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Né totem né tabù*

di Sergio Labate

“Mi interessano le cose
che stanno per diventare qualcos’altro”
(Franco Arminio)

1. Premessa sul tempo uggioso che annuncia la primavera

Le macerie che le recenti elezioni ci costringono ad abitare qualcosa hanno cambiato, nelle nostre convinzioni. Vi sono tante prove di questo abitare spaesato cui siamo costretti. Ma non colgo disincanto, quanto sollievo: come se la necessità di spostarsi dal punto cieco in cui eravamo finiti prevalesse sul timore dell’ignoto verso cui ci dirigiamo. Questo strano impulso ad affrontare le cose proprio nell’istante in cui stanno diventando qualcos’altro da se stesse vale anche per la questione del rapporto tra democrazia dei movimenti e democrazia della rappresentanza. È da più di un decennio (da Genova 2001) che l’eventualità di un nodo tra movimenti e politica si lacera e si consuma tra due estremi.

Da un lato c’è chi sostiene che la rappresentanza sia come un totem, e che disinteressarsene non solo non è lecito ma è impossibile: perché non si può “uscire dalla politica” (a meno che non “si esca dalla società”).

Dall’altro lato invece ci sono coloro per cui la questione della rappresentanza è un vero e proprio tabù (posizione oggi egemonica nella società italiana, con tante di quelle buone ragioni che a volte le contro-ragioni addotte dai politici contro di essa appaiono discorsi di extraterrestri).

Davvero il tempo sembra aver trasformato quel verso di De André in una profezia. Oggi più che mai, dinanzi ai difensori d’ufficio delle forme tradizionali della rappresentanza (e dei partiti, loro avamposti che hanno ottemperato inconsapevolmente al compito di trasformare un verso di una canzone in una profezia politica) basterebbe rispondere che “bisogna farne di strada per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni” (non c’è bisogno di altro: nulla più dell’evidenza delle cose vale come argomentazione politica).

Ecco, il dramma o la cifra di questi giorni – e di questi insuccessi – è dover riconoscere che entrambe le cose sono vere: non possiamo “uscire dalla società” (per quanto costruiamo reti chiuse e spazi ristretti in cui facciamo come se essa non ci fosse. Compito essenziale ma necessariamente incompleto… a meno di non essere fuori da uno spazio che subiamo e che si chiama occidente, e da un tempo che abbiamo accelerato illudendoci di congedarlo, e che si chiama modernità). Ma non possiamo nemmeno obiettare qualcosa a chi ci dice che, in questo spazio e in questo tempo, è evidente che “non esistono poteri buoni”.

Proprio essendo entrambe le tesi del tutto condivisibili, forse siamo sul punto giusto per dirci che la rappresentanza non è né un totem né un tabù. Non è una condizione sufficiente a costruire reti di giustizia, mondi nuovi, progresso e non crescita. Non lo è affatto. Però se siamo qui è perché ci siamo resi conto – qui e ora, mica sempre! – che è una condizione necessaria, nostro malgrado. Anche per il semplice fatto che noi dalla rappresentanza, negli ultimi anni, ci siamo dovuti difendere, non abbiamo avuto la possibilità di disinteressarcene. Per quanti sforzi abbiamo fatto di ignorare la rappresentanza, essa non ignora noi e questo è il punto che ci ha portato fin qui. Non si tratta di occuparci della rappresentanza perché essa è un totem, perché è un valore assoluto (per qualcuno lo è, ovviamente, perché distruggere la rappresentanza può voler dire regredire a tempi pre-rivoluzionari. Io stesso, per esempio, tendo sempre a circoscrivere ogni critica alla modernità in modo tale che essa risulti progressiva e non regressiva).

Non è certo la rappresentanza che ci salverà (e così dovremmo semplicemente esser contenti della secolarizzazione dei partiti, luoghi adibiti al rito sacro della rappresentanza). Ma difendersi dalla cattiva rappresentanza si può fare, oggi, solo se si propongono forme nuove e meno verticali di essa (mi permetto di dire che va riconosciuta alla proposta avanzata da Alba di andare con nettezza verso questa direzione, ripensando il nodo della rappresentanza né come totem né come tabù. Per questo, aldilà di ogni altro limite o errore, tale proposta mi appare ancora credibile e contemporanea). Dobbiamo occuparci delle forme nuove della rappresentanza perché esse sono ciò che possono permetterci di difenderci da quelle attuali.

