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il ponte

Il mondo va pazzo per il Medio Oriente

di Gian Paolo Calchi Novati

ROMEIn occasione del centenario della Grande guerra i potenti della Terra pronunciarono pressoché all’unanimità un mea culpa postumo. Anche a costo, come lamentarono alcuni storici, di rimuovere o sminuire le cause profonde del conflitto, i disegni e gli interessi degli Stati, persino i sentimenti spontanei o indotti dei popoli (che alla fine pagarono il prezzo piú alto). Passarono solo poche settimane e si poté verificare che era stato solo uno sfoggio di retorica. La guerra resta la sola “arma” – è proprio il caso di usare questo termine – a cui pensano i governi e di cui apparentemente dispone la diplomazia. Nel suo insieme, l’intervento dell’Occidente nell’area Medio Oriente-Nordafrica di questi anni ha contribuito soprattutto ad attizzare un’inarrestabile escalation di violenza e destabilizzazione. Eppure Barack Obama, un democratico in fama di liberal, il piú “terzomondiale” dei presidenti americani per nascita ed esperienze di vita, non fa altro che ordinare di accendere i motori. La stampa finge di ragionare ma gli opinion leaders arrivano alle stesse conclusioni. Solo la Chiesa cattolica ha mantenuto una sostanziale coerenza lungo la traiettoria interpretativa dell’«inutile strage». Non per niente papa Francesco, da Piazza San Pietro, ha evocato l’immagine di una terza guerra mondiale e a Redipuglia ha definito la guerra «una follia».

I fronti caldi sono disseminati in un teatro che si estende su tre continenti dall’Europa orientale all’Asia passando per le Afriche. I soggetti coinvolti e i motivi del contendere sono diversi e non necessariamente legati fra di loro. Nessuno dei molti focolai attivi mina di per sé l’ordine internazionale. Ma ognuno di essi è la manifestazione di tendenze profonde e di lungo periodo che incidono sul sistema internazionale nel suo complesso. Dopo la fine del bipolarismo non esiste un antagonismo precisabile a livello globale, sebbene gli Stati Uniti abbiano creduto di veder riprodotto uno schema duale, piú congeniale alla strategia di una nazione “indispensabile” votata al ruolo di potenza egemone e di gendarme, identificandolo, a seconda delle circostanze e dell’evoluzione degli eventi, nella sfida del terrorismo internazionale o nelle ambizioni imperiali della Russia. L’ineluttabile confronto con il gigantismo della Cina è lasciato sullo sfondo. Il Medio Oriente, sempre piú nella variante di Grande Medio Oriente, occupa una posizione centrale non solo per ragioni di geopolitica – al crocevia com’è di tre continenti – ma perché con esso si connettono in un senso o nell’altro le varie cause globali (il jihadismo, l’energia, il riarmo nucleare).

Il mondo arabo-islamico è in piena ebollizione da quando si è verificato il risveglio, certamente meno inatteso e inopinato di quanto non si è preferito far credere, che ha dato l’idea di una «primavera». È stata una scossa per molti motivi inevitabile, dopo decenni di presunta stabilità. Da cosa e verso cosa è meno definibile. Tutti gli scenari sono aperti: dal medioevo alla modernità, dall’autoritarismo alla democrazia, dalla monocoltura del petrolio all’economia dei servizi. Ma anche una seconda decolonizzazione o un’anti-decolonizzazione per depurare gli Stati e le società dalle scorie neocoloniali che sono rimaste in circolo. Edward Said ha spiegato bene come l’antinomia in cui versa la non-Europa o anti-Europa sia di essersi emancipata, utilizzando ampiamente le ritualità e in ultima analisi i modelli culturali, istituzionali e sociali dell’Europa per il tramite di élites che avevano buoni motivi, come persone singole o come ceto, per condividerne la ratio. Le crisi del Medio Oriente non soffrono per una mancata attenzione del resto del mondo ma per un eccesso di interferenze. Tipico, malgrado il luogo comune corrente, è il caso della guerra civile in Siria.

