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Governo Letta: larga l’intesa, stretta la via

di Alfonso Gianni

Mentre sul fronte delle politiche economiche si muove in sostanziale continuità con Monti, è sul terreno delle riforme costituzionali che il governo delle "larghe intese" dimostra un’insolita - e originale - determinazione. Del resto invocare l’istituzione di regimi presidenziali in tempi di crisi, fino all’attribuzione di poteri dittatoriali al mitico “uomo forte”, non è una novità, come ben sappiamo, nella nostra Europa (patria del diritto, ma anche delle peggiori nefandezze e mostruosità)

Mentre il nuovo segretario del Pd Guglielmo Epifani incassa l’assenso della Direzione del suo partito con soli sei astenuti, sulla base della dichiarazione che la discussione sulle riforme costituzionali va fatta in Parlamento e che bisogna tenere fuori sia il governo che la Presidenza della Repubblica, accade esattamente il contrario. Un caso di mala informazione? Non credo è che ormai le parole hanno perso di significato. In effetti il Pd aveva già votato, assieme al Pdl e approvato una mozione che impegnava il governo a presentare una modifica dell’articolo 138 per affrettare il dibattito parlamentare sulle riforme. Dal canto suo Napolitano aveva già dettato i tempi e i ritmi della discussione parlamentare, mentre Enrico Letta procedeva alla nomina di 35 esperti, con qualche presenza di sinistra per dividere il fronte, al fine di “confortare” il governo durante l’iter della riforma della seconda parte della Costituzione e della legge elettorale.

Se sul terreno delle riforme costituzionali il governo Letta mostra un’insolita determinazione, su quello delle politiche economiche la continuità è indubbiamente il tratto caratteristico che lo unisce al governo Monti. Se ne vedevano i segnali ante litteram: infatti non era difficile, per come si stavano predisponendo le cose, scommettere su una ultrattività del programma montiano al di là delle vicende e delle sorti politico-elettorali non travolgenti del suo alfiere.

La ragione di fondo sta nel fatto che tanto Monti quanto Letta si sono mossi e si muovono dichiaratamente entro il perimetro programmatico stabilito dalla nuova governance europea fin dalla famosa lettera della Bce al morente governo Berlusconi dei primi di agosto del 2011.

Da allora il percorso è segnato, con binari molto rigidi, al punto che la frase pronunciata dal Presidente della Banca centrale europea, a proposito della inessenzialità dell’ultimo esito elettorale italiano, è diventata paradigmatica per descrivere l’assenza di autonomia decisionale dei governi degli stati nazionali europei. Vi è comunque un “pilota automatico”, costituito dal sistema di decisioni assunte in sede Ue, che va sempre più precisandosi di condizioni, di vincoli, di “paletti”, di obiettivi da raggiungere inderogabilmente, tali da espropriare la facoltà programmatoria di qualunque governo europeo, senza che a questa se ne sostituisca un’altra democraticamente determinata e agita in sede comunitaria.

Al micidiale fiscal compact si è aggiunto il Two Pack che affida agli organi di governo della Ue un intervento preventivo sulla formazione dei bilanci dei singoli paesi membri dell’Eurozona, ovvero sulle cosiddette leggi di stabilità, esautorando completamente i parlamenti nazionali, ma anche i rispettivi esecutivi, della potestà in materia di bilancio, uno dei terreni principali su cui si esercita la capacità di governo. Leggendo le dichiarazioni programmatiche del nuovo Presidente del Consiglio, le interviste rilasciare dal ministro dell’economia Saccomanni, nonché le Considerazioni finali di Ignazio Visco all’assemblea annuale di Bankitalia, non si può non condividere l’amara considerazione che Giorgio La Malfa ha consegnato al Sole 24 Ore: “le nostre autorità di politica economica pensano che non ci sia nulla da fare nell’immediato tranne che mettere a posto i conti”. Il che equivale a condannare il paese alla recessione in corso da diversi trimestri, al punto da doversi chiamare più propriamente depressione.


