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One (labour) market, one money

di Alberto Bagnai

(sempre per la serie ce l’avevano detto, e per l’altra serie “pe’ malati c’è la china...”)

Vi ricordate Pantegana? Il mio più tragico fallimento didattico? Il piddino che mi sono covato in seno? Dai, non è proprio così... Non siamo mai più tornati sul suo discorso, c’erano tante e tante cose da dire, ma in fondo l’idea del ripristino del Glass-Steagall, per esempio, non è mica cattiva. E poi, quando parlavo di fallimento didattico, io scherzavo, va da sé. Fosse stato vero, avrei preferito tacere: i fallimenti, di solito, si tende ad occultarli. Invece io so che lui ha imparato molto da me, e anch’io ho imparato molto da lui. Per esempio, l’uso dell’accordo di settima di quarta specie (ma anche di quello di nona), non preparato, a scopo di rimorchio. Pensa, Panty, che poi, quando ho preso il mio secondo diploma, ho fatto una gran bella figura con l’insegnante di lettura della partitura grazie a te, perché tu mi avevi insegnato che in questa musica decadente che piace a voi un accordo dissonante può avere funzione di tonica. Quattro note (ma giuste) e da cembalista puoi riciclarti pianista jazz (si fa per dire)... Che poi, volendo parlare a molti (come pochi mi chiedono) indubbiamente sarebbe una strategia vincente. Mi scuserai, Panty, se non ho ancora trovato tempo di far tesoro dei tuoi insegnamenti: ormai temo sia tardi.

 

In compenso tu hai fatto tesoro dei miei, e non sai quanto sono fiero di te.

 

Ecco che ricevo quindi dalle cloache della finanza un altro sms del buon Panty, che sottopongo alla vostra attenzione, perché si pone una domanda che credo qualcun altro si ponga (certamente l’amico del tornese, ma, ne sono certo anche molti altri).

 

Ti leggo almeno una volta a settimana... Un abbraccio profondo e sincero, su alcuni temi non sono sempre allineato ma ti leggo sempre con gusto. Ti auguro sempre il meglio! Alla fine se gli squilibri di bilancia esistono in qualsiasi sottoinsieme del sistema: paesi, regioni, province... città... Ma allora qual è il perimetro di taglio per le valute? Facciamo la valuta dei Parioli? Hugs!

 

La mia risposta sintetica:

 

Te mi sa che la dogana di Piazza Ungheria lunedì non la passi.

 

Ma ora ci vuole una risposta analitica. Spererei fosse inutile. In fondo, avrei diritto di sperarlo da uno studente di economia: insomma: è stato dato un premio Nobel su questa storia. So bene che non è esattamente la stessa cosa (per quanto...), ma voi, 67 anni dopo il Nobel a Fleming e compagnia, se avete un’infezione seria gli antibiotici li prendete, no? Mettetevi comodi.



I tre moschettieri


Nell’ottobre del 1990 esce su European Economy, rivista della Direzione generale per gli affari economici e finanziari della Commissione Europea, uno studio dall’incisivo titolo: One market, one money, e dal sottotitolo chiarificatore: An evaluation of the potential benefits and costs of forming an economic and monetary union. Lo studio era stato commissionato, che poi significa pagato, dalla Commissione ad alcuni economisti. Vale la pena di nominarli, visto che, a differenza delle valute nazionali, gli autori di questo bel rapporto sono ancora in circolo: il coordinatore era Michael Emerson (strutturato alla Commissione come Direttore per la valutazione economica delle politiche comunitarie), i principali autori erano Jean Pisany-Ferry e Daniel Gros (consulenti), e giù a seguire una sfilza di altre figure minori (olandesi, inglesi, tedeschi, francesi, belgi).

 

La decisione di avviare il processo che avrebbe condotto all’euro era sostanzialmente già stata presa (Consiglio europeo di Dublino, aprile 1990), ma certo, così, pro forma, c’era bisogno di uno studio “scientifico” che “dimostrasse” che era una buona idea. Siamo in un’economia di mercato: basta pagare, ed ecco lo studio adatto. Perché, insomma, ci sarà ancora qualche piddino in giro per queste stanze (nonostante la disinfestazione), ma voi capite bene che i solerti autori, ispirati dai soldi che avevano ricevuto, non potevano che giungere, come infatti giunsero, alla conclusione che l’unione economica e monetaria (UEM) avrebbe avuto effetti mirabolanti. L’asino, si sa, lo si attacca dove vuole il padrone. Mi sembra una elementare norma di buon comportamento.