Erano (e sono) tre le grandi faglie recenti o meno recenti con cui il Medio Oriente deve misurarsi nella presente congiuntura. Anzitutto, l’esplosione in un conflitto armato a tutto campo della storica scissione all’interno dell’Islam fra la Sunna e la Shia. La rilevanza del fattore religioso nella politica internazionale ha trasferito a livello di Stati e masse umane una disputa che verte in teoria su culto e liturgia senza chiese e apparati centralizzati. È un passaggio che può far pensare alle guerre di religione che hanno caratterizzato l’ingresso dell’Europa nell’età moderna dopo la Riforma (ancorché a molti secoli di distanza dal verificarsi dell’eresia che ha spezzato l’ecumene musulmano). Il settarismo in campo musulmano è stato rinfocolato di fresco dalla rivoluzione khomeinista e piú in generale dalla diffusione dell’islamismo a livello di politica come reazione agli insuccessi delle ideologie mondane a cui si è ispirato il movimento nazionale con in piú il peccato originale della matrice aliena degli stessi Stati. L’arabicità è stata via via soppiantata come fattore di legittimazione dall’Islam. L’islamismo si sta ponendo in un rapporto che oscilla fra istanze nazionali e transnazionali.

Il secondo motivo di crisi è legato alla controversia Palestina-Israele, il vulnus irrisolto della pseudo-decolonizzazione che è avvenuta fra Prima e Seconda guerra mondiale nei territori arabi che avevano fatto parte dell’Impero Ottomano. A 47 anni dalla guerra dei sei giorni e a piú di vent’anni dagli accordi di Oslo si sta decidendo quanto sia compatibile la persistente occupazione di terre arabe da parte di Israele con i processi d’integrazione del Medio Oriente nel sistema globale. Il conflitto dura dagli esordi del sionismo e si è cristallizzato con la nascita dello Stato ebraico nel 1948 senza che si costituisse il corrispondente Stato arabo-palestinese e oggi piú che in passato si esprime in una “questione israeliana”. La mezza ammissione della Palestina all’Onu limita i margini d’azione di Israele. Nel suo piccolo Hamas, con i gesti della disperazione, ha incrinato il falso senso di sicurezza che ha indotto i governi israeliani a rimandare all’infinito la conclusione dei negoziati sui “due Stati” trovando un accordo per il tracciato e le procedure della “spartizione”. Gli Stati Uniti non hanno smesso di coprire le guerre che Israele definisce di “autodifesa” ma in occasione dell’ultimo conflitto di Gaza è apparso chiaro che le sortite di Israele suscitano sempre piú insofferenza a livello mondiale, anche fra gli alleati. Sono state approvate le prime sanzioni a carico di Israele partendo dai prodotti provenienti dai settlements illegali nei territori occupati. È cosí che matura – come terzo fattore destabilizzante – un rivolgimento delle alleanze tradizionali a livello regionale.

L’epicentro della crisi è il cuore stesso del mondo arabo, sia nella versione classica (i due califfati di Damasco e Baghdad), sia nella vicenda piú recente che si richiama alla rivoluzione anticoloniale. L’Egitto è lo Stato arabo piú importante in termini politici, economici e militari – con Suez come punto d’incontro fra Europa, Asia e Africa, oltre che fra i tre cerchi geopolitici individuati da Nasser – ma proprio il raïs volle salire di grado agganciandosi alla Mezzaluna fertile attraverso l’unione con la Siria nell’effimera Repubblica araba unita. Per apprezzare la diversa rilevanza fra Maghreb (l’occidente della nazione araba) e Mashreq (oriente) basta considerare gli effetti diversi sul piano mondiale della guerra in Siria rispetto a quella in Libia. La Russia, che non aveva reagito all’attacco della Nato per abbattere il regime di Gheddafi fino all’uccisione dello stesso colonnello, ha ritenuto di dover difendere i propri interessi in Siria, dove ha sede del resto il suo ultimo presidio fisso nel Mediterraneo. È probabile che il successo conseguito da Putin nel 2013, quando riuscí a bloccare un’operazione militare degli Stati Uniti contro Assad, sollevando un’inedita empatia a livello mondiale, sia fra le cause non dette che hanno via via trasformato una questione interna dell’Ucraina in un casus belli a livello europeo e mondiale.