Per quanti limiti possa avere la politica del M5S, dobbiamo però – a mio avviso, ovviamente – riconoscere almeno questo: che esso è il contrario del qualunquismo. Perché il qualunquismo si fonda su un’indeterminata pretesa di essere contro lo stato. Il M5S non si fonda su questo principio, ma sul suo rovescio: sull’evidenza che è lo stato ad essere contro la democrazia. Evidenza pericolosissima; solo che la sua minaccia non è da imputare al M5S, ma a questa inimicizia della politica nei riguardi della società, inimicizia che negli anni è diventata vizio politico e morale di questo paese. Se guardiamo retroattivamente alle nostre esperienze di lotta degli ultimi anni, non è di questa evidenza che ci occupiamo? Non sono lotte per qualcosa, ma sono perlopiù lotte per difendere qualcosa contro lo stato, la sua occupazione militare dei territori, delle decisioni, degli spazi pubblici. La rappresentanza non è stata debole sui territori in questi anni, è stata fortissima. È stata così violenta da costringere la società civile non a elaborare forme di società innovative, ma a difendere quel che c’era dalla voracità dello stato e, nel tempo, dalla voracità della finanza che ha ridotto i politici a semplici agenti d’intermediazione (la sovranità non si è solo dislocata – dagli stati all’Europa – ma si è trasformata. La dislocazione presuppone la trasformazione, non il contrario. Per questo ogni accenno al referendum sull’euro è un falso problema che pone una questione secondaria. Questo è uno dei tanti limiti dell’analisi del M5S e uno dei tanti specifici campi che segnala la necessità di una sinistra). Mi pare esser questa la traiettoria specifica della situazione italiana dei movimenti e dell’associazionismo. Non dimentichiamolo, quando c’interroghiamo sul perché da noi non abbiamo avuto Indignados o Occupy. Non si potevano avere forze sufficienti per difendersi e per costruire. Non c’è stato tempo per costruire una democrazia oltre lo stato perché impegnati a costruire una democrazia contro lo stato (che si difendesse da esso).

Ecco, giunti a questo punto buona parte di noi riconoscono che questa difesa è vana se non prova ad usare le armi del nemico (per modificarne la natura, evidentemente). Sentiamo non soltanto che la democrazia rappresentativa come tale – nella sua forma contemporanea – ci propone dei modelli che non riconosciamo, ma purtroppo anche che, anche se cerchiamo di evitarla, alla fine ci costringe comunque a prendere una posizione (qui rimando al PostScriptum 1, per una semplice curiosità intellettuale).

 

2. Verso l’autogoverno? (magari trovando una parola meno snob…)

Personalmente, l’esperienza di Cambiare si può e il suo fallimento mi hanno rafforzato in una convinzione: è evidente che la questione non è avere una rappresentanza, ma modificarne i caratteri e, in particolare, il modo in cui si prendono le decisioni. Da quando la sinistra è fuori dal parlamento sembra che il problema più grande sia averla, una rappresentanza, non di quale rappresentanza si stia parlando. Che è come dire: ci siamo interrogati per anni su cosa fare per ripristinare una rappresentanza verticale, invece di lavorare per diffonderla orizzontalmente, per ripensarla oltre il modello dualista del partito in alto e della società civile in basso. Dopo tanti anni, sarà forse il caso di dirci che non abbiamo trovato risposte perché abbiamo sbagliato le domande? Che nessuno più vuole avere una rappresentanza che decide per lui?

La sufficienza con cui l’esperienza di Cambiare si può è stata congedata dai partiti è indicativa. Non che Cambiare si può fosse un tentativo perfetto, anzi. Né credo che se avesse prevalso quel format piuttosto che la chimica a freddo dell’addizione di partiti morti sarebbe cambiata la storia (resta perlomeno il beneficio del dubbio, però). Eppure, sintetizzando, in quella proposta c’era almeno lo sforzo – tardivo, approssimativo, indifeso – di modificare le domande e accelerare un percorso la cui necessità, per chi sta qui oggi e chi in questi anni è stato dalla parte della democrazia contro lo stato, era di tutta evidenza. Così a un certo punto il dialogo tra le parti ha raggiunto livelli d’incomunicabilità da film di Antonioni.