Bruxelles non fa regali

D’altro canto, anche la sospirata chiusura della procedura di infrazione per deficit eccessivo, aperta contro l’Italia nel 2009, che avrebbe dovuto essere l’unica vera carta nella manica del neonato governo Letta per ridare fiato a una certa capacità di spesa, avviene con una serie di condizioni, precisamente sei, che entrano nel vivo delle scelte di politica economica del nostro paese, senza peraltro che ci sia alcun margine di flessibilità di bilancio per attuare investimenti “strutturali” se non forse nel 2014.

Intanto l’Ocse taglia le stime per l’Italia, giudicando che la frenata del 2013 sarà superiore alle previsioni: -1,8% anziché –1% stimata solo pochi mesi fa. Sono solo tre paesi dell’Eurozona fare peggio di noi, naturalmente la povera Grecia (- 4,8%), il Portogallo (-2,7%) e la sempre più traballante Slovenia (-2,3%). Conseguentemente il tasso di disoccupazione italiano (al netto dei cassintegrati senza ritorno e degli scoraggiati a cercare lavoro) dovrebbe passare dall’11,9% al 12,5% ( ma la disoccupazione giovanile, secondo Eurostat, ha superato il 40%, tanto da essere definita “drammatica” dal Presidente della Confindustria); mentre la crescita del debito continuerebbe inesorabile, attestandosi al 131,7% del rapporto debito/Pil per raggiungere il 134,3% nel 2014 (le previsioni della Commissione europea su quest’ultimo punto sono inferiori e si fermano al 132,2%, considerando solo il pagamento dei debiti pregressi della Pubblica Amministrazione). Le previsioni contenute in un recente studio della Cgil sono ancora più fosche, poiché prevedono che si possano recuperare i livelli antecrisi solo fra 63 anni!

Ovvero i vincoli sono rispettati, ma l’economia e l’occupazione sono in picchiata e quindi il paese sta morendo. Previsione del resto non difficile da fare. Un economista come Paolo Savona, di solito non particolarmente critico, si domanda su quali basi la Commissione europea possa giungere a conclusioni così “folli” quali quelle di pretendere che il nostro paese rientri dal crescente debito destinando ad esso tutti gli avanzi di bilancio, su cui l’Italia, assieme alla Germania - la cui economia reale è però in ben altre condizioni -, è il paese più stupidamente virtuoso nell’Eurozona. Il nostro avanzo primario si aggira infatti sul 2,5% e ultimamente i tassi di interesse sui titoli di Stato sono scesi al minimo degli ultimi dieci anni. Ma se non si approfitta di questo per rilanciare gli investimenti in settori innovativi e la domanda interna di nuove tipologie di consumo, la situazione andrà di male in peggio.

Tra le sei raccomandazioni che accompagnano la cassazione della procedura per disavanzo eccessivo, ve ne sono due che entrano nel vivo del dibattito politico ed economico del nostro paese e che sono esplicitamente volte a condizionare le soluzioni da dare ad alcune questioni ancora aperte. La prima riguarda il tema del mercato del lavoro. Il Consiglio europeo raccomanda naturalmente di “dare attuazione effettiva alle riforme del mercato del lavoro … per permettere un migliore allineamento dei salari alla produttività”. Come è noto sostenere questo obiettivo significa spostare la contrattazione salariale là dove si determinerebbe l’incremento di produttività, ovvero a livello aziendale. Il che comporta un’ulteriore spinta alla liquidazione del contratto collettivo nazionale di lavoro.

La seconda raccomandazione che può avere un’immediata incidenza su imminenti scelte che il nostro governo è chiamato fare, concerne la questione fiscale. Nel documento del Consiglio si legge che bisogna “trasferire il carico fiscale da lavoro e capitale a consumi, beni immobili e ambiente” quindi “rivedere l’ambito di applicazione delle esenzioni e aliquote ridotte dell’Iva e delle agevolazioni fiscali dirette”. In altre parole il Consiglio fa pressione sul governo italiano affinché sciolga le sue perplessità, vere o di facciata che siano, a proposito dell’aumento dell’Iva, il che contraddice ogni proposito di rilancio della domanda interna. Si va quindi verso l’aumento già previsto per luglio, malgrado che l’esperienza passata sia sufficientemente chiara al riguardo. La Cgia di Mestre ci ricorda infatti che con l’ultimo aumento dell’aliquota ordinaria dell’Iva (quella che insiste su consumi di larga diffusione), passata dal 20 al 21% nel 2011, il gettito fiscale è diminuito di 3,5 miliardi a causa della contrazione della spesa. Come dovrebbe essere ovvio l’incremento della tassazione sui consumi ottiene un effetto opposto a quello desiderato, cioè diminuisce le entrate fiscali dello stato e nel contempo deprime l’economia reale.


