Print
Hits: 2364
Print Friendly, PDF & Email

Il paradosso di Berlusconi “keynesiano”

di Luigi Cavallaro

Negli anni la sinistra, abbandonando progressivamente i propri punti di riferimento nella teoria economica, è diventata la paladina del “rigore”, fino ad approvare il pareggio di bilancio in Costituzione. Così ha concesso a Berlusconi ampio margine per conquistare un terreno politico lasciato incustodito. Il paradosso di un Cavaliere “keynesiano”, avversario dell’austerità imposta dalla Merkel e critico dell’euro, altro non è che il risultato di una sinistra che ha fatto proprio il “punto di vista del Tesoro“

Gramsci scrisse una volta che dire la verità è una necessità politica. Ma dire la verità presuppone una scelta partigiana: la verità, infatti, è sempre situata da una parte.

La parte in cui ci vorremmo situare non è una generica «sinistra». Da tempo ormai questa parola non designa null’altro che un vago e indistinto antagonismo rispetto a Silvio Berlusconi, ossia rispetto a colui che, negli ultimi vent’anni, ha incarnato il «grande Altro» della revanche capitalistica da cui è stato pervaso il nostro Paese. «Di sinistra» sono così diventati Indro Montanelli e Eugenio Scalfari, Antonio Di Pietro e Francesco Saverio Borrelli, Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi (e Giuliano Amato), e perfino organi dello stato come la Corte costituzionale o interi apparati statali, come la magistratura.

La parte per cui intenderemmo prendere parola non è dunque una «sinistra» che non ha più significato alcuno. È piuttosto la «parte maledetta»: quella stessa di cui scrisse Bataille in un’opera visionaria in cui si provò a illustrare «le ragioni che rendono conto delle bottiglie di Keynes»1, e che sola può spiegare la verità delle più estreme posizioni politiche di Berlusconi, così come la logica della polarizzazione dello scontro politico intorno a lui.

Siccome i numeri aiutano a ragionare, ne ricordiamo qualcuno. In Germania, il numero di processi civili annui che sopravvengono ad ogni giudice è di circa 55. In Francia, 225. In Italia, poco meno di 450. Ancora, in Germania il numero di sopravvenienze penali annue per ciascun giudice è poco più di 40 (parliamo di processi per reati gravi). In Francia, poco più di 80. In Italia, quasi 2002.

Gli economisti mainstream, che ragionano sempre di offerta, ci dicono che è colpa dei troppi avvocati3: che in effetti per ciascun giudice togato sono circa 7 in Germania e Francia, contro più di 26 in Italia. Ma spiegare il numero delle cause col numero degli avvocati è pura insipienza: se gli italiani non facessero cause o reati, gli avvocati morirebbero di fame.

A meno dunque di ritenere che gli italiani siano causidici o delinquenti «per natura», si deve guardare altrove per scoprire le cause di una giustizia così pletorica. Anche qui aiuta il confronto con la Germania e la Francia. Quando un’economia si affida al mercato, la composizione della struttura produttiva è decisiva per l’adozione di strategie competitive diverse dalla compressione dei costi. È ciò che hanno potuto fare la Germania e, in misura inferiore, la Francia. Non così l’Italia: con una struttura produttiva fatta per lo più di agroalimentare, arredo casa, automazione meccanica e abbigliamento, e con oltre l’80% del tessuto produttivo fatto di imprese con meno di cinque dipendenti, abbiamo subito la concorrenza dei paesi emergenti, che possono produrre le nostre stesse merci a costi incomparabilmente inferiori. La compressione dei costi è stata così una necessità.

Non c’è da stupirsi, allora, se il cambiamento di costituzione materiale che il nostro Paese ha vissuto dal 1992 in poi, a seguito della scelta di sottrarre allo stato le leve del comando dell’economia, si è accompagnato all’ulteriore declino della nostra industria e all’impoverimento di ampie fasce della popolazione, specie tra i lavoratori dipendenti e i pensionati: quell’esito era inscritto come logica (benché tragica) conseguenza della svolta verso il laisser faire. Una svolta voluta in primis da Amato, Ciampi, Prodi.

Per converso, la nostra legislazione è rimasta ancora per molti aspetti «infettata» dalla pretesa dell’art. 41 della Costituzione di controllare socialmente le attività private. Liberalizzazioni e deregolamentazioni hanno investito pesantemente il lavoro come gli affitti delle case, l’attività bancaria come la telefonia, ma sono rimasti molti vincoli sull’uso delle risorse pubbliche (dall’ambiente al paesaggio urbano) e sulla stessa disponibilità di quelle private. E sono rimasti, benché acciaccati, anche il fisco e il sistema pensionistico e le loro pretese sui redditi da lavoro e d’impresa, per di più crescenti a causa della supposta necessità di rientrare dal debito pubblico.

