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L’enigma dello Stato islamico: potere, soldi, guerra

Riccardo Narducci

u1 3Nell’epoca della globalizzazione determinate vicende assumono una conformazione totalizzante: non siamo più legati soltanto a ciò che accade nel nostro Paese, ma crisi, conflitti, mercato, politica sono dinamiche che oltrepassano i confini nazionali. Fra queste non può che esserci la questione legata al cosiddetto Stato Islamico  الدولة الإسلامية‎ (al-Dawla al-Islāmiyya) detto anche “Isis” o “Is” costituitosi tra la Siria, la Libia e l’Iraq il 3 gennaio 2014. Il governo, ufficialmente un Califfato guidato dal califfo Abu Bakr al-Baghdali, ha posto la sua capitale nella città di Al-Raqqa, una propria moneta, il Dinaro dello Stato Islamico, un proprio inno nazionale e un proprio motto Bāqiya wa Tatamaddad “Consolidamento ed espansione”. I terroristi che hanno costituito questo nuovo sistema politico, gli jihadisti, riescono a gestire problematiche economiche enormi, legate ai costi della guerra e del terrorismo internazionale.

Essi ormai operano attraverso canali non bancari, trattando petrolio e contanti non tracciati. I corridoi principalmente battuti sono quelli dell’Iraq nord-occidentale e quello della Siria nord-orientale, lontani da controlli stranieri. Per comprendere meglio dove finiscano i proventi di Is, e quanto l’occidente debba realmente preoccuparsi di questo “Stato”, farò una premessa legata alla religione su cui questi terroristi fanno riferimento: l’Islam.

Esso ci appare ancora estraneo, con regole, norme e logiche diverse da quelle cui l’occidente è abituato. Il rischio è quello di tornare a una rivalità antica, medievale, risalente alla lotta politico-religiosa tra l’Europa cristiana e il mondo arabo islamico che è, ancora oggi, in evidente espansione. A tal proposito proporrei un esempio: la città siriana di Damasco, per i cristiani da sempre simbolo della conversione di San Paolo, folgorato dalla visione di Gesù, divenne a seguito della conquista musulmana la capitale del primo impero arabo-islamico, epicentro da cui scaturirono nuove conquiste. Ma cosa si intende per mondo islamico? Oggi questo termine assume connotati quasi geografici, indica un insieme territorialmente continuo di Paesi, con importanti differenze fra loro, che si estendono tra l’Atlantico e l’Oceano Indiano. Vanno considerate anche altre regioni, di religione islamica, come l’Indonesia, e le terre africane a sud del Sahara.

Tra questi Paesi si è instaurata una certa unità, la quale esprime la loro volontà di riconoscersi in qualcosa di sovranazionale. Perciò si è conservata viva e reale l’idea di uno Stato Islamico, anche quando è venuta a mancare la sua concreta realizzazione. A questo punto va posta una seconda domanda: che cosa si intende per ideologia islamica? Una caratteristica attribuita all’Islam è l’identificazione fra religione e Stato. La politica ha sempre rappresentato nell’Islam una problematica tecnica con carattere operativo, ossia un elemento che deve rafforzare la religione, da cui deriva la teorizzazione dello Stato religioso per eccellenza: il califfato. L’Islam assume quindi i connotati di una religione con carattere politico e con una determinata visione ideologica del mondo e della vita. Soltanto oggi assistiamo ad una realizzazione di tale processo, cominciato nei primi decenni dell’Ottocento, e che determina il cosiddetto risveglio islamico o primavera araba.