Un governo forte o debole?

I margini di manovra del governo sul fronte della politica economica sono quindi assai stretti per non dire inesistenti. Non vi è neppure l’illusione di un qualche tesoretto cui potere attingere. La continuità nella politica economica fra Monti e Letta, sancita dal “bollino” della Ue è quindi garantita, ma in una situazione che vede un peggioramento del condizioni dell’economia reale a fronte di un miglioramento, dovuto principalmente a fattori esogeni, del quadro contabile.

Ci si può porre allora la stessa domanda che ci eravamo posti con il governo Monti. Dove sta la loro forza? La risposta è più o meno analoga. In primo luogo risiede nell’essere entrambi i governi niente altro che un’articolazione del nuovo sistema di governance europea. In secondo luogo dal non incontrare un’opposizione politica in grado di costruire ad essi un’alternativa. In terzo luogo dal fatto che l’opposizione sociale fatica ad assumere quelle caratteristiche di un largo, diffuso, articolato e determinato movimento di massa in grado di mettere in pericolo la sopravvivenza di questo governo.

La sua fragilità è tutta interna, ossia determinata dalla litigiosità delle sue componenti, che potrebbe essere ulteriormente alimentata, fino all’implosione, dalle prossime decisioni della Magistratura in merito ai processi in corso contro il Cavaliere. Ma, al netto delle pesanti e peculiari vicende giudiziarie, questo è un pericolo implicito in tutti i governi di coalizione. Più questa è larga, più aumentano le possibilità di frizioni e conflitti tra i vari componenti. Casomai si può notare che in questo caso la conflittualità si sviluppa con particolare astiosità più all’interno dei singoli partiti della coalizione che non fra di loro.
Quanto avviene nel Pd in particolare lo dimostra appieno. Ormai questo partito è un congresso permanente a cielo aperto, ove i ruoli dei singoli leader di correnti si intersecano con le loro posizioni all’interno del governo. Prova ne sia l’incertezza che pare avere nuovamente assalito Matteo Renzi: è meglio puntare a diventare il prossimo Presidente del Consiglio o il prossimo segretario del Partito democratico?


La volontà degli elettori è stata tradita, ma l’esito era già prevedibile

Essendo la questione europea quella prevalente nel motivare e sorreggere questo governo, molto dipenderà anche dall’andamento delle elezioni tedesche del 22 settembre. Ma è difficile aspettarsi da queste una svolta significativa. Sia perché la posizione della Merkel non appare particolarmente minacciata, sia perché il suo avversario - il candidato socialdemocratico alla carica di cancelliere Peer Steinbruck, che fu ministro nel governo di coalizione presieduto dalla stessa Merkel - non intende avanzare grandi alternative alla politica fin qui seguita dalla Germania. E’ possibile quindi che anche in questo paese ritorni la Grosse Koalition che governò tra il 2005 e il 2009, consolidando ulteriormente la tendenza a convergenze tra le più grandi forze partitiche, presente in più parti nella Ue, con conseguente tentativo di assoluta marginalizzazione delle opposizioni. E’ vero che Hollande, preoccupato per la caduta verticale del proprio appeal all’interno e all’esterno del paese, sta ultimamente rilanciando il discorso di un’Europa politica e solidale, capace di promuovere una “convergenza sociale”, ma, a parte il carattere fumoso della sua proposta (il che non ha evitato una certa irritazione a Berlino), la sua credibilità non è alta, dopo avere trangugiato il fiscal compact dimenticandosi quanto detto in campagna elettorale.