Prendiamo le due questioni che hanno fatto fallire il percorso, l’indicazione dei candidati e l’indicazione del leader (col senno di poi, appare ora una scena biblica: come rovinare le cose per inseguire la vanità delle vanità). La questione non era ovviamente di punire qualcuno (indistintamente, tra l’altro) e privilegiare altri. La questione non era affatto su chi dovesse essere scelto, ma su chi dovesse scegliere. Cioè sul soggetto della decisione politica (non sull’oggetto). Due ordini del discorso completamente differenti, che appaiono ancora reciprocamente intraducibili. Il primo riduce la questione della rappresentanza alla scelta dei rappresentanti e la decisione politica alla decisione sui nomi che rappresenteranno (qui la discussione sul vincolo di mandato è quanto mai attuale). Il secondo cerca di spostare l’attenzione dai rappresentanti alla rappresentanza, e di estendere la decisione politica ben oltre la semplice discussione elettorale. Per questo, a posteriori, si può serenamente dire che, se anche ci si fosse messi d’accordo sui nomi, si sarebbe falliti in ogni caso.

Con serenità possiamo dire che se oggi siamo qui è perché – aldilà di quel particolare percorso su cui abbiamo avuto legittime posizioni divergenti – siamo tutti persuasi che la questione non è la debolezza di una classe dirigente, ma l’usura strutturale delle forme stesse della rappresentanza. E che dunque è necessario, vista anche l’urgenza di difendersi, trovare insieme forme in cui i territori si possano autorappresentare, non semplicemente scegliendo propri esponenti, ma dando luogo a percorsi di rappresentanza continua (e non solo diffusa). È proprio di questo che abbiamo discusso oggi, cercando di rispondere ad alcune domande, che elenco sommariamente.


1. In che spazi e con quali tempi è possibile costruire questi percorsi di rappresentanza continua? Gli spazi transitano tra il locale e il nazionale. Voglio con questo dire che i territori non sono solo una risorsa per se stessi. Che noi dobbiamo partire dai territori è del tutto chiaro; se è vero – come scrive Revelli – che il centro è cieco e solo dai margini riusciamo a vedere. Ma la crisi della rappresentanza è tale che dai margini non possiamo semplicemente vedere con chiarezza i territori ma anche il centro. Dalla val di Susa non vediamo solo la valle e la follia della Tav (ciò che il centro non vede più), ma anche la follia del centro, il suo progressivo disfacimento, la sua patologica distruttività che giunge ai margini dell’impero. Così è solo dai margini che possiamo immaginare la rigenerazione del centro (un po’ come accadeva nelle Città invisibili di Calvino, non a caso descrizione di un impero in decadenza). I territori – oltre tutto il resto – sono gli ultimi laboratori nazionali rimasti. I margini ci permettono di ridefinire i contorni degli spazi pubblici, in cui anche la rappresentanza esce dal cortocircuito elettorale, “torna ai confini dei territori”, si sperimenta attraverso forme di partecipazione deliberativa. La rappresentanza si esercita e si costruisce in un tempo disteso e ritornando alla luce dei margini. Smette di essere stato d’eccezione (elettorale), diventa stato persistente.

Proprio per questo mi pare importante che questa discussione maturi ora, quando le elezioni sono passate da neanche un mese, e che essa abbia come oggetto soprattutto il futuro. Perché ho vissuto troppe assemblee e iniziative viziate nella loro credibilità dal fatto di essere convocate un mese prima delle elezioni, non un mese dopo. Ecco, bisogna ricominciare proprio adesso sia le riflessioni sia i nuovi percorsi politici di democrazia continua, nella consapevolezza che la democrazia continua implica la decisione continua.


