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I "pezzi staccati" di una sinistra che non smette di morire

Qualche idea per ricominciare

EffeEmme

Pezzo staccato è il sintagma che Lacan utilizza nel seminario sull’angoscia[1] per definire quel “modulo d’oggetto” che caratterizza l’epoca moderna fatta da parti che tendono al tutto pur non essendo che porzioni limitate ad una funzione. Parti che costituiscono un tutto, abbiamo detto.  Lacan si chiede:  qual è il valore del “pezzo” quando l’insieme di cui fa parte “non funziona più”? Una volta che la parte smette la funzione svolta all’interno del sistema, cosa resta di essa? Che ce ne facciamo di un “pezzo staccato” «quando il tutto al quale esso si rapportava è andato a rotoli, è diventato desueto?»[2]

La risposta più ovvia è: niente! Un pezzo staccato dal suo contesto è stupido e non ha alcun valore, è una «figura fuori senso, una figura fuori dal senso». Solo in quel momento, però, può avere inizio il suo riutilizzo ed eventualmente un’analitica sulla sua funzione. Quanto detto può essere applicato al Partito Democratico che, durante le elezioni del Presidente della Repubblica, ha definitivamente mostrato di non esistere come tutto e di «non servire a niente». I pezzi che lo costituiscono sono definitivamente andati in frantumi e non si trova chi ne dichiari la proprietà per farli sparire, per toglierli di mezzo.

Marini, Bindi, Veltroni, Fioroni, D’Alema, Finocchiaro, tanti pezzi che, una volta fuori dal tutto -il Partito- mostrano la funzione che avevano fin lì svolto all’interno dell’insieme: perpetuare il proprio godimento che, come ben sapeva Lacan, è «ciò che non serve a niente». Con linguaggio popolare, spesso chiaro come pochi altri, diremmo: ognuno tirava acqua esclusivamente al proprio mulino e ciò ha determinato la fine del “tutto”. Le diverse correnti, i rigagnoli, i torrenti di quel tutto chiamato Partito Democratico non hanno fatto altro che avvalorare il proprio aspetto gaudente fino al momento in cui la tensione conseguente lo scontro dei rispettivi godimenti ha mandato in cortocircuito l’insieme.


Ma perché è avvenuto ciò?

La sinistra italiana, dalla fine della storia comunista nei paesi del socialismo di stato, è stata dilaniata da una mancanza che l’ha fagocitata: quella di un fuoco di consistenza ontologica in grado di costituirne l’identità. Sparito il socialismo di stato, sorto il senso di colpa per la morte del padre, è venuta meno la ragion d’essere della sinistra: la difesa dell’eguaglianza sociale[3]. Il criterio primo che dovrebbe animare l’azione politica di ogni sinistra, l’inclusione della “parte dei senza parte”, degli esclusi, è diventato un semplice residuo di un “tempo che non c’è più”. Per la sinistra italiana, l’ansia di presentarsi come alternativa ad una storia di cui troppo facilmente si è celebrata la sconfitta e il funerale, l’ha portata a rinnegare tutto ciò che sapeva di sinistra e di eguaglianza sociale, in primis la lotta contro ogni ineguale trattamento o discriminazione sociale. E’ incominciato un lento avvicinamento, a “passo di leopardo”, verso le posizioni di un liberalismo che sempre più si sovrappone alle istanze di una certa destra, quella che ritiene le differenze qualcosa da congelare attraverso politiche che rendono i cittadini meno eguali sul piano dei diritti. Questa forma di liberalismo che confonde la libertà con la facoltà di ridisegnare una società di caste è assurta a paradigma della politica vincente. La storia della fine della sinistra in Italia è anche la storia della rimozione di un’identità percepita come troppo scomoda e ingombrante per poter essere riattualizzata. L’avvento del neo-liberismo[4] è l’accadere escatologico di una verità nel vuoto prodotto dall’evaporazione dei significati propri della sinistra.