Diversi commentatori hanno messo in luce il fatto che il governo di larghe intese, ovvero l’inciucio con Berlusconi per dirla più volgarmente, sia stato un tradimento delle esplicite volontà espresse attraverso il voto dal corpo elettorale dell’uno e dell’altro partito. In effetti se l’atteggiamento nei confronti del centro montiano è stato ambiguo su entrambi i fronti, la campagna elettorale ha campato sulla contrapposizione al berlusconismo, soprattutto quando è apparso chiaro che il rientro in campo di Silvio Berlusconi avrebbe potuto, come infatti è puntualmente accaduto, rivitalizzare in modo determinante il suo avvizzito schieramento. Come non c’è dubbio che questa nuova “miracolosa” rimonta è avvenuta risfoderando i temi classici di un anticomunismo che sopravvive a sé stesso, mischiato con un marcato populismo di destra antiausterity.

Per cui si coglie certamente una parte della verità, quando si dice che la Grosse Koalition delude buona parte delle aspettative dei rispettivi elettorati. Cosa probabilmente manifestatasi anche nell’aumento impressionante delle astensioni nelle elezioni amministrative del 26 e 27 maggio. Ma un’analisi fondata solo su questo non coglierebbe le tendenze di fondo del quadro europeo che da tempo spingono in molti paesi verso soluzioni di ampie coalizioni nella speranza di soffocare ogni espressione di diversità e di opposizione e al fine di insediare governi che siano più funzionali a gestire una politica etero diretta e antipopolare che viene data per l’unica possibile. Da questo punto di vista l’esecutivo “tecnico” di Mario Monti, con l’appoggio “esterno” di Pd e Pdl ha rappresentato la prova generale per un più organico coinvolgimento delle maggiori forze in un governo di larghe intese. E si deve anche aggiungere che Giorgio Napolitano ha lavorato con grande e determinazione e lucidità, sebbene mal riposte, a un simile esito fin dal suo inizio.


In cosa differiscono i governi Monti e Letta

Una volta messa in luce la sostanziale continuità fra Monti e Letta, dentro un percorso che come abbiamo visto non è stagnante, non bisogna però sottovalutare anche la differenza fra i due governi e fra le stesse figure dei Presidenti del Consiglio, uniti però dalla comune presenza nel board europeo della Trilateral Commission.

La diversità fra i due governi non sta nella politica perseguita ma nella loro composizione. Per quanto al lato pratico il carattere tecnico del governo Monti sia stato solo una finzione, una foglia di fico per coprire politiche con alto tasso di impopolarità, è pur vero che un conto è l’appoggio delle due principali forze politiche a un Esecutivo di figure strappate al mondo delle Università o della Pubblica Amministrazione e un altro è la partecipazione diretta e in prima persona delle principali figure politiche di spicco dei partiti a capo dei ministeri.

Questa condizione rende il governo Letta più ambizioso del precedente nei suoi progetti programmatici e realizzativi. Insomma un governo veramente costituente, per usare quasi le stesse parole del suo relativamente giovane Presidente. Se il governo Monti si era assunto, purtroppo con successo, il compito di introdurre nel nostro ordinamento legislativo e nella Costituzione le nuove norme in materia di bilancio dettate dalla governance europea, oltre quello di disarticolare il quadro politico esistente, l’attuale governo si propone di attaccare il corpo grosso della Costituzione stessa. L’accento posto, in piena e totale intesa con Napolitano, sulla riforma della seconda parte della carta costituzionale lo dimostra ampiamente.

La stessa durata del governo, diciotto mesi a partire dall’ inizio del percorso legislativo di revisione costituzionale, viene traguardata ad una verifica degli esiti di quel singolare e incostituzionale percorso di riforma della Costituzione che è stato avviato con la mozione presentata dai partiti della maggioranza e approvata nello stesso testo da entrambe le camere. Ma nulla vieta, al di là delle attuali schermaglie, che, se l’esito di un simile percorso verrà giudicato positivo, il governo prolunghi ancora la sua esistenza. Il carattere a termine del governo è insomma più virtuale che reale, dal momento che la sua soglia temporale è fluttuante e condizionata all’ottenimento o meno di determinati risultati.

Diventa quindi persino interessante tenere conto della diversità delle biografie delle due figure presidenziali, in quanto indicativa delle diverse potenzialità delle operazioni politiche da queste guidate.