La forza della politica americana è la capacità di far passare le proprie esigenze e relative scelte come se fossero di tutti. Quando parlano alla nazione i presidenti americani hanno in realtà per uditorio l’universo mondo. Obama non intende certo cedere questo privilegio né, tanto meno, condividere le responsabilità mondiali con un paese che gli Stati Uniti hanno trattato come un vinto della guerra fredda, relegato in una posizione subordinata (con in piú le ombre di un sistema politico dipinto e percepito come illiberale). L’ammissione della Russia al G8 fu una concessione piú che un atto dovuto: ai vertici annuali, il presidente russo, fosse Putin o Medvedev, dava l’impressione di essere un estraneo tollerato con un po’ di fastidio e molta diffidenza. Con il primo pretesto, e in modo grottesco pensando alle guerre che nessuno ha fatto pagare agli Usa, la Russia è stata estromessa.

Nei vari dossiers della grande politica in questi venti e piú anni la Russia ha avuto una parte secondaria. Il primo sintomo di quello che sarebbe diventato il nuovo corso – quando la Russia era ancora Urss – fu lo sbarramento opposto da George Bush a ogni possibile iniziativa di Gorbaciov per far rientrare senza guerra la grossolana trasgressione commessa da Saddam Hussein ai danni del Kuwait per rifarsi dei costi della guerra sostenuta con l’Iran. Naturalmente, al presidente americano non conveniva concedere a Mosca un simile exploit, anche perché una guerra in Medio Oriente, fuori del solito schema arabo-israeliano, serviva a “segnare” il territorio nel modo migliore. Conclusa la guerra fredda, gli Stati Uniti si apprestavano a traslocare i dispositivi militari e della propaganda da Est a Sud in difesa della disponibilità di risorse economiche e strategiche piú che mai essenziali in un mondo a cui stavano venendo meno le regole e i controlli del duopolio russo-americano. Dai Balcani all’Afghanistan, all’Iraq e alla Libia la Russia non poté permettersi nient’altro che qualche protesta a posteriori. L’espansione dell’Unione europea verso le marche dell’ex impero sovietico può aver avuto un effetto stabilizzante ma avvicinò pericolosamente gli avamposti dell’Occidente alle frontiere occidentali della Russia. Decisamente destabilizzante fu il trapianto della Nato con i congegni antimissilistici piazzati in Cecoslovacchia e Polonia per parare, si disse, la minaccia iraniana. Mosca fu irremovibile solo su quello che viene chiamato l’«estero vicino», risolvendo con la forza la questione della Georgia nel 2008 e puntando i piedi sull’Ucraina.

Apparentemente, la Russia ha il torto di difendere i suoi confini. Le sue violazioni della legalità internazionale fanno pensare subito a un’invasione. Le guerre americane spaziano in contrade remote e si può far finta di credere alle buone intenzioni. La guerra nel Golfo del 1990-91, quando per la prima volta dai tempi della guerra di Corea l’Onu investí di fatto gli Stati Uniti della leadership in un’operazione militare per rimediare a un torto, è stato solo il primo atto di una lunga teoria di conflitti che la Casa Bianca ha cercato di includere in una modalità complessiva di ingerenza “umanitaria”, a protezione a volte dei governi e a volte dei ribelli, nella piú assoluta arbitrarietà, con o senza l’Onu, singolarmente o con la Nato e piú spesso con coalizioni di “volonterosi”. Nelle dichiarazioni ufficiali non si nasconde che le vere motivazioni sono – quasi con le stesse parole dal Bush del Nuovo ordine mondiale all’Obama della Nuova strategia globale enunciata davanti ai cadetti di West Point nel maggio 2014 – i «nostri interessi» (our interests). Nella recente impresa in Iraq si è cominciato dalla necessità di salvaguardare il personale militare americano rimasto dopo il ritiro nel 2011.

Il clima che si è instaurato ha autorizzato anche altre potenze a mettersi sulla medesima strada. La Francia, senza differenze fra Sarkozy e Hollande, ha iniziato la riconquista delle posizioni perdute in Africa: quattro operazioni militari in tre anni, fra il 2011 e il 2014 (Libia, Costa d’Avorio, Mali, Repubblica Centrafricana), una media da impero britannico nell’era vittoriana, in situazioni e con motivazioni diverse ma con un solo copione. Anche in Italia, il governo, i partiti e gli editorialisti dei giornali che fanno opinione concordano su un punto: per essere una potenza, grande o media, bisogna essere pronti a fare la guerra. La Costituzione è in sonno. E poco importa che i nostri “nemici” siano scelti a Washington o ci siano imposti da Parigi.