2. Che vuol dire decidere? Semplicemente scegliere qualcuno che decide? O lasciare che qualcun altro scelga chi deciderà per noi (e la scelta può essere anche ottima, ma il punto è che la decisione continua ad essere sempre nelle mani di pochi)? E l’atto della decisione è un atto irripetibile? È possibile costruire percorsi di democrazia continua che siano anche percorsi di decisione continua? Credo che il paradigma della partecipazione, coniugato con quello della decisione, serva a rispondere a queste domande (una partecipazione che decide e persiste) e anche a chiarirci cosa sia l’autogoverno che è evocato nel titolo. Non c’è autogoverno senza decisione continua, come non possono esserci veri rappresentanti della società civile senza nuove forme della rappresentanza.


3. Con quali forme? Tutte le considerazioni – sia di diffidenza sia di simpatia – nei confronti del M5S permettono di lavorare su noi stessi e su alcuni difetti che i movimenti e le reti hanno prodotto in questi anni. Di più: ci impongono un salto di qualità, pena la condanna all’irrilevanza politica. Questo salto di qualità deve evitare due errori sempre possibili: la deriva populista e la tentazione narcisista.

Il primo carattere che suggerisco per compiere il salto di qualità è elaborare un progetto complessivo di territorio, in cui ogni movimento, associazione, forum sia consapevole dell’insufficienza di ognuna delle proprie rivendicazioni, perché solo nella colleganza con le altre identità troviamo la matrice sistemica delle vertenze e delle lotte da operare sui territori. E questa sistematizzazione che riconnette le parti all’intero – nella consapevolezza che se non si mette in discussione la direzione dell’intero è vano riparare le falle particolari – mi pare essere uno dei principali elementi di differenziazione di una proposta dell’autogoverno “militante”, quale oggi stiamo proponendo, rispetto alla logica del frammento che prevale nel M5S (e, lasciatemelo dire, nelle tante versioni narcisistiche che riducono le nostre esperienze a microlotte identitarie che debbono persino prevalere l’una sull’altra).

Il secondo carattere che suggerisco è riappropriarci di un corretto (e non timoroso) rapporto coi conflitti (anche questo a ben vedere uno specifico dell’autogoverno non neutrale, come ci ha ricordato Mario Pezzella). Ciò vuol dire modificare il nostro atteggiamento, all’interno delle nostre reti e tra di noi. Perché a volte mi pare che il racconto di sé (ogni racconto di ogni sé) tenda sempre a essere apodittico, pieno di certezze, magistrale ed esemplare. Io non credo vi siano identità esemplari (anzi, credo che le storie siano esemplari nella misura in cui non sono identitarie), credo invece che ogni racconto di sé sia sempre inevitabilmente parziale e dentro questa parzialità c’è la disponibilità ad attraversare i conflitti, non a quietarli preventivamente. Bisogna davvero partire da sé, come ci insegnava un tempo la cultura della differenza, per mettere in discussione le nostre identità.

Faccio solo un esempio, scomodo ma importante. A volte mi pare che le uniche campagne che funzionino e dentro cui ci mettiamo davvero a fare rete siano quelle in cui non è richiesto né il meticciato né un indebolimento della propria identità. Anche la grande vittoria del referendum sull’acqua può essere letto in quest’ottica: esso ha permesso di metterci insieme nobilitando (e mobilitando) i nostri narcisismi, non costringendoci a metterci in discussione. Non dico che non sia un bene, ovviamente, dico semplicemente che le forme della colleganza che servono per ripartire devono essere altre, devono fare i conti col deserto di società dentro cui siamo e a cui hanno contribuito anche i nostri piccoli recinti. È più semplice unirci sulla critica all’austerity o sulla difesa di ciò che ci viene sottratto impunemente. Meno ritrovarci insieme per difendere le prostitute, per rimettere al centro i margini, per dare spazio ai “senza parte” (pensate all’errore storico dei sindacati, che hanno per anni sottovalutato i precari proprio perché non erano – e non potevano essere – tesserati. Proprio perché erano “senza parte”). Forse perché, pacatamente, anche il mondo dei movimenti ha riprodotto la crisi dei partiti: ciascuno è diventato una parte e il proprio narcisismo è servito a difendere quella parte, non a cercare di rappresentare coloro che stavano fuori (non possiamo mica pensare che la crisi radicale dei partiti di sinistra non rimandi anche una crisi altrettanto radicale della società civile). Ecco, il finale di partito ci lascia libero lo spazio per costruire una rappresentanza che prenda partito per i senza parte (rimando al Post Scriptum 2 per una curiosità intellettuale su questo tema).