Il mito della “pacificazione culturale”

Di Letta si sottolinea sempre la parentela con il fin qui più famoso Gianni Letta. Ma non è certo questo l’elemento interessante, quanto invece lo è l’internità della carriera politica di Enrico Letta ad una Democrazia Cristiana che cominciava il suo storico e irreversibile declino. Nel corso di questa carriera, Letta ha saputo costruire una mirabile reti di rapporti politici e di relazioni personali, sul piano interno, ma anche su quello internazionale, caratterizzate da una marcata trasversalità e da un’attenzione privilegiata nei confronti dei centri studi e dei think tank del capitalismo nostrano e internazionale.

Della sua partecipazione alla Trilateral ho già detto, ma altrettanto significativa e costante è la sua attenzione verso centri studi sia domestici che internazionali, tutti piuttosto prestigiosi. Letta dirige la Agenzia di Ricerche e Legislazione (Arel) fondata da Nino Andreatta; è il vice di Giulio Tremonti nella direzione dell’Aspen Institute Italia, un’articolazione di un autorevole network internazionale nato negli Usa nel 1950; è co-chairman del British Council, potente motore di iniziative culturali in tutto il mondo fondato nel Regno Unito nel 1934; naturalmente è anche membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione ItalianiEuropei fondata da Massimo D’Alema e Giuliano Amato. Non contento di tutto questo sistema di fitte relazioni, Letta ha dato vita a due proprie creature: Vedrò, una sorta di mini think tank bipartisan, nato nel 2005 a Drò in Trentino e l’Associazione Trecentosessanta gradi, nata nel 2007 sull’onda delle primarie del Pd.

L’immagine di Enrico Letta è dunque quella di un politico puro che ben conosce la necessità di stabilire un’egemonia culturale su cui porre le basi delle proprie fortune politiche ben al di là dei confini slabbrati dell’attuale sistema partitico e ben oltre il territorio nazionale. Di lui ha parlato diffusamente Filippo Andreatta, figlio di Beniamino, qualche settimana fa al Foglio, cogliendo un tratto caratteristico della figura di Letta, di cui è coetaneo. Entrambi, come pure Giulio Napolitano, il giurista figlio del capo dello Stato, sono “ragazzi degli anni sessanta”, ovvero persone che non hanno vissuto né i sommovimenti utopici del sessantotto, né le lacerazioni del ’77 e sarebbero così rimasti estranei a ogni infatuazione ideologica.

Secondo Filippo Andreatta il fatto che la sua generazione “sia arrivata al governo” costituisce “una grande chance per imporre un regime di pacificazione culturale”, in quanto “il quarantenne di oggi è davvero il simbolo della prima vera generazione post-ideologica”. Naturalmente in queste parole vi è tutta la sottovalutazione, fino all’incomprensione, dell’influenza del “pensiero unico”, propalato nella fase montante della globalizzazione capitalistica, sulla formazione di quelle generazioni oggi quarantenni, ma indubbiamente la figura di Letta risponde bene a una sorta di impasto tra la vecchia tradizione democristiana, intesa solo come tecnica di governo e di relazioni e deprivata di ogni tensione sociale e ansia del futuro - che fu presente nella corrente morotea cui apparteneva Nino Andreatta – ed un certo cinismo ideologico e pragmatismo politico, che lo rende funzionale alla gestione dell’esistente.

La “pacificazione culturale” di cui Andreatta jr. parla va intesa in senso tacitiano, ovvero come desertificazione di ogni spirito conflittuale e persino riformatore. Pare trovare però più adepti a sinistra che a destra, visto che su questo secondo versante si sta addirittura costruendo “l’esercito di Silvio”, un corpo di fedelissimi berlusconiani, dai compiti poco chiari ma dal torvo linguaggio militaresco. La “pacificazione culturale” di cui si parla è piuttosto una “amnesia indotta”, per dirla con le parole di Gustavo Zagrebelsky. Nello stesso tempo costituisce l’elemento necessario, il background culturale per dare fondamento e stabilità, almeno nelle intenzioni, ad un’operazione come quella della Grosse Koalition all’italiana. Un primo effetto di questa ricerca della pacificazione è l’enfasi posta sull’accordo tra le parti sociali in materia di rappresentanza sindacale – il cui merito certamente controverso qui non posso approfondire – definito come una svolta storica attesa da più di sessant’anni.


Il presidenzialismo

Si può dire che nell’accordo trovato tra le parti sociali il governo c’entri relativamente o solo indirettamente. Mentre è certamente il protagonista della modifica della seconda parte della Costituzione che costituisce l’hard core della sua missione. Le mozioni approvate in testo identico nei due rami del parlamento non lasciano dubbi al riguardo. Esse impegnano il governo a presentare alle camere entro il mese di giugno di quest’anno un disegno di legge costituzionale di modifica dell’articolo 138, che stabilisce le modalità per le modifiche della Costituzione, al fine di attuare una procedura “più snella” per l’approvazione delle proposte di riforma.

Le novità che verranno introdotte riguardano essenzialmente la costituzione di un “bicameralina”, costituita da venti deputati e altrettanti senatori, scelti dai gruppi tra i facenti parte le rispettive Commissioni Affari costituzionali; questo organismo avrà il compito di avanzare progetti compiuti di riforma dei Titoli I, II, III e V della parte seconda della Costituzione che afferiscono alla forma dello Stato, a quella del Governo, e all’assetto bicamerale del Parlamento; dovrà altresì fornire proposte di riforma dei sistemi elettorali. Le Assemblee di Camera e Senato esamineranno i testi varati dalla bicameralina, con possibilità di emendamento, ma entro tempi definiti in modo da non sforare la durata complessiva di 18 mesi; la facoltà di chiedere un referendum confermativo delle leggi di revisione costituzionale verrà garantita anche in caso di approvazione delle stesse con una maggioranza superiore ai due terzi. Il lavoro della bicameralina verrà affiancato da un non meglio precisato comitato di esperti, istituito dal governo, sia sulle materie di riforma costituzionale che di riforma elettorale.

E’ la prima volta che viene delineato un così ampio e organico disegno di revisione costituzionale. D’altro canto, come hanno sottolineato molti costituzionalisti, toccare la seconda parte della Costituzione non significa affatto lasciare inalterata la prima, poiché i diritti contenuti in quest’ultima per trovare applicazione necessitano degli istituti definiti nella seconda. Se, per fare l’esempio più semplice, vengono mutati la composizione, il ruolo e il peso del Parlamento nell’equilibrio con gli altri poteri, cambia anche la valenza dei diritti politici dei cittadini previsti nel Titolo IV della parte prima della Costituzione.

Nel merito l’obiettivo è abbastanza chiaro: trasformare il nostro sistema in presidenziale o semipresidenziale che dir si voglia, ridurre il ruolo del potere legislativo a favore di quello esecutivo, incrementando i poteri del governo a scapito di quelli del Parlamento, curvare in senso ancora più marcatamente maggioritario la legge elettorale. Fin troppo rivelatrice è stata la dichiarazione di Enrico Letta sulla impossibilità di continuare a eleggere il capo dello Stato nello stesso modo con cui si è arrivati alla seconda elezione di Napolitano. Il clamoroso fallimento della politica e dei partiti, incapaci di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica, viene presa come giustificazione per l’introduzione dell’elezione diretta del capo dello stato, con grande gioia di Alfano, buona disponibilità di Epifani e con la benedizione di Romano Prodi.

La tendenza a invocare l’istituzione di regimi presidenziali in tempi di crisi, fino all’attribuzione di poteri dittatoriali al mitico “uomo forte”, non è una novità, come ben sappiamo, nella nostra Europa, patria del diritto, ma anche delle peggiori nefandezze e mostruosità. Ormai le forze di governo, senza apprezzabili differenziazioni interne, si muovono con decisione per unire l’ideologia del maggioritario con quella del presidenzialismo, per creare a livello di opinione pubblica la convinzione – già criticata migliaia di anni fa a cominciare da Platone e Aristotetele – che il governo degli uomini sia meglio di quello delle leggi. I primi possono essere puri politici o tecnici, purché tendenzialmente si riducano a uno solo.

Come ci ricordava Luigi Ferrajoli qualche anno fa, ai tempi della prima Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, questo argomento fu oggetto di una famosa polemica, all’inizio degli anni Trenta dello scorso secolo, fra Hans Kelsen, il più grande giurista del Novecento e Carl Schmitt, il filosofo della politica che finì per aderire al nazismo. Quest’ultimo sosteneva apertamente tesi antiparlamentari e presidenzialistiche, contrapponendo allo “smembramento politico” del corpo sociale espresso dal parlamento, il carattere unitario ed organico che la rappresentanza potrebbe assumere ad opera di un Presidente eletto direttamente dal popolo. Kelsen replicava che un organo monocratico, per di più svincolato da un rapporto permanente con la sua base elettorale, non può intrinsecamente rappresentare la pluralità delle forze e degli interessi in conflitto nella società, ma al massimo solo la parte vincente nelle elezioni. Ovvero implementare e codificare una dittatura della maggioranza, potrei aggiungere, la quale peraltro potrebbe divenire tale anche semplicemente approfittando dell’elevata astensione vista la crescente disaffezione popolare verso una simile politica. Per Kelsen “l’idea di democrazia implica assenza di capi”.


Opporsi a questo disegno è necessario e possibile

Parole lontane e dai più dimenticate. Così come si cerca di sprofondare nell’oblio l’esito del referendum costituzionale tenutosi il 25 e il 26 maggio del 2006, quando la maggioranza effettiva degli italiani – pur non essendo in questo caso previsto il quorum votò la maggioranza degli aventi diritto – respinse la corposa revisione costituzionale votata dal centrodestra che prevedeva una enorme estensione di poteri del Presidente del Consiglio, il cosiddetto “premierato”. Quando si tratta di esiti referendari l’italica ipocrisia raggiunge vette impensabili. In sostanza si ricorda solo ciò che fa comodo, come l’esito del referendum sul finanziamento ai partiti, mentre quello ben più importante del 2006 sul mantenimento del testo dell’attuale Costituzione, viene posto in un cono d’ombra.

Questa volta la maggioranza si sente talmente forte da pensare di non dovere temere un referendum, al punto dal prevederlo indipendentemente dalla soglia dei due terzi nella votazione alle camere del progetto di riforma costituzionale. Sulla carta è così, ma non è affatto detto che questo corrisponda alla realtà, vista che l’elevata astensione dal voto indebolisce il carattere di effettiva rappresentanza dell’attuale parlamento. D’altra canto la sinistra d’alternativa ha fin qui dimostrato di perdere per distacco ogni elezione politica, ma di sapere vincere referendum di grandissimo significato, ultimo dei quali, importante più che per i numeri coinvolti per il significato costituzionale della materia, quello di Bologna sul carattere pubblico della scuola. Non a caso questo è stato ricordato con molta forza nella riuscitissima manifestazione di Libertà e Giustizia nella stessa Bologna il 2 giugno.

Da qui a quel referendum ci sono di mezzo altri appuntamenti elettorali, come le importantissime elezioni europee del 2014. Ma se intanto le forze della opposizione politica e sociale, che, per quanto prive di adeguata rappresentanza, non hanno per questo cessato di esistere e persino si allargarsi, cominciassero, nel pensiero e nella pratica, a legare insieme i grandi temi che concernono la trasformazione dell’attuale Unione europea in un’Europa sociale e solidale, con quelli dell’uscita dalla crisi senza un massacro sociale e senza uno spaventoso arretramento della democrazia che una simile modifica costituzionale provocherebbe, darebbero un contributo decisivo alla ricostruzione della sinistra.

E’ una sfida non impossibile, per la quale comunque vale la pena di combattere. La misera fine del centrosinistra, materializzata da ultimo nell’abbraccio mortale con quello che era il suo nemico storico, il berlusconismo, di per sé non libera forze, piuttosto le deprime e le imprigiona. Le elezioni amministrative non hanno invertito questa tendenza, se non in modo illusorio, poiché in ogni caso il “sorpasso” del centrosinistra avviene sulla base di un numero di consensi effettivi molto inferiori a tutte le precedenti tornate elettorali. O si crea al suo esterno e alla sua sinistra un punto – plurale fin che si vuole, ma riconoscibile – di energia e di attrazione o l’inevitabile protesta popolare può assumere derive distruttive. Altrimenti, come al solito, è il morto che trascina il vivo, non viceversa.

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