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A proposito di una polemica diventata personale che potrebbe essere invece un’occasione importante di dibattito per un partito come il Pd e per noi, diciamo, di sinistra

di Christian Raimo

Probabilmente l’avete seguita questa notizia. C’è una ragazza, una donna diciamo pure, di 36 anni, Chiara Di Domenico, che viene invitata sul palco di un’iniziativa del Pd a parlare per otto minuti della sua condizione di lavoro: una precaria dell’editoria (come oggi sintetizzano tutti i giornali). In un climax dell’intervento, che trovate qui per esempio, Chiara cita un’altra ragazza, o donna, Giulia Ichino, 34 anni, senior editor della narrativa italiana di Mondadori, figlia del giuslavorista Pietro, che al contrario di molti suoi coetanei precari, iperflessibili, forse per quel cognome passe-partout, insinua Chiara, è riuscita a farsi assumere da Mondadori a soli 23 anni. La replica di Giulia Ichino arriva in una nota in cui lei sostanzialmente cerca di sfuggire alla polemica, ma si limita a ricordare semplicemente che tutto quello che è riuscita a raggiungere nel suo lavoro l’ha fatto con i suoi mezzi e grazie ai propri meriti: forse è stata fortunata un po’, sicuramente non raccomandata, dice.

Il giorno dopo la storia crea, come è facile immaginare, reazioni a tutto campo, fazioni che si mescolano. Solidarietà a Di Domenico, solidarietà a Ichino. Lodi al Pd (poche, a dire il vero), critiche al Pd (molte a dire il vero, da Luca Sofri a Gianni Riotta a Pierluigi Battista a Antonio Polito a Riccardo Luna sull’Huffington Post – giornale che aveva dato rilievo alla vicenda per primo – a Linkiesta, etc… ).


Ora, quello che mi piacerebbe fare con questo post è una piccola mossa del cavallo, evitando di entrare nella falsa contrapposizione precaria-raccomandata, invidiosa-meritevole,

cercando di volare alto su tutte quei commenti che parlano di sana competizione, di scivolare indenne tra gli schieramenti (conosco bene di persona Chiara Di Domenico, e di persona anche se meno bene Giulia Ichino e stimo la professionalità di entrambe) e provando a portare la discussione lì dove sembra che non voglia mai andare.


La retorica con cui si dibatte da ormai un bel po’ di anni di precari, conflitto generazionale, casta, raccomandazioni, etc… è una retorica che ha al centro un falso amico, un concetto sfuggente e autocontradditorio: quello di “meritocrazia”. Anche qui i due discorsi Di Domenico vs Ichino si incagliano su questo scoglio. Il primo dice: non viene rispettata una gerarchia meritocratica che premierebbe altri. Il secondo dice: la mia carriera, il mio lavoro è il frutto di scelte meritocratiche.

Il punto è che, come faceva notare in quell’arguto pamphlet distopico che è The rise of meritocracy, Michael Young – l’uomo che proprio coniò il termine meritocrazia, cercare di impostare una società più giusta secondo regole meritocratiche si rivela un controsenso se non addirittura un dispositivo perverso capace di creare un regime ancora più ingiusto. Perché la questione, invece di risolversi, si sposta, si allontana. E non è più: come rendiamo una società più democratica, o – come recita la Costituzione – uno Stato capace di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo. Ma: chi lo decide il merito? Chi ha deciso che le persone che Chiara Di Domenico giudica meritevoli lo sono? Allo stesso modo, la carriera di Giulia Ichino e il suo lavoro sono giudicati secondo criteri meritevoli, e quali e da chi?

Meritocrazia
, parola plastica e magica, si svela ogni volta come una matrioska vuota. Ognuno ha i suoi criteri di premio al merito. In definitiva: chi giudica i giudici? L’utopia meritocratica vagheggiata da Young diventava alla fine del suo stesso libro una distopia iperelitista, i criteri obiettivi si rivelavano ovviamente abritrari, a una casta succede un’altra casta etc…


Per questo sarebbe interessante tentare di partire da un’altra parola-chiave che spesso la sinistra dimentica per raccattare dei succedanei poco fruibili: parliamo dell’uguaglianza. E per parlare di uguaglianza bisogna a mio avviso sempre partire da sé.

Dunque eccomi. M’immagino su quel palco del Pd, e mi chiedo che discorso avrei fatto. Avrei preferito essere più teorico, ma se fossi stato costretto a raccontare la mia storia, avrei detto: buongiorno compagne e compagni, sono un privilegiato. Ho avuto una famiglia che mi ha permesso di studiare, ho fatto una scuola pubblica ottima e un’università pubblica altrettanto formativa. Questo è stato possibile grazie al potere d’acquisto dei redditi medio buoni dei miei genitori (un’insegnante e un professionista, negli anni ’80 quando ancora i salari valevano più delle rendite) che mi hanno consentito di proseguire gli studi fin dove volevo. Se penso ai figli della donna di servizio che veniva a casa dei miei quando ero piccolo, mi sento appunto un privilegiato. I redditi bassi della madre non gli consentirono di fare il liceo né l’università.

Lo Stato, direi, avrebbe il compito di ridurre queste disuguaglianze, che negli ultimi anni ho visto invece aumentare a dismisura. La riforma dell’università ha di fatto creato un’involuzione classista: ci sono università di serie a e di serie b, le lauree brevi non danno quasi nessuna qualifica professionale, l’accesso al mondo del lavoro o meglio l’avvicinamento al mondo del lavoro avviene quasi sempre attraverso master molto costosi che spesso funzionano da selezione per censo dei laureati.

Il tanto citato Don Milani, diventato negli anni recenti un santino della sinistra, aveva ben presente qual era il compito dello Stato, e rideclinava così la lotta di classe tra persone che hanno conoscenze diverse: il padrone sa 100 parole, l’operaio 10: il padrone è padrone per questo motivo – semplificava e giustamente.


La domanda seria e ineludiibile che va fatta a Bersani è: vogliamo dunque reinvestire in una scuola e in un’università pubblica di massa? Che ne facciamo, di quel catafalco meritocratico chiamato Anvur, lo teniamo o lo buttiamo a mare?


Ancora, chi se l’è inventato il Pacchetto Treu, che l’anno scorso ha festeggiato quindici anni? I quindici anni migliori della mia vita, mi verrebbe da dire (avevo ventidue anni quando fu varato). Il Pacchetto Treu sta continuando a dare i suoi frutti marcissimi attraverso l’ennesima variazione sistemica e moltiplicazione dei contratti di lavoro. La riforma Fornero è soltanto una variante del ceppo di virus base.

Eccoci. Lavoratore dell’editoria X e lavoratore dell’editoria Y possono comodamente oggi avere inquadramenti completamente diversi: persino nella stessa azienda possono convivere – lo sappiamo bene – partite Iva, assunti a tempo indeterminato, assunti a tempo determinato, co.co.pro, gente pagata con ritenuta d’acconto, stagisti non pagati, stagisti rimborsati delle spese… magari con le stesse mansioni.

Questa frammentazione ha prodotto da una parte una vaporizzazione di qualunque addentellato sindacale (con chi mi devo riconoscere, con chi faccio le mie battaglie sul lavoro, chi è la mia controparte?), dall’altra la traslazione di qualunque forma di lotta di classe in un conflitto fratricida o sororicida, alle volte mascherato alla bell’e meglio da conflitto generazionale.


Non vi pare assurdo – complice il modello semplificatorio della comunicazione del Pd – che invece di esserci stato questo piano di confronto politico, si sia ancora una volta in un contesto di dibattito, preferito usare delle retoriche monche: quella della testimonianza, quella della vittima, quella della solidarietà (l’abbraccio di Bersani a Chiara Di Domenico – consolatorio, paternalista – che in questo modo neutralizzava la critica interna che Chiara aveva portato proprio alle misure del lavoro adottate dal centro sinistra a proposito del riconoscimento della professionalità). E le stesse retoriche monche si sono ovviamente sviluppate nella reazione mediatica: personalismi, accuse incrociate, solidarietà ancora, scudi alzati per la meritocrazia…

Cosi, ancora, l’altro aspetto obliterato dalla discussione pubblica è proprio quello che invece sarebbe dovuto emergere, quello del lavoro. Il lavoro merita rispetto a prescindere da tutto o no? In un mondo in cui i beni immateriali acquistano sempre più spazio nella produzione e nel consumo, si può trovare un modo per tutelare nel miglior modo possibile un settore delicato come l’editoria o lo vogliamo lasciare alla giungla mercatista più brada?

E ancora ancora, andando più in profondità, la polemica Chiara Di Domenico – Giulia Ichino, forzatamente incentrata sulla rivalità di due vicende personali, non ha di fatto cancellato dalle possibilità di questo scontro il confronto più ragionevole tra editoria piccola e grande, con quello che vuol dire oggi in termini di costi del lavoro, politiche culturali e anche linee editoriali ossia progetti culturali? Cosa vuol dire lavorare in una casa editrice come la Mondadori che quest’anno è riuscita a non crollare come tutte le altre solo grazie alle Cinquanta sfumature, per fare l’esempio più stupido? Come ci s’interroga su queste contraddizioni?


E infine: c’è sempre (si spera) un momento in cui noi passiamo dalla parte degli esclusi a quella degli inclusi. Anni di precariato e finalmente ci fanno un contratto come si deve, anni lontano dalla propria città e finalmente ritorniamo vicino ai nostri amici, anni di aiuti da parte dei genitori per arrivare a fine mese e ora riusciamo anche a risparmiare qualcosa… La domanda che ci si pone a questo punto è più radicale di tutte le precedenti: ora che siamo noi nel cerchio degli inclusi, cosa stiamo facendo per non escludere? È questa la domanda più dura che mi faccio ogni giorno, dal basso dei miei piccoli privilegi di adulto con uno stipendio fisso da insegnante. E una domanda simile la girerei a Chiara Di Domenico quando si sentirà meno pura o a Giulia Ichino quando si sentirà meno ferita: fa qualcosa perché altri abbiano la stessa possibilità che ha avuto lei a 18, a 20, a 23 anni? Si batte perché ci siano più assunzioni? Battaglia per migliori condizioni dei lavoratori dell’editoria? Sarebbe disposta a ridursi lo stipendio per dare un piccolo contributo a un praticante di 23 anni? Il punto non è la qualità del lavoro, ma sono i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza. Per questo in fondo l’unica domanda che veramente conta la possiamo rivolgere a chiunque solo e soltanto se prima l’abbiamo rivolta a noi stessi.

Ed è questa: a che cosa sarei capace di rinunciare per sentirmi più vicino alla condizione di qualcun altro? A quali soldi, tempo, possibilità saprei rinunciare per darli al figlio della donna di servizio che andava dai miei? Quali battaglie sto facendo per lui?

 

[Ps. Fatemi riconoscere un po' del mio debito a Federica Sgaggio e al suo libro "Il paese dei buoni e dei cattivi" che mi ha ispirato parte di questa prospettiva sulla retorica della meritocrazia]

[Pps. Comunque più ci penso e penso ai ragionamenti che faceva recentemente Loredana Lipperini e più penso che un’altra questione importante da riformulare nella vicenda Chiara Fortebraccio Di Domenico e Giulia Ichino sia quella della rappresentanza.
Perché un errore, a ragion veduta, credo sia andare a parlare in un contesto politico a livello personale. Come testimone, come esempio, come “una”.

Per questo si è molto insistito in questi anni per creare piattaforme di lotte condivise, reti, etc…
Questa modalità personale presta il fianco a una mancata assunzione da parte del Pd di una responsabilità rispetto alle domande espresse. (Si può abbracciare, neutralizzandone il contenuto dialettico delle parole e mostrandosi empatici, una persona che parla di sé, non una che rappresenta delle idee che partono da una piattaforma di discussione) e dall’altra parte sia una strategia politica debole rispetto a coloro che informalmente (su internet, o sui giornali) sono rappresentativi.]
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