Così scopriamo infine che le reti e i territori devono non soltanto sperimentare nuove forme di rappresentanza diffusa, ma devono trascendere i limiti della tradizione concettuale che definiamo di sinistra. E ciò non certo per cadere nel tranello di chi vuole neutralizzare le distinzioni (paradossale, in un tempo in cui persino un teorico della terza via come Giddens torna precipitosamente indietro). Ma proprio per evitare ogni neutralizzazione. Questo è forse per me il punto più prezioso e delicato di questo tempo. Sono convinto infatti che la crisi della rappresentanza abbia bloccato l’estensione degli spazi verso quei margini che si sono riempiti sempre più di “senza parte” (i nuovi poveri, la proletarizzazione del ceto medio come esito finale del capitalismo molecolare spazzato via dalla crisi, l’impoverimento dei proletari, la creative class caratterizzata da un’ultraspecializzazione e da un’ultraprecarizzazione, l’estensione dell’immigrazione, ecc.).

Se non siamo stati in grado di rappresentare tutto questo, è perché siamo stati troppo occupati a difenderci dalla rappresentanza e dal suo attacco indiscriminato nei confronti delle nostre forme di vita. Mai come ora sono convinto che porre la questione della forma può voler dire fare un salto di qualità che concerne anche i contenuti. Gli occhiali che ci impedivano di vedere la società si sono finalmente rotti, frantumati nello sconquasso della crisi. Dobbiamo in fretta procurarcene degli altri, ma non per essere più belli, semplicemente per tornare davvero a guardare il mondo per come esso è, senza più difetti di interpretazione.


Post Scriptum 1:
Tutte le ultime campagne o mobilitazioni si possono leggere in una prospettiva biopolitica: non siamo più disposti a delegare su alcune cose che riguardano la nostra vita. Per questo, pur sensibile ai rimproveri intellettualistici secondo cui è una parola “incomprensibile” ai più, mi piace molto affidarmi alla categoria dell’autogoverno. Essa permette di chiarire il luogo teorico che stiamo abitando, che è l’eredità più ardua di Foucault. Questo governo della nostra vita non è solo una resistenza a dispositivi di potere sempre più invasivi, ma è anche un tentativo di elaborare un’altra logica del potere sulla vita (persino la decrescita è un progetto biopolitico!). Non a caso, lo riconosco, ogni elaborazione – persino la più innovativa – sulla rappresentanza resta del tutto moderna (nella misura in cui resta del tutto biopolitica). Ma questo residuo non è una conseguenza necessaria della connessione così stretta tra le lotte sociali e l’indisponibilità a delegare su cose che riguardano la nostra vita? Proprio nella misura in cui le lotte hanno riguardato la vita, i movimenti non sono mai usciti dalla logica della modernità. È proprio per questo che, a mio avviso, era inevitabile giungere al momento in cui il tema della rappresentanza diviene cogente.


Post Scriptum 2:
Mi è capitato, recentemente, di citare Rancière e la sua politica dei “senza parte” in alcune discussioni pubbliche non specialistiche. In un caso uno studente (assai intelligente e poco avvezzo al conformismo) mi ha detto: “Ma Rancière… pare quasi che si riferisca al M5S!”. Non aveva ragione. Però una quota di verità c’era. Il M5S contiene in sé due principi che una vera politica di sinistra deve in fretta recuperare. Il primo è l’idea che i soggetti da rappresentare siano sempre quelli che stanno fuori. E che dunque il movimento della politica non è dal dentro al fuori (che altro non è poi che dall’alto verso il basso) ma dal fuori al dentro. Il secondo è ancora più semplice (e per questo mi fa ancora più rabbia).  La sinistra pare aver dimenticato che può esercitare il potere criticandolo, non difendendolo. Questo elemento di critica del potere è stato interdetto dalla sinistra e recuperato, in forma approssimativa ma centrale, dal M5S.

*Intervento conclusivo di Sergio Labate alla “Semina. Verso l’autogoverno”, seminario tenuto a Senigallia il 16 marzo 2013.
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