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