Le colpe della guerra voluta da Bush nel 2003, che sono all’origine del tragico sconquasso in Iraq (centinaia di migliaia di vittime e milioni di profughi su cui si è sorvolato bellamente finché la causa era appunto la guerra americana), non cancellano le responsabilità dell’Europa e dei singoli governi europei (non solo Blair, anche Berlusconi). In Libia – un altro disastro – sono state addirittura Francia e Gran Bretagna, nella formazione tipicamente “coloniale” già sperimentata all’epoca della guerra di Suez nel 1956, a trascinare nella guerra un’amministrazione americana riluttante malgrado il bellicismo della Clinton con il suo staff di falchi e soprattutto “falchette” (Samantha Power e Jean-Marie Slaughter, in nomine fatum, ora cooptate nel petit comité di Obama). Comunque, di fronte all’offensiva del movimento jihadista noto come Isis (Stato islamico in Iraq e Siria) la politica di Stati Uniti e alleati europei è ricaduta, con incredibile pervicacia, nella solita routine della soluzione militare.

Il sillogismo secondo cui solo gli Stati Uniti, con la loro tecnologia di guerra ultramoderna, possono fermare l’avanzata delle milizie del califfo non regge piú: da venti e piú anni gli Stati Uniti conducono guerre con questo stesso argomento, agendo in proprio o arruolando in funzione di proxie movimenti o governi (spesso proprio di matrice islamista), e ogni guerra è stato un altro passo verso l’abisso. La sicurezza con cui Obama dice che non ripeterà gli errori di George W. Bush è fallace perché soldati, consiglieri o contractors americani sono già schierati sul campo, con i fatidici stivali (boots) o con le Timberland. Di sicuro, non sono dediti all’opera di nation-building, che si sa non rientrare nelle corde degli Stati Uniti. Anche questa volta sono state evocate «grandi coalizioni», teoricamente neutrali, ma il perno di tutto resta la Nato, un’anticaglia rigorosamente di parte.

Puntualmente l’Italia si è mostrata fiera di essere della partita. C’è da credere che prima o poi verranno messe a disposizione le nostre basi per i raids come è accaduto in occasione del Kosovo e della Libia. In una simile fattispecie la “difesa” è un argomento sfuggente, e se mai si rischia di attirare la guerra dentro casa come ritorsione. Per la responsabilità a proteggere è indispensabile una decisione dell’Onu. L’Italia qualche volta potrebbe dire no, ha scritto in un’analisi per lo Iai, con la bonomia che gli è propria, il generale Giuseppe Cucchi, ex rappresentante permanente alla Nato e all’Ue nonché ex consigliere militare di Prodi.

Dopo il vertice Patto atlantico nel Galles, che aveva raccolto le prime candidature, senza chiarire del tutto il caso turco, il discorso di Obama alla vigilia dell’11 settembre non ha fatto segnare particolari novità, se non per aver ribadito l’intenzione di colpire sia in Iraq che in Siria. Sono scontate molte adesioni, piú o meno sincere, perché troppe sono le rivalità, fra i governi arabi che Kerry è andato a catechizzare. Non viene nominata l’Onu, che non si è mai ripresa dall’impotenza davanti alla guerra anglo-americana del 2003. La piú ampia conferenza a Parigi, dove erano presenti la Russia e la Cina, ma non l’Iran né ovviamente la Siria, è servita a Hollande per ritagliarsi un po’ di visibilità ma non ha cambiato i termini della questione. Del resto, piú partners si raccolgono e meno si spiega l’esclusione del ricorso all’Onu. Se non fosse che fin dall’operazione Restore Hope in Somalia a cavallo fra Bush senior e Bill Clinton i comandi militari americani hanno prescritto tassativamente che non accetteranno piú di sottostare a ordini di un organo superiore di carattere internazionale.