Vale la pena ripeterlo: se un sistema economico si affida al mercato, solo la composizione della struttura produttiva può salvarlo da una competizione giocata sui costi. Se così non accade, anche il controllo di legalità diventa un costo da ridurre quanto più possibile: ne va della sopravvivenza del sistema.

Solo degli inguaribili idealisti possono dunque credere che sia un problema «morale» e non economico il fatto che il 30% del nostro Pil sia un’«opera al nero». La realtà è ben diversa. La spinta alla delinquenza è sistemica e – del tutto logicamente – anche tollerata. Abusivismi di ogni sorta proliferano sotto gli occhi di tutti. Le piccole imprese sopravvivono solo grazie all’elusione e all’evasione, fiscale e contributiva. I lavoratori e soprattutto i disoccupati cercano di spuntare reddito con tutti i mezzi possibili, inclusi non di rado la truffa, il furto, la rapina. E tutti tentano di sfuggire al pagamento dei debiti contratti con banche, finanziarie ed Equitalia. Fate un giro per i tribunali di tutta Italia: dal civile al penale, raccontano di questo.

Berlusconi l’ha capito per tempo e si è mosso di conseguenza. Con una differenza fondamentale rispetto ai suoi avversari. Che non concerne, beninteso, le questioni su cui tradizionalmente si dividevano destra e sinistra: su queste ultime, essi la pensano esattamente come lui. Condividono, cioè, che non la politica ma il mercato debba provvedere all’allocazione delle risorse. Che l’individuo debba essere lasciato libero di «partire da sé» e da sé fabbricarsi la propria strada, in una libera competizione con gli altri. E naturalmente che rispetto alla crisi la pianificazione pubblica non sia la soluzione, ma – come disse Reagan – il problema.

La differenza tra Berlusconi e i suoi antagonisti concerne piuttosto il ruolo della spesa pubblica. Egli sa bene che in questo Paese non c’è laisser faire che non abbisogni di un laisser délinquer, ma sa altrettanto bene che, senza un sostegno alla domanda interna, non c’è deriva delinquenziale che possa salvarci dall’impoverimento e dalla svendita all’estero delle nostre attività. E dato che questo sostegno non può venirci dalla bilancia dei pagamenti, strutturalmente in disavanzo per lo spread della composizione della nostra offerta industriale rispetto a quella dei nostri vicini tedeschi e francesi4, non è disposto a rinunciare alle «esportazioni interne»5 garantite dalla spesa pubblica: vero e unico primum movens di un sovrappiù che andrebbe altrimenti sprecato, compromettendo in modo ancor più marcato i già risicati livelli di sussistenza (e di consumo) delle masse.

Sebbene mosso in primis da intenti squisitamente privati, Berlusconi ha potuto così recitare la parte del «campione dell’interesse nazionale»: proprio come accadde a Mussolini, che non a caso gode della stima del Cavaliere. E rivolgendosi direttamente al desiderio di molta parte dell’Italia, egli ha saputo interpretare lo Zeitgeist assai meglio dei suoi avversari. I quali, invece di criticare il Cavaliere per aver accelerato il processo di precarizzazione del mercato del lavoro, per avere ridotto la politica industriale a una pioggia di prebende ad personam, per aver trasformato il processo penale in una sequenza di atti preordinati al solo fine della declaratoria della prescrizione dei reati, per aver assecondato uno spaventoso regresso giuridico e culturale nel campo dei diritti civili e – last not least – per aver contribuito in modo decisivo al dilagare di una concezione proprietaria delle relazioni sociali, affettive e sessuali, hanno preferito credere (o far finta di credere) alle favole moraliste dispensate dalla stampa e dalla libellistica borghese,secondo cui il libero mercato funzionerebbe benissimo se solo all’ombra della spesa pubblica non albergassero ladri e «furbetti», mafiosi e corrotti. Come se la riproduzione del nostro capitalismo potesse appunto prescindere dall’una e dagli altri e non fosse invece obbligata dai vincoli derivanti dalla sua conformazione produttiva a invocare dosi sempre crescenti di spese clientelari e «zone franche» dai controlli di legalità.