 

Il buongiorno si vede dal mattino. E qui, già il sottotitolo, invece di parlare di costi e benefici (come nella formula standard: costs-benefits analysis) parla di benefici (prima) e costi (dopo). Dettagli? Forse... Intanto, se cercate con Google “costs and benefits” trovate quasi otto milioni di pagine. Se cercate “benefits and costs” ne trovate circa un quarto. Una scelta un po’ anticonvenzionale, quella di mettere avanti i benefici.

 

Pensate!  Secondo gli autori di questo bel rapporto l’unificazione monetaria avrebbe fatto risparmiare lo 0.4% del Pil europeo di costi di transazione! Accipicchia: all’epoca sarebbero stati circa 25 miliardi di euro per l’intera Europa (feci il calcolo in questo mio articolo). Barry Eichengreen, che non è esattamente uno di passaggio (top 5% a livello mondiale secondo praticamente tutti i possibili criteri di valutazione – numero di opere, numero di citazioni, ecc. – professore all’Università della California a Berkeley, ecc.) in un suo articolo sul Journal of Economic Literature del 1992 (all’epoca fra le prime due o tre riviste per impact factor) notava però che un guadagno simile poteva difficilmente essere considerato adeguato, al confronto dei rischi che il progetto comportava. Sagge parole, inascoltate come di consueto.

 

Ma i rischi, per i nostri amiconi, non c’erano. Certo, sempre pro forma, qualche costo bisognava menzionarlo (altrimenti lo studio non sarebbe sembrato abbastanza scientifico, e invece bisognava che lo sembrasse). E infatti i nostri tre moschettieri cosa fanno? A pagina 11, punto (iv), sciorinano la solita pappardella:

 

Reazione a shock economici. Il principale costo potenziale dell’UEM è rappresentato dalla perdita delle politiche monetarie e valutarie nazionali, come strumenti di risposta a shock esterni. Questa perdita però non va esagerata, perché sarà sempre possibile aggiustare il tasso di cambio della moneta unica rispetto al resto del mondo, mentre all’interno del Sistema Monetario Europeo le variazioni del tasso di cambio nominale di fatto sono già state abbandonate come strumento di politica, e l’UEM ridurrà l’incidenza di shock specifici sui singoli paesi membri. E poi, il costo del lavoro potrà sempre cambiare, le politiche fiscali nazionali e comunitarie potranno assorbire parte degli shock e aiutare gli aggiustamenti, e il vincolo della bilancia dei pagamenti scomparirà.”

 

L’intento, è ovvio, è quello di minimizzare. Eppure...

 

Dai, contiamole...

 

Una... due... tre... quattro... cinque affermazioni lievemente imprecise in nove righe. Bisogna impegnarsi, ma, come i fatti dimostrano, ce la si può fare. Vediamole rapidamente.



Cinque pezzi facili


Numero uno: l’Unione monetaria non sarà un gran problema perché “sarà possibile aggiustare il cambio della moneta unica rispetto al resto del mondo”. Sì, amico caro, sarà possibile, ma il fatto è che i paesi dell’Unione commerciano soprattutto fra di loro (sai, ci sono i costi di trasporto, e quindi si commercia di più con chi ti è vicino, anche perché è più facile capire che gusti ha). Quindi, come dire, amico mio, per un paese come l’Italia o la Spagna l’aggiustamento del cambio verso il resto del mondo non risolve nemmeno la metà del problema, se il problema è determinato dagli scambi con gli altri paesi europei (come era già allora, ed è adesso). E ancora! Bisogna che il cambio si muova in una direzione che fa comodo a tutti, e non sempre questa direzione esiste. Magari un paese avrebbe bisogno di rivalutare e un altro di svalutare, e allora cosa si fa?