Il fatto che l’Unione europea si lasci imporre dagli Stati Uniti, dentro o fuori la Nato, la linea da seguire nella gestione dei rapporti con i vicini a Sud e a Est è la prova imbarazzante del flop di tutta la costruzione. A Bruxelles siedono organi direttivi inutili o succubi. L’Europa rischia di perdere le sue principali fonti d’energia? Gli Stati Uniti hanno pronti gli idrocarburi-carcadè, che fra qualche anno produrranno in eccedenza e che devono pur smerciare a qualcuno.

Le cause piú immediate dell’ultima emergenza vanno ricercate da una parte nella guerra in Siria, un paese di minoranze che ha finito per perdere il suo precario equilibrio, e dall’altra nella frattura irreversibile fra le diverse comunità di un paese composito come l’Iraq. La frattura sunniti-sciiti dentro l’Islam ha una forte rilevanza, anche se la religione nasconde o mistifica divisioni che poggiano su ragioni politiche e sociali: identità e ruoli nella società e quindi le chances di accedere al potere e alla ricchezza, o ai collegamenti internazionali giusti. La Siria ha una maggioranza sunnita ma da cinquant’anni il potere è monopolizzato dal clan degli Assad, esponenti della comunità alawita che si fa rientrare nell’universo sciita. L’Iraq ha una maggioranza sciita ma per tutto il periodo di predominio del Baath, e personalmente di Saddam Hussein, al potere ci sono stati i sunniti, presi di mira dagli americani come il nemico da debellare a costo di stravolgere tutte le istituzioni dello Stato, dal governo all’esercito e alla pubblica amministrazione.

Il regime di Assad padre e figlio ha fondato la sua stabilità su un’alleanza fra minoranze, in primis con i cristiani, che in Siria rappresentano una parte importantissima della storia locale ininterrottamente da san Paolo. Nello schema era prevista una forma di compartecipazione della classe mercantile sunnita. Essa sarà la prima a sfidare il regime allorché i barlumi di una «primavera siriana», affiorati nel 2000 quando Bachar assunse la presidenza alla morte del vecchio Hafez, si rivelarono vani, deludendo le istanze della borghesia modernizzante di Damasco e Aleppo per una maggiore libertà anche in termini politici. La popolarità di Assad si incrinò ai vertici della società, ma anche alla base. Le misure neoliberali intraprese hanno ridotto la protezione dei ceti piú poveri a cura dello Stato. Senza mai eccedere in provocazioni (anche in questo Assad si distingue da Gheddafi), il governo ha sempre difeso – con un orgoglio che si giustifica piú con la storia che con l’attualità – l’autonomia della Siria, tenendo ferma la barra contro gli abusi e le pretese degli occidentali e di Israele. Pur blandita in varie occasioni anche da personaggi come Carter e Sarkozy, e pur essendosi schierata a favore della guerra contro Saddam del 1990-91 (se non altro per la vecchia rivalità con l’Iraq, malgrado la comune militanza nel Baath), la Siria ha finito per apparire il polo piú serio e tenace del «fronte del rifiuto». Hamas ha avuto il suo quartier generale a Damasco, che ha lasciato solo a causa della guerra civile riparando al Cairo e successivamente a Doha.

Dopo i primi scontri fra dimostranti e forze armate nell’estremo sud del paese, è scoppiato l’Armageddon. Smentendo la lettura semplificata, e di comodo, di una rivolta per la libertà, i cosiddetti “moderati” su cui puntavano gli Stati occidentali, ma che si sono rivelati piú forti nella diaspora che in patria, sono stati in breve surclassati dalle formazioni variamente collegate alla galassia del jihadismo islamico internazionale. Contro Assad non sono scesi in campo solo gli oppositori interni. Quale piú e quale meno, tutte le medie potenze della regione hanno una parte attiva nella guerra. La Siria è troppo centrale e le sue diverse comunità hanno prolungamenti nei vari Stati della regione. Gli Stati a maggioranza sunnita, a cominciare da Arabia Saudita e Turchia, hanno preso ad armare i ribelli. Erdogan, già molto vicino a Assad, non gli ha perdonato di non aver ascoltato i suoi consigli a rispondere con moderazione e riforme alle richieste degli oppositori meglio disposti. L’Arabia Saudita è ossessionata dalla rivalità con l’Iran. L’Iran, appunto, e gli Hezbollah libanesi, ma anche, con meno appariscenza, il governo iracheno si sono sentiti in dovere di schierarsi con il governo di Damasco per la comune fede sciita. L’Iran ha bisogno della Siria per mantenere i contatti territoriali con gli sciiti del Libano e, piú in generale, rivendica i suoi diritti di potenza regionale. Per assurdo, Israele ha seguito con maggior distacco la guerra perché una Siria con Assad indebolito è una prospettiva migliore di una Siria islamista. Israele occupa dal 1967 il Golan siriano, un pezzo delle “conquiste” della guerra dei sei giorni fuori dal perimetro della Palestina classica e mandataria.

Anche l’Islamic State in Iraq and Syria (Isis) ha combattuto in Siria, dove si è approvvigionato di combattenti, armi e risorse economiche ingenti e dove – anche per una certa compiacenza delle forze governative – ha spodestato Nusra, che fra le armate ribelli aveva fatto per qualche tempo da punta di lancia del jihadismo estremista anti-Assad. La vicenda di Isis si divide fra Iraq e Siria sfruttando i confini porosi e lo stato di guerra che spezzetta il territorio a macchie di leopardo. L’Isis si è fomato da una costola di Al-Qaida irachena, ma è ai ferri corti con il leader di Al-Qaida internazionale da quando Ayman al-Zawahiri gli ha intimato, senza essere ascoltato, di lasciare la Siria.

Il leader carismatico oggi alla ribalta, Abu Bakr al-Baghdadi (il nome di battaglia di Ibrahim al-Badri), è un iracheno nato a Samarra e che ha studiato a Baghdad. Arrestato nel 2005, quando era già in corso la guerra civile durante l’occupazione americana, è stato per sei mesi in un carcere iracheno, da cui è uscito con una visione radicalizzata e universaleggiante. Il nemico è lo Stato e non solo il governo in carica. La proclamazione del Califfato esprime il proposito di non rispettare i confini che dividono i popoli e gli Stati del Medio Oriente a seguito di un processo di statualità che un po’ tutti ora mettono in discussione. L’Isis esibisce atti e simboli pre-moderni, pene corporali e stendardi al vento, ma ha inaugurato una militanza post-terroristica. Combatte una guerra di terra controllando, e a suo modo governando, un territorio e una popolazione. Ricava forza politica e militare dalla popolazione sunnita che si è sentita discriminata e dai soldati e ufficiali che sono stati dimessi dall’esercito perché sunniti. Per confondere ancora di piú le carte, stando a una foto che circola, al-Baghdadi avrebbe incontrato in Siria anni fa il senatore americano McCain.

Il primo ministro iracheno Nouri Kamal al-Maliki, sciita, si è dimostrato fin troppo impegnato nell’istigare la rivincita storica della maggioranza contro la minoranza sunnita. Un po’ per convenienza e un po’ per necessità, dopo che il Curdistan iracheno si è conquistato (con l’appoggio Usa) uno status di semi-indipendenza, gli sciiti hanno stabilito un’alleanza con i curdi che ha oggettivamente contribuito ad accrescere la “settarizzazione” dell’Iraq. È l’effetto, che molti dicevano fin da allora deliberato, della guerra anglo-americana. L’approccio settario della politica dei governatori nominati da Bush ha posto le premesse, e qualcosa piú delle premesse, di una guerra intestina mai veramente placata ed esplosa ora in modo virulento. È stata tentata anche la formula “libanese” con la regola di un capo dello Stato curdo, un primo ministro sciita e un presidente del parlamento sunnita.

Quando tutto è parso sul punto di precipitare, Obama ha ingiunto a Maliki di lasciare il potere, contraddicendosi due volte. Se l’Iraq è stato portato alla democrazia dalla guerra americana, sono gli elettori e non la Casa Bianca a decidere se un governo è buono o cattivo. Ma se sono gli Stati Uniti a vigilare sul governo di Baghdad ci si chiede se abbia piú colpa Maliki o il governo americano. Nelle ultime elezioni parlamentari, svoltesi fra mille tensioni, il partito di Maliki aveva ottenuto la maggioranza.

Le asimmetrie di vario genere che caratterizzano le guerre del Medio Oriente sono di per sé una causa di profonda destabilizzazione. Vi sono impegnati Stati piú o meno assestati e movimenti transnazionali. Israele non si tocca, compresi gli insediamenti nei territori occupati. La sovranità dell’Autorità nazionale palestinese è evanescente e Gaza è, in senso letterale, il nulla. L’integrità degli stessi Iraq e Siria, i pilastri della regione detta Mezzaluna fertile, non è piú garantita. Quando il divario è troppo forte, è difficile fare sia la guerra che la pace. Obiettivi e ragion di Stato delle forze che si combattono non sono comparabili e compatibili. Lo si è già visto a Gaza.

Le alleanze stanno cambiando e non sono nemmeno le stesse nei vari comparti della crisi generale. Siccome Teheran è fra i beneficiari del collasso della macchina del potere sunnita in Iraq, e ha un occhio di riguardo per il governo sciita con sede a Baghdad, gli Stati Uniti hanno dovuto rivedere il loro ostracismo preconcetto contro il regime degli ayatollah. Tanto è bastato per far nascere una convergenza contro natura fra Arabia Saudita e Israele. La Turchia ha rotto la coalizione sunnita non seguendo Riad nell’ostilità senza quartiere per i Fratelli musulmani e mantenendo una posizione ambigua sulla guerra dell’Isis, anche perché è espostissima a possibili riverberi dentro casa. Il Curdistan iracheno deve la sua relativa autonomia alla garanzia di Ankara ma la condizione è che il secessionismo non contagi i curdi di Turchia. Gli aiuti militari promessi frettolosamente all’esercito irregolare curdo, i peshmerga, ai quali potrebbe attingere anche il Pkk, il Partito comunista curdo di Turchia che ovviamente Erdogan vuole tenere a bada, soprattutto in una fase critica del negoziato avviato da tempo con il suo leader, Očalan, ancora in carcere, e nella denegata ipotesi di una “fumata nera”, sottovalutano i contraccolpi che questa diffusione di armi fra soggetti non-statali può provocare in tutta la regione. Sul ruolo di combattente non dichiarato dell’Iran, in Iraq come in Siria, anche per terra tramite i pasdaran, servirebbe piú trasparenza. Una “vittoria” non può fare a meno comunque di un compromesso fra Arabia Saudita e Iran sul futuro di Iraq e Siria. L’Egitto, uscito malissimo dal colpo di Stato, ha cercato di riscattarsi mediando la tregua fra Israele e Hamas. La comprensibile intenzione di al-Sissi di restituire al Cairo la leadership perduta con Mubarak stride con l’accanimento contro la Fratellanza musulmana. A confronto delle ambizioni del Califfato, e della sua dottrina di morte, il progetto politico dei Fratelli – nonostante le gravi pecche che ha rivelato alla prova del governo in Egitto – è una componente che non tutti vorrebbero scartare e che la Turchia appoggia apertamente, La Fratellanza musulmana si presenta come un movimento dal basso, anche se non rivoluzionario, e il regno saudita non lo sopporta.

Una transizione democratica, in qualsiasi forma, è quanto spaventa di piú l’Arabia Saudita e gli altri emirati e sceiccati del Golfo. Sono questi gli alleati su cui conta l’Occidente. La monarchia saudita è sempre sull’orlo del doppio gioco non solo perché è ormai un alleato critico degli Stati Uniti ma perché l’Isis è comunque un antidoto contro gli sciiti, Stati o terroristi.

La guerra di tutti contro tutti in Medio Oriente è aperta sia verso la frammentazione piú disordinata che verso ipotetiche aggregazioni identitarie per fede o altri requisiti etnico-culturali. Gli accordi Sykes-Picot del 1916, a cui risale, con alcune rettifiche, la fisionomia degli Stati che sono stati mandati, e dunque semi-colonie, di Francia e Inghilterra dopo il disfacimento dell’Impero Ottomano, sono improvvisamente tornati di attualità come un oggetto del contendere. Netanyahu ha qualche ragione per cominciare a paventare che una stessa sorte tocchi alla Dichiarazione Balfour del 1917. Anche la Palestina è stata un mandato.

La guerra per la guerra in cui le potenze del Centro si stanno cimentando non rispetta i diritti dei paesi di quella vasta terra di nessuno o di tutti che separa il Nord dal Sud (e ora anche l’Ovest da un Est che si riduce di fatto alla Russia), e ne dispongono come res nullius. Sorvolati dagli aerei da combattimento e attraversati dai profughi che fuggono dalla guerra, i confini nel Medio Oriente praticamente non esistono piú. Gli interessi in palio sono giganteschi. Soprattutto se riavrà Kirkuk, un tempo curda e arabizzata da Saddam, il Curdistan iracheno galleggerebbe sul petrolio. Sauditi e compagni hanno tutto da guadagnare da un collasso dell’Iraq: la storia dell’Opec muterebbe completamente.

Nello stesso tempo, nessuno si preoccupa della governabilità di Stati cosí menomati e della loro stessa “esistibilità”. Alle pseudo-autorità che vengono prospettate o insediate “territorializzando” le crisi della transizione il sistema si chiede solo che adempiano alle mansioni minime della “sicurezza” come intesa dalle potenze che dominano il mercato. Ma, come ha scritto di recente niente meno che Henry Kissinger, «il processo di globalizzazione scatena una reazione politica che spesso finisce con l’ostacolare le sue aspirazioni». La ricerca di un ordine mondiale è stata condotta tutta e sempre sulla scorta dei valori fondanti delle società occidentali e per ciò emargina e demonizza pericolosamente potenze regionali o mondiali “fuori quota”. Se gli Stati Uniti non si fidano delle Nazioni Unite perché non convocano in proprio una Conferenza con Iran, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Turchia e Russia per uscire dal circolo vizioso in cui si ostinano a cacciarsi?

Al Califfato tutte le testimonianze attribuiscono le peggiori atrocità contro le minoranze, musulmane o d’altro ceppo, che sono da eliminare, e le donne ridotte a bottino di guerra. Il terrore diventa uno strumento di conquista insieme alla ricerca del consenso di chi ha rancori o frustrazioni da ripagare. Per condannare i delitti piú odiosi commessi dagli uomini di al-Baghdadi si è fatto ricorso a locuzioni definitive come barbarie. I fatti sono gravissimi, ma in modi diversi tutte le guerre, sui due fronti, sono una resa alla barbarie. Al terrore artigianale dei razzi di Hamas l’esercito israeliano ha risposto con il terrore chirurgico. Le vittime meritano tutte la stessa compassione. I vizi e le virtú di diversi secoli si accavallano confusamente. Il petrolio si estrae dalla sabbia del deserto. I fantasmi in nero impugnano i coltelli ma parlano l’inglese praticato a Oxford e impiegano i social networks. Gli Stati Uniti si ispirano al fior fiore della democrazia occidentale ma il «Patriot Act» ha reintrodotto la tortura come strumento della war on terror. Abu Grahib e Guantanamo, la serie ininterrotta di “omicidi mirati” che Obama cita con l’aria di vantarsene e lo stesso assassinio di Bin Laden autorizzano ad avere qualche dubbio sulle garanzie della giustizia americana in questo frangente. In una conversazione sulla politica estera degli Stati Uniti, in cui insiste sull’importanza che in essa riveste la “segretezza”, per non svelare subito e pubblicamente i lati piú oscuri (l’asilo concesso da Putin a Snowden è un altro capo d’accusa che la Casa Bianca ha messo in conto al padrone del Cremlino), Noam Chomsky riferisce che nel dare il proprio assenso a un’inchiesta dell’Onu su Bashir al-Assad per crimini di guerra il governo americano temendo probabilmente trasposizioni o compensazioni (gli Stati Uniti non hanno firmato il patto che ha istituito la Corte penale internazionale) ha posto la condizione che non ci siano inchieste dello stesso tipo a carico dei dirigenti israeliani. Anche nel Mediterraneo ci sono tanti morti, ma non si vede nessuna mobilitazione riparatoria.

Le parole troppo forti sono pietre che finiscono per ricadere su chi le usa. La falsificazione insita in una narrazione troppo condizionata dalla propria visione e persino dai propri principi può trasformarsi in un auto-inganno involontario, proprio mentre – in tempi seri e pericolosi come questi – c’è l’assoluto bisogno di rappresentare la realtà per quella che è e non per quella che si vorrebbe fosse per la nostra consolazione.

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