Addentriamoci ora meglio nel discorso che riguarda gli affari dello Stato islamico e del ruolo che gli Usa hanno in questo conflitto che, ormai da mesi, li impegna in bombardamenti a tappeto nella regione interessata.  Iniziamo con analizzare le rotte del contrabbando, le quali sono una conoscenza esclusiva interna al gruppo, e che le famiglie irachene si tramandano di generazione in generazione. Così come in passato il sistema delle tangenti faceva chiudere un occhio alle guardie di frontiera, le quali facevano passare il greggio di Saddam Hussein in Kuwait, in Iran e Turchia, anche ora tale meccanismo di corruzione viene alimentato da coloro che risiedono nei territori controllati da alcuni gruppi islamisti.

Occorre ricordare che questa particolare microeconomia si basa su risorse di confiscate, ma anche da donazioni private, contrabbando di reperti archeologici, rapimenti e furti, il tutto come una criminale forma autofinanziamento. Sottolineerei di nuovo la questione del Kuwait e del Qatar, cruciale per comprendere la questione legata all’entrata di merci nel territorio gestito dai jihadisti. Lo Stato Islamico è molto “efficiente” nello sfruttare i sistemi bancari molto aperti e non sempre controllati del Qatar e Kuwait. Questo snodo di commercio è fondamentale per l’Is: i fondi arrivano ai miliziani mediante canali finanziari illegali, quelli appunto del Qatar e del Kuwait, vere e proprie compensazioni per il denaro diretto in Iraq ed in Siria. Fermare questi flussi di denaro è molto difficile, anche perché non sono mai tracciabili e spesso sono sotto forma di “donazioni”, senza contare che vengono utilizzati pagamenti tramite Whats App e Kik. Buona parte delle “entrate” economiche figurano persino come aiuti umanitari, e questo complica ancor più i controlli, che sono quasi pari a zero in molti aeroporti del Medio Oriente dove transitano valigette con denaro dalla dubbia provenienza. La cosa che provoca ancora più sconcerto è che molte campagne di raccolta fondi non indicano affatto un beneficiario. Anche internamente allo Stato Islamico le cose non sono semplici: esso impone una tassa per tutte le merci che entrano e che escono dal territorio, tassando qualunque  persona e qualsiasi merce con dazi specifici, onde permetterne l’accesso.

La comunità internazionale si è rivoltata contro la pretesa giurisdizione di questo “Stato”, tanto che gli Stati Uniti d’America si sono mossi militarmente per arginarne il pericolo di una sua espansione. Iniziamo con l’illustre parere di alcuni esperti: Daniele Scalea, Enrico Verga, il prof. Giuseppe Sacco e Danilo Campanella.

Daniele Scalea, co-fondatore e Direttore Generale dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie di Roma, afferma che

«ISIS ha almeno inizialmente goduto di finanziamenti provenienti dal Golfo, ma dopo la fondazione dello “Stato Islamico” la formazione radicale dispone anche di una base fiscale e di risorse petrolifere da contrabbandare. Questo gli conferisce una maggiore autonomia, se non totale indipendenza, dai suoi (ex?) finanziatori arabi».

Questo discorso si integra e si completa con le parole del dott. Enrico Verga, fondatore di International Dream Jobs. Egli ci spiega:

«Il concetto di investire nella guerra è spesso sopravvalutato. Gli investimenti nella difesa in USA sono in aumento, il nuovo Global Hawks, unità che sostituirà il vetusto U2, come aereo da ricognizione e controllo è un esempio tangibile. Per uno stato democratico come gli USA la scelta di un intervento militare è sempre rischiosa, e l’opinione pubblica è molto attenta sia ai danni collaterali (leggasi civili colpiti durante un azione militare) sia ai danni ai soldati in azione. L’approccio USA nei confronti di realtà come l’ISIS è critico. Il tornare in forze in Iraq è, al momento, una scelta economica e politica molto problematica. Dalla carenza di forze alla posizione che potrebbe avere l’opinione pubblica. Le scelte USA in medio oriente, specie con i nuovi cambiamenti nell’ambito della produzione energetica da fonti non convenzionali, offre all’America un opportunità di tenere un basso profilo nei fatti medio orientali, data la minor necessità di approvigionarsi di energia da quell’area».