 

Numero due: ma comunque l’UEM ridurrà l’incidenza di shock specifici, cioè tutti i paesi saranno insieme nelle stesse condizioni: o tutti in recessione, o tutti in espansione, e quindi il problema di differenziare le politiche non si porrà. Ah sì? A giudicare da quello che sta succedendo non si direbbe (Germania e Grecia non mi sembrano nelle stesse condizioni), e del resto all’epoca di Emerson questa affermazione era del tutto campata in aria: una petizione di principio, wishful thinking. Quando poi, a danno fatto, si sono potuti osservare i dati, qualcuno (Spennacchiotto, ve lo ricordate?) ha provato a dimostrare che in effetti questo effetto di “omogeneizzazione” dei cicli si era verificato. Ma ricorderete anche che il suo studio faceva schifo e gli è valso tante ma tante mazzate sui denti (da Persson, da Baldwin, e via dicendo). Povero Spennacchiotto...


Numero tre: be’, a cosa serve aggiustare il cambio nominale? Già non lo stiamo più facendo! Abbiamo abbandonato il cambio come strumento di politica...” Ah sì? Questione di punti di vista: dal 1980 al 1989 c’erano stati nove riallineamenti dei cambi all’interno del Sistema Monetario Europeo. Dire che il cambio nominale non veniva più usato... era un po’ azzardato. Un azzardo del quale del resto furono vittime due altri importanti economisti: Jeffrey Frankel e Steven Phillips. Poracci! Avevano preparato per gli Oxford Economic Papers (mica per Lancio Story) un bell’articolo dal titolo: “Il Sistema Monetario Europeo: finalmente credibile?” nel quale dicevano che la credibilità degli accordi di cambio europei era andata aumentando dal 1988 al 1991... ed ecco che nel settembre del 1992 succede il putiferio che sappiamo, la lira si sgancia e svaluta, la sterlina pure... e a ottobre esce l’articolo di Frankel e Phillips! Il nostro lavoro, non sembra, ma è pericoloso. O meglio, lo sarebbe se ci fossero più bastardi come me che raccontano cosa succede dietro le quinte delle riviste scientifiche... Sintesi: il cambio nominale serviva come strumento di politica economica, e come se serviva, e dire di no era un po’ come fermare il vento con le mani. Solo che non era il ponentino, era un tornado.


Numero quattro: le politiche fiscali nazionali e comunitarie potranno assorbire gli shock. Daje a ride’, dicono a Roma. Che le politiche comunitarie non potessero assorbire un bel nulla lo avevano fatto adeguatamente notare Bayoumi e Eichengreen nel loro articolo “Aspetti ‘scioccanti’ dell’unione monetaria europea. In questo articolo essi facevano notare che rispetto agli Stati Uniti gli stati dell’Eurozona erano molto più soggetti a shock “idiosincratici” (ovvero: poteva benissimo capitare che un paese fosse in recessione mentre altri erano in espansione), e quindi l'Eurozona avrebbe avuto molto più bisogno degli Stati Uniti di politiche che compensassero questi squilibri del ciclo fra l’uno e l’altro paese. Sì: avete capito: è esattamente quello che sta succedendo adesso, con la Grecia in crisi e la Germania (ancora) no.

E i due impietosi autori continuavano osservando che nonostante l’Europa avesse più bisogno degli Stati Uniti di meccanismi compensativi, di fatto mentre negli Usa questi meccanismi esistevano, in Europa ce n’erano per nulla! Negli Usa uno shock negativo sul reddito di uno stato veniva compensato per almeno un terzo da trasferimenti federali (sussidi, riduzioni automatiche delle imposte, ecc.). In Europa nulla di tutto questo. E in Europa i bilanci nazionali, spesso schiacciati dal peso dei pagamenti per interessi (che si erano alzati per difendere i tassi di cambio “credibili”) non avevano spazio per difendere in qualche modo i propri cittadini dagli effetti di shock avversi. Così come non ne hanno adesso. Solo che ora lo vediamo anche noi, e allora lo vedevano solo gli economisti non pagati dalla Commissione. Non c’è che dire: una mazzetta di marchi (a quei tempi gli euro non c’erano) è proprio un bel collirio: te la applichi sugli occhi, e non vedi più nulla...

 

And the winner is...


Numero cinque:
il vincolo della bilancia dei pagamenti scomparirà (per la precisione: “the external current account constraint will disappear”). Questa, ragazzi, è talmente enorme, ma talmente enorme... Non so nemmeno se riesco a spiegarvela. Insomma: i nostri amiconi dicevano che quando avremmo avuto una moneta unica, di fatto i paesi membri non avrebbero più avuto alcun vincolo esterno (beninteso, fra di loro).

Certo!

Questo sarebbe stato possibile se ognuno avesse mantenuto un proprio istituto di emissione! Compro duecento milioni di euro di cantate di Bach dalla Germania, ma gli vendo solo 100 milioni di euro di triosonate di Corelli. Che problema c’è? Stampo a Roma gli euro che mancano... Ma... Amici! Le cose non vanno così, e lo vediamo ogni giorno, e lo vediamo anche in Italia. Il vincolo esterno esiste. Appunto, come dice l’amico Panty! Ogni  sottoinsieme del sistema ha un vincolo della bilancia dei pagamenti: Panty dice “paesi, regioni, province, città”... e io aggiungo: “persone”.

Scusate tanto...

Faccio un esempio per far capire di cosa stiamo parlando. Uscite di casa e andate al bar. Prendete un caffè. Un euro. Cacciate l’euro dalla tasca. Andate dal notaio e comprate un appartamento. Centomila euro (siete di poche pretese). Li cacciate dalle tasche? Non credo. E allora? E allora ogni unità economica (persona, città, provincia, cosa, o animale) se deve fare una spesa ha due possibilità: o la finanzia con i propri redditi, o si indebita (e poi prova a rimborsare il debito). Punto. Si chiama vincolo di bilancio, o, se volete, bilancia dei pagamenti, e ce l'hanno tutti. Prima di spendere o guadagnate o prendete in prestito (o comprate a credito, che è esattamente come prendere soldi in prestito dal venditore).

C’entra qualcosa il fatto che il debito venga contratto in lire, euro, perline colorate o foglie di tabacco? No, no, no, no, no, mille, diecimila, centomila volte no. Il fatto che se vogliamo disporre di potere di acquisto prima dobbiamo procurarcelo, vuoi come reddito (lavorando), vuoi come prestito (indebitandoci), è del tutto privo di relazione con l’unità monetaria nella quale quel potere di acquisto è definito. Il che, di converso, significa che cambiare unità monetaria (ad esempio, in seguito a una Unione), non dispensa le unità residenti in un paese dalla necessità di soddisfare agli obblighi contratti con unità non residenti.

Altro che "the external constraint will disappear"! Ma come si fa! O Signore...

Insomma: dopo l’Unione monetaria, il debito che un greco contrae con un tedesco rimane un debito estero e va (cioè andrebbe) ovviamente rimborsato. Il vincolo continua ad esistere. E quindi la persistenza di squilibri commerciali (con la necessità di indebitarsi per pagare le importazioni che non riesci a finanziare vendendo beni all’estero) continua ovviamente a costituire un problema, un enorme problema, anche in una unione monetaria. Anzi: il problema, invece che scomparire, come dicono i tre amiconi, si amplifica, perché naturalmente se la moneta è unica non c’è verso di utilizzare il cambio per rimettere le cose a posto. Prima, se ti stavi indebitando con l’estero, dopo un po’ o svalutavi tu o rivalutava il creditore (nove volte in nove anni...). Dopo... ecco: ora siamo al dopo!

 
 
L'intrusa

Ma attenzione!

 

Perché fra quelle righe si era infilata, così, di soppiatto, in punta di piedi, per non disturbare, un po’ arrossendo, poverina, una unica verità. Una verità che ora tutti capiscono, anche perché ora, ora che i giochi sono fatti (crede lui) perfino il giornale dei padroni ce la sbatte in faccia. Ma prima, prima, be’, per completezza questa verità bisognava dirla, sapete, la scienza... Ma la si diceva, come dire, un po’ in sordina, la si diceva in modo molto tecnico, perché non venisse capita da tutti, ma solo da chi, pur capendola, non aveva alcun interesse a trarne le conclusioni.

 

E qual è questa verità? Semplice: “relative labour costs will still be able to change”. Cosa vuol dire? Semplice. Vuol dire quello che ci dice da “La voce del padrone” il simpatico Da Rold (leggete il punto 6 e guardate chi nomina al punto 4): in un’unione monetaria non puoi più svalutare il cambio (un euro italiano è uguale a un euro tedesco), e quindi, se ci sono problemi, devi svalutare il salario (cioè se i tedeschi decidono di pagare di meno i loro lavoratori, gli italiani devono fare la stessa cosa o soccombere). Ecco. Questa è l’unica cosa giusta detta dai tre amiconi, e credo che oggi, con i tagli dei salari del 30% in Grecia (ai quali perfino alcuni dei miei lettori hanno osannato, poracci...), credo che tutti capiamo di cosa stiamo parlando. E non dite che non ce lo avevano detto: perfino gli “economisti” “pagati” (perché il termine giusto è prezzolati, ma non è politicamente corretto) dalla Commissione ve lo avevano detto! E perché non li avete letti?

 

Bene.

 

Anzi, male.

 

Perché se questa è l’unica cosa giusta, allora nell’articolo dei tre moschettieri c’è un’altra cosa sbagliata. Il titolo. Che non avrebbe dovuto essere “One market, one money”, ma “One labour market, one money”. Ovvero: visto che con una unione monetaria gli shock si scaricano sul mercato del lavoro, la dimensione ottimale di un’area che adotta una moneta unica è quella che corrisponde a un mercato del lavoro omogeneo. In questo modo, quando lo shock arriva, il lavoratore può spostarsi, a parità di contratti di lavoro, di tutele, ecc. da una regione all’altra, e lo shock viene assorbito. Nei confronti del resto del mondo occorrerà però mantenere i meccanismi di aggiustamento tradizionali: politica monetaria, politica valutaria (flessibilità del cambio).

 

Quindi, caro Panty, è inutile che fai tanto lo spiritosetto con me. La moneta dei Parioli, il tornese... sentite: se lo volete capire, va bene, altrimenti vi banno, perché qui non stiamo parlando di chi vince il campionato (cosa della quale, come sapete, a me non importa una bella sega): qui stiamo parlando della vita delle persone. Potrebbe forse importarmene anche meno del campionato, chissà... Ma troverei molto poco corretto scherzarci sopra come fate voi, carissimi.

 

La dimensione ottimale delle aree valutarie è evidentemente dettata dalla segmentazione (legislativa, previdenziale, linguistica, culturale) dei rispettivi mercati del lavoro. Che poi coincide, più o meno, con quella degli Stati nazionali. L’Eurozona aveva (all’inizio) una dozzina di membri ognuno con mercati del lavoro profondamente diversi. Metterli sotto il tetto di una moneta unica ha significato scaricare sui salari i costi degli aggiustamenti macroeconomici, cioè far sì che in caso di crisi l’unica risposta possibile fosse la svalutazione dei salari, non essendo più possibile aggiustare né il tasso di cambio, né quello di interesse. E questo si sapeva perfettamente che sarebbe successo. Se i tre moschettieri (Emerson, Pisani-Ferry e Gros) lo dicono (quando gli sarebbe convenuto nasconderlo), è solo perché nasconderlo era impossibile. E quindi, se lo si poteva prevedere, aggiungo, questo esito, fortemente sfavorevole ai salariati, è stato voluto, ed è stato voluto perché era fortemente sfavorevole ai salariati.

 

Robert Mundell lo aveva detto in modo cristallino quasi trenta anni prima: alla domanda “what is the appropriate domain of a currency area?” (quali sono le dimensioni appropriate di una unione monetaria) risponde “an essential ingredient of a common currency area is a high degree of factor mobility”: un elemento essenziale è un livello elevato di mobilità dei fattori. Cosa vuol dire? Vuol dire che una moneta unica può essere sostenuta da un’area geografica all’interno della quale sia facile per i lavoratori (il fattore lavoro) spostarsi da zone depresse a zone in espansione. Voi direte: “beh, ma anche in Europa, prima dell’euro, c’era stata tanta mobilità!”

Certo

Marcinelle qualcuno sa ancora cos’è, giusto?