Non c’è da stupirsi, allora, se le insistite giaculatorie in pro della moralità pubblica non scalfiscano il consenso strutturale di cui gode Berlusconi, né quando si scopre – conti alla mano – che i suoi governi sono stati gli unici a praticare le virtù del keynesismo (criminogeno, certo, ma pur sempre keynesismo è stato)6. Semmai è paradossale che, nella confusa babele della campagna elettorale, egli sia stato l’unico a dire parole di verità sull’Europa: precisamente quando, in modo pur contraddittorio, ha tentato di spiegare quel che i suoi antagonisti non sono disposti ad ammettere, vale a dire che il debito pubblico non è affatto la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse, che la causa di quest’ultimo risiede negli squilibri strutturali dell’eurozona e che le politiche di «austerità», lungi dal ridurre quegli squilibri, non fanno che accrescerli.

Ecco il punto: il debito pubblico, cioè la spesa pubblica. Si è detto più volte, nei mesi scorsi, che l’ascesa di Monti al soglio di Palazzo Chigi segnava simbolicamente il «ritorno del Padre» a risvegliare i figli (cioè noi tutti) dall’illusione immaginaria di un eterno godimento fondato sul debito7. Se ciò è vero, bisogna riconoscere che nella disperata resistenza ad ogni ipotesi di ulteriori «sacrifici» avvenire (fino al punto di rimettere in discussione il Fiscal Compact: unico tra i leader di rilievo ad averlo fatto) sta la verità della posizione di Berlusconi e, ad un tempo, il problema che essa ci pone. Perché se è vero che bisogna guardarsi dalla deriva del godimento rivendicata e messa in atto da colui che incarna il sembiante del ritratto di Dorian Gray della nostra classe dirigente, resta intatto il problema di come emancipare il godimento – la dépense, direbbe Bataille, cioè la spesa pubblica – dalla negatività che i corifei di un capitalismo asceticamente weberiano (ma solo per i lavoratori, ça va sans dire) gli hanno ributtato sopra. «Parte maledetta», appunto: fino a quando?

__________

* Luigi Cavallaro è magistrato e saggista. Una versione ridotta e senza riferimenti bibliografici di questo articolo è apparsa l’8 febbraio 2012 (con il titolo Il keynesismo criminogeno del Cavaliere) sul quotidiano “il manifesto”.
1 Georges Bataille, La parte maledetta, preceduto da La nozione di dépense [1967], Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 66. Il riferimento di Bataille è da intendersi a John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta [1936], ora in Id., Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta e altri scritti, a cura di T. Cozzi, Torino, Utet, 2006, pp. 315 ss.
2 Fonte: Commissione europea per l’efficienza della giustizia, 2008 (cit. da “Corriere della Sera”, 6 settembre 2010, p. 12).
3 Alberto Alesina, Francesco Giavazzi, Giustizia lenta, imprese piccole, “Corriere della Sera”, 5 giugno 2011, p. 1.
4 È di qualche giorno fa la notizia che, per la prima volta negli ultimi dieci anni, la nostra bilancia dei pagamenti ha chiuso l’anno con 8,8 miliardi di euro di surplus (dati dell’Istituto del commercio con l’estero, riportati in Roberto Bagnoli, Export italiano mai così alto dal 2002, “Corriere della sera”, 17 gennaio 2013, p. 7). Ma l’avanzo, più che all’aumento del valore delle esportazioni, è logicamente imputabile alla severa contrazione delle importazioni, a sua volta dovuta alla caduta della domanda e del Pil (-2,1%, secondo i dati diffusi dalla Banca d’Italia) nell’anno appena concluso.
5 L’espressione (e la relativa costruzione concettuale) risalgono, come si ricorderà, a Michal Kalecki, Il commercio estero e le “esportazioni interne” [1933], ora in Id., Sulla dinamica dell’economia capitalistica, Torino, Einaudi, 1975, pp. 21 ss.
6 Secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (riportati da Mario Baldassarri, Undici anni di spese pubbliche (bipartisan), “Corriere della Sera”, 22 gennaio 2013, p. 11), negli otto anni di governo di Berlusconi compresi tra il 2000 e il 2011, le imposte sono aumentate di 176 miliardi di euro a fronte di un aumento della spesa pubblica corrente pari a 206 miliardi di euro; nei due anni di governo Prodi, l’aumento delle imposte è stato pari a 52 miliardi di euro a fronte di un aumento della spesa di 60 miliardi, mentre nell’anno di governo Monti la spesa è aumentata di 8 miliardi a fronte di un aumento delle imposte di 20 miliardi. Come dire che, mentre il governo Prodi ha perseguito un sostanziale pareggio di bilancio e il governo Monti ha realizzato un draconiano avanzo, i governi presieduti da Berlusconi hanno mantenuto una linea di deficit spending.
7 Particolarmente efficaci gli interventi di Ida Dominijanni, tra i quali si veda almeno Dal godimento alla penitenza, “il manifesto”, 21 dicembre 2011, p. 1.
Web Analytics