Successivamente, la mia inchiesta si arricchisce delle parole del Professor Giuseppe Sacco, Ordinario di Relazioni e Sistemi Economici Internazionali nella Facoltà di Scienze Politiche della Luiss di Roma, e dal 1976 al 1980 Direttore di Divisione all’OECD di Parigi, a cui chiedo quali siano le ragioni dell’impegno americano contro lo Stato Islamico:

«Dopo la seconda guerra mondiale si è instaurato un nuovo ordine politico-sociale nel quale gli Usa hanno un ruolo assolutamente centrale, ed è quindi ovvio che essi intervengano a  proteggere tale ordine mondiale. Per quanto riguarda l’impegno contro Stato islamico, esso è la conseguenza diretta della guerra contro l’Iraq, incominciata quattordici anni fa, dopo l’11 settembre 2001.

Gli Stati Uniti non sono però soli nella guerra contro lo Stato Islamico. Anche la Francia e l’Inghilterra hanno un ruolo in questi bombardamenti, cercano cioè di essere presenti al fine di mantenere anch’essa una certa dose di influenza geo-politica a livello mondiale. E ciò non ostante il fatto che i governi di questi paesi abbiano un  chiaro interesse a non provocare tensioni con le comunità musulmane che vivono all’interno dei loro confini. Ma i recenti attentati di Parigi (17 morti) e quelli di Londra del Luglio 2005 (56 morti e 800 feriti) stanno a dimostrare attenta che il prezzo di questo coinvolgimento è assai duro. Né la vicenda sembra essere vicina alla sua conclusione».

Gli USA  hanno speso circa otto milioni di dollari al giorno. I duecento milioni di dollari che gli Stati Uniti spendono ogni giorno per la guerra in Afghanistan, da tredici anni, non hanno certo risolto il problema. Per ora il presidente Obama ha escluso la possibilità di inviare truppe di terra contro i miliziani del cosiddetto Stato islamico, sebbene abbia ammesso che le guerra hanno sempre sviluppi imprevedibili. Questo mi fa sorgere due interrogativi, ai quali ancora oggi non so e non sappiamo dare risposta. Quali governi sorgeranno in Iraq ed in Siria al termine di questi costosi bombardamenti? E quale sarà il futuro ruolo degli Usa al termine di questa guerra? Non sarebbe meglio investire tutto questo denaro nella ricerca scientifica, in particolare quella medica e aerospaziale?

Secondo il filosofo Danilo Campanella vi sono state già da tempo avvisaglie sul pericolo della formazione dello Stato Islamico, come movimento terroristico che ha avuto molto tempo per cristallizzarsi e istituzionalizzarsi:

«Già dieci anni fa», rivela Campanella, «un libro (conosciuto solo dagli esperti di politica) scritto da Fuad Hussein intitolato Al Zarqawi, la seconda generazione di Al Qaeda”, aveva messo in guardia l’occidente e il mondo arabo sul piano dei terroristi islamico-radicali. Il testo, uscito nel 2005 in arabo, è il frutto delle conversazioni che il giornalista ebbe in carcere con Al Zarqawi, ex leader di Al Qaeda in Iraq, deceduto nel 2006 a causa di un bombardamento. Hussein narra dei progetti dell’organizzazione terroristica riassumibili in un documento organico “Agenda 2020”, chamato così perché descrive un progetto che si dovrebbe realizzare entro quella data. Bisogna specificare che il giornalista in questione si trovava in carcere per i suoi articoli di critica contro il governo giordano, e quindi venne messo agli arresti per qualche settimana a Suwaqa, nel 1996. Il piano terroristico per conquistare il mondo e creare un grande califfato si distribuisce in sette fasi: la prima è quella del “risveglio”, esauritasi nell’11 Settembre, che noi tutti tristemente ricordiamo con la caduta delle due torri. L’obiettivo era quello di portare gli USA in guerra, per indebolirli politicamente e economicamente. La seconda si chiama “Aprire gli occhi” ed è avvenuta tra il 2004 e il 2007 con la trasformazione di Al Qaeda in “movimento di ispirazione religiosa”. Questa mutazione sarebbe servita. Come del resto è successo, a trasformare un’organizzazione piramidale in una ideale, diffusa, difficile da distruggere. Senza di ciò non sarebbe stato possibile reclutare tanti giovani, in particolare occidentali. La terza fase è quella della “rivolta” (2007-2010): gli attacchi in Turchia e in Giordania falliscono, ma testimoniano questo tentativo. Il “recupero” (quarta fase) segna, dal 2010 al 2013 si preannunciano con anticipo le “primavere arabe” (2011). La “quinta fase” dell’Agenta sarebbe maturata tra il 2013 e il 2016 con la nascita di uno Stato artificiale costruito con la forza: l’Is (2014). La “sesta fase” avverrà presumibilmente entro il 2017-18 e si manifesterà come guerra totale tra “fedeli e infedeli”. Ecco un motivo per cui gli attacchi via terra devono essere l’estrema ratio. La “profezia” è il nome della settima e ultima fase, compiuta con la vittoria del Califfato trionfante entro il 2020. Non sarà possibile senza coinvolgere circa un miliardo di mussulmani che, mossi dall’orgoglio in difesa della loro Fede, appoggeranno la causa mossa dall’Is, alcuni militarmente, molti altri culturalmente grazie a un sempre maggiore consenso. L’attacco al giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi, ne è l’esempio. Nel 2006 venenro pubblicate alcune caricature del profeta Maometto, con grande appoggio della stampa e della politica laicista, ma con aspre critiche del mondo religioso e laico-moderato. Il 2 novembre 2011 il giornale venne devastato da alcune bombe incendiarie. Il 7 gennaio 2015 un commando di tre terroristi armati di fucili d’assalto sono entrati nella sede del giornale durante la riunione di redazione, uccidendo dodici persone, fra cui il direttore del giornale. Nei giorni successivi si sono levate alte le grida mondiali in favore della laicità, della libertà di stampa e di satira, e così via. Molti religiosi islamici, fino a quel momento disinteressati, hanno risposto ai cartelli “Je suis Charlie” esposti in numerosi cortei con “Je ne suis pas Charlie”. Gesti simbolici, che però confermano la volontà dell’Is di voler coinvolgere emotivamente tutti, anche i mussulmani non praticanti creando un vulnus tra i cittadini e istituzioni laiche».

Per capire il mondo islamico contemporaneo bisogna partire dalla tragedia coloniale che tutte le popolazioni musulmane, magari in modo diverso, hanno vissuto. E’ però dal Cinquecento in poi che l’Europa tende ad imporsi sul mondo arabo-islamico. Non si tratta solo di controllare le vie di comunicazione e quindi il commercio internazionale da e verso l’Asia estrema, cosa che non porta di per sé alla supremazia europea. C’è qualche cosa di più: l’Oriente diventa una delle principali fonti di materie prime e fatto, forse ancora più importante, gli europei vi portano i propri prodotti e li sostituiscono con quelli locali, specie nel settore dell’artigianato e in quello tessile. Si creano così le premesse per la costituzione di un mercato per l’Europa. Con la rivoluzione industriale (XVIII secolo), l’Europa ed in particolare le grandi potenze europee, Francia e Gran Bretagna, compiono un salto di qualità notevole. I Paesi islamici non solo non hanno nessuna possibilità di competere e di sostenere la concorrenza, ma vengono anche sempre più relegati in una posizione subalterna. E’ dovere della comunità internazionale e politica programmare nuove forme di integrazione e di laicità, da un lato, ed evitare dall’altro che si cada nell’errore di una vera e propria guerra alimentata dal fanatismo religioso.

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