Duecentosettantaquattro morti, la maggior parte italiani (non pariolini, capisci...). Quindi la mobilità c’era, e aveva enormi costi umani. Per ridurre questi costi, per uniformare i mercati del lavoro, per uniformare i sistemi educativi, per uniformare i sistemi previdenziali, cosa è stato fatto? Nulla. Nulla a parte quella riforma merdosa dell’università, quella che mi impedirà per sempre di poter insegnare qualcosa alle persone brillanti che ancora continuo a incontrare. Nulla. Ma la teoria delle aree valutarie ottimali da lì parte. Non da “facciamo la moneta, il resto seguirà...”. Non dalla realpolitik di Aristide e di Prodi. Dal buon senso di Mundell.

 

Appunto.

 

Ora chiedono “più Europa”. Ma invece di chiederla dopo, bastava farla prima. Questo dice la teoria economica: creare uno spazio economico nel quale i fattori di produzione possano muoversi, come lo fanno negli Stati Uniti. No, non si poteva! Perché? Semplice. Perché si sapeva che tanto i costi degli aggiustamenti si sarebbero scaricati sui più deboli, non più protetti, né a livello economico, né a livello politico, dalla presenza degli Stati nazionali. Eh già, perché come per caso, via via che questo processo andava avanti, siamo passati dal proporzionale al maggioritario col “voto utile”, e dal “voto utile” al non voto, quello che ci ha regalato l’ultimo governo.

 

Coincidenze.


Sintesi: il perimetro di taglio (come lo chiami tu), cioè la dimensione dell’area valutaria ottimale (come la chiama Mundell) è data da quella entità geografica che dispone di un mercato del lavoro ragionevolmente omogeneo (in termini giuridici, previdenziali, linguistici, ecc.). Quando questo confine viene travalicato, la mobilità dei lavoratori sarà impedita, e gli aggiustamenti si scaricheranno sul tasso di disoccupazione e sui salari (col meccanismo della curva di Phillips).


Certo, ora molti ingegneri spagnoli vanno a lavorare in Germania...
Ma credi che questa mobilità basti a riportare in equilibrio l’Europa?


Basterà a salvare poche persone estremamente acculturate, come siamo io e te (io grazie a te, tu grazie a me). Ma sai, Panty caro, io e te cadremmo sempre in piedi. Ti ricordi? Chiesero ad Aristippo di Cirene quale fosse la differenza fra il sapiente e il non sapiente, ed egli rispose: "manda tutti e due nudi a gente che non li conosce e la saprai". Sai, noi sapienti siamo così: alle brutte, ci metti davanti a una tastiera, una settima di quarta specie, un paio di none, e la serata la svoltiamo. E allora la domanda è: Panty caro, ora hai figliato anche tu, mi sento come se avessi un nipote (che non ho mai visto, 'tacci tua): ma per te gli altri esistono?

Quelli meno versatili di noi, intendo.

Ecco, faccio la stessa domanda a Alessandro: vuoi andare a spiegare la storia del tornese in un bar di Atene, anziché di Bagnacavallo? Così, per vedere come la prendono.

Ragazzi, non prendiamoci in giro...

 


Mica avrete creduto che qui si parlasse solo di El Greco? Quello lo uso per disinfettare, ma il lavoro che devo fare è un altro. E ho poco tempo per farlo. Quindi chi capisce capisce, e chi non capisce lo banno. Comments welcome? Certo! Ma solo se prendono in considerazione l'esistenza degli altri, dei diseredati, dei miserabili. Vogliamo ammazzarli? In un mondo nel quale l'obesità è un serio problema (casualmente, nel paese che assorbe i due terzi dei risparmi netti di tutti gli altri paesi messi insieme)! In un mondo nel quale ce ne sarebbe per tutti... O vogliamo pensare a un mondo meno assurdo? Ma cominciando da casa nostra, però...


Caro Schneider, sì, in effetti ho barato. Non conosco solo il Protagora. Ma rimango comunque un dilettante, ci mancherebbe! E tu, visto che mi parli di togliersi soddisfazioni, ti ricordi chi era Mabeuf?... Sai, quello che fa capire a Marius che padre aveva avuto. Insomma, non è roba da piddini... Se non te lo ricordi tu, poco male: Claudio se lo ricorda di sicuro!

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