D’Alema, Veltroni e Occhetto, pur con accenni diversi, si sono adoperati, spinti da una furia iconoclasta, per distruggere un passato ritenuto troppo ingombrante. E’ iniziata l’opera di avvicinamento all’universo post-liberale degli ex democristiani, cattolici dal passato irreprensibile capaci di restituire legittimità politica ai figli bastardi del partito di Stalin. Quest’ansia di centro, ricercato con insistenza quale "pharmakon" (φάρμακον), è l’unica cifra distintiva della sinistra italiana degli ultimi 20 anni. Insomma, ciò che ieri rappresentava il “totalmente altro” rispetto alle istanze socialiste è oggi assurto a modello di riferimento per una sinistra che si vuole moderna, progressista, includente, all’altezza delle sfide poste in essere dalla globalizzazione[5]. “Larghe intese per una sinistra moderna”, questo lo slogan che ha contraddistinto la storia recente degli eredi del PCI, questa la via maestra per la definitiva dismissione politica di un partito che «non serve più a niente» se non a garantire il godimento sparso delle sue componenti.

Quella che è stata l’invenzione politica di Aldo Moro, la sintesi disgiuntiva tra il centro e la sinistra socialista, è divenuta la strada maestra. La ricerca dell’accordo a tutti i costi ha prodotto un pessimo significante, un insieme vuoto riempito di pezzi sparsi troppo diversi per saldarsi in una struttura più ampia. Il trauma dell’elezione del Presidente della Repubblica è soltanto l’ultimo di una storia politica che da un certo punto in poi, con uno scarto progressivo proporzionale al disfarsi dei diversi socialismi di stato, ha ricercato la sopravvivenza politica e il riconoscimento pubblico dei vari Cossiga, piuttosto che l’eguaglianza e la giustizia sociale.

Ciò che serve oggi alla sinistra italiana, orfana di un partito in grado di far valere le istanze che dovrebbero appartenergli di diritto, è un movimento che, partendo dalla Costituzione nata dalla Resistenza, ridefinisca la propria identità intorno ad un elenco minimale di caratteristiche distintive in grado di orientarne la politica nel medio-periodo. Proponiamo di seguito quelli che riteniamo i punti fondamentali di un programma di massima.

Un movimento di sinistra deve:

1) Attuare politiche in grado di contrastare le diseguaglianze sociali.

2) Favorire l’inclusione sociale della “parte dei senza parte”, attraverso politiche tese ad ampliare i diritti delle minoranze di qualunque genere.

3) Contrastare la deriva finanziaria dell’economia capitalista favorendo lo sviluppo di forme alternative di economia sostenibile.

4) Favorire politiche tese all’affermazione del principio di “libertà” relativamente al nascere, curarsi e morire degli esseri umani (legge sull’eutanasia o sul suicidio assistito, trattamenti di fine vita, trapianto degli organi, fecondazione assistita, trattamento degli embrioni, etc.).

5) Attuare politiche in grado di garantire ad ogni uomo beni sufficienti a condurre una vita dignitosa (reddito minimo di cittadinanza).

6) Attuare politiche che garantiscano a tutti l’istruzione, la sanità e la protezione sociale (forme di garanzia per la vecchiaia e per i disoccupati).

7) Favorire la piena affermazione della libertà di pensiero e di espressione attraverso politiche che limitino le forme di censura implicite ed esplicite.

8) Favorire criteri di selezione meritocratici- basati sulle diverse “competenze” - per l’esercizio dell’attività politica.

9) Attuare politiche tese al ridimensionamento del “conflitto di interesse” nei diversi ambiti dell’amministrazione pubblica (politica, magistratura, università, forze armate, etc.).

10) Attuare politiche a sostegno della cultura con particolare riferimento al patrimonio nazionale.


Qualche idea, tanto per incominciare…

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Note

[1] Cfr. J.Lacan, Il Seminario. Libro X, L’angoscia, trad.it. a cura di A.Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007.
[2] Cfr. J.A.Miller, Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXIII “Il Sinthomo”, a cura di A.Di Ciaccia, Astrolabio Ubaldini, Roma 2006, p.11.
[3] Cfr. N.Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli ed., Roma 2009, pp. 61 e segg.
[4] Cfr. D.Harvey, Breve storia del neoliberismo, trad.it. di P.Meneghelli, Il Saggiatore, Milano 2007.
[5] Solo per situare il discorso rimando a D.Zolo, Globalizzazione.Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-bari 2006.


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