a negoziare con i tedeschi su una base di parità: loro perseguono ferocemente i loro interessi, noi non facciamo altrettanto con i nostri. In questo quadro l’atteggiamento del PD è per certi versi più pericoloso di quello del PDL, il quale, per motivi ovviamente demagogici, sta però dicendo che non bisogna limitarsi a fare i compiti a casa assegnati dalla Merkel. Loro stessi in realtà non hanno, ad esempio, messo il veto durante la costruzione del fiscal compact, ma dire, come fa Bersani in questi giorni, che se avessimo fatto tutti i compiti a suo tempo oggi non avremmo nessun problema, significa non aver capito nulla della vicenda della costruzione europea.


A proposito di “nostri interessi”: che ruolo gioca nella crisi la ripresa delle guerre dell’occidente ad esempio verso l’Africa (Libia, Mali)? Stiamo assistendo ad una nuova fase di puro saccheggio, sebbene l’Italia abbia perso numerosi contratti nel caso libico, si tratta di puro e semplice servilismo, oppure c’è un tentativo di far fronte alla crisi attraverso quello che ai tempi di Reagan era definito keynesismo militare?

La forte proiezione, anche militare, di Europa e Stati Uniti nei confronti dell’Africa si spiega secondo me principalmente nell’ottica di un contenimento dell’avanzata cinese. Al di là degli interessi per le risorse, che ci sono, c’è proprio una questione geopolitica in Africa: la Cina ha infatti una forte influenza sul continente, anche per merito di un approccio molto intelligente nei confronti di questi paesi nel periodo in cui l’occidente voltava loro completamente le spalle. Emblematico il caso dell’Angola, paese molto indebitato a cui neanche la Banca Mondiale prestava più, completamente reinfrastrutturato dai cinesi, ovviamente in cambio dell’accesso al petrolio.

Del resto c’è in parte anche in atto qualcosa come una nuova politica di keynesismo militare (definizione peraltro impropria), che però negli Stati Uniti fa i conti con un debito che è crescente: ossia, se si tenta come ha fatto Obama di ridurre le spese militari si registra immediatamente un arretramento dell’economia nel suo complesso, come accaduto nell’ultimo trimestre, proprio a causa dei tagli in questo settore. C’è una stasi reale su questo proprio a causa del debito, ma d’altra parte non viene meno l’importanza strategica che questo settore ha in quel paese.


Ultima questione, evasione fiscale, di cui si parla molto in campagna elettorale, e di cui hai già parlato. Qual’è la differenza tra la posizione di Rivoluzione Civile e la, per così dire, posizione unificata di tutti gli altri su questo? In altre parole, c’è bisogno di una lotta senza quartiere a tutti i livelli come più volte annunciato da Monti ma poi fatto solo in parte, oppure è necessario approcciare la questione senza moralismi e nella direzione di un riequilibrio generale della fiscalità italiana, affiancando ad un ripristino di una reale progressività delle imposte un lotta all’evasione che parta dalle grandi ricchezze?

Il tema dell’evasione fiscale, ed in generale della criminalità economica, nel nostro paese non è un tema giudiziario o morale, ma un ambito che impatta immediatamente sul nostro futuro economico. Questa infatti incide in primo luogo sulla sostenibilità del bilancio pubblico, che non può continuare a sostenere un mancato gettito per 120 miliardi ogni anno. In secondo luogo sull’equità, in quanto le mancate entrate sono “coperte” da una eccessiva pressione fiscale su chi paga, cioè i lavoratori dipendenti principalmente a reddito fisso ed i pensionati. Infine c’è un problema di competitività, poiché se una parte delle imprese del paese attua questa autoriduzione totale o quasi dei costi si genera qualcosa come una legge di Gresham per le aziende, per cui l’impresa cattiva scaccia quella buona. Tutto ciò è in atto: il paese è poco sostenibile, diseguale, e poco competitivo con grandi squilibri al suo interno.

La lotta all’evasione deve essere fatta, ma fatta bene, facendo cioè in modo che coloro che hanno sempre pagato beneficino immediatamente dei risultati conseguiti: qui emerge nuovamente la questione del fiscal compact, non è infatti possibile pensare di recuperare evasione ed elusione per destinarla al ripianamento del debito. Questa ricchezza deve rientrare nell’economia. Dire questo non è sintomo di un atteggiamento particolarmente poliziesco, la prima patrimoniale in Italia è proprio la lotta all’evasione fiscale. La stessa patrimoniale propriamente detta dovrebbe essere calibrata, e ci stiamo lavorando, rispetto alla coerenza tra beni e redditi.

Ragionando in questa maniera ritengo che potrebbe essere risolta una parte significativa dei problemi fiscali di questo paese, che ruotano tutti intorno a questa questione: la stessa alta pressione fiscale è legata al fatto che molti pagano per altri.

 
Ma è possibile andare effettivamente a prendere le grandi ricchezze, le quali hanno certamente più di altre la possibilità di movimenti elusivi? La vulgata vuole infatti che queste ultime siano in parte non identificabili, con la stretta che conseguentemente cade verso il basso.

Gli strumenti ci sono attraverso ad esempio gli incroci tra vari archivi (in particolare tra quelli delle banche e quelli dell’amministrazione finanziaria). Il problema è stato un altro: con Berlusconi, ma anche con Monti, non è mai stato dato sufficiente empowerment a chi deve lavorare sulla questione, non c’è mai stata una esplicita copertura politica della lotta all’evasione, mandando messaggi anche allusivi quando non complici sul ritiro del redditometro. Ripristinare un diverso concetto di Stato significa anche rimettere le cose in chiaro su questo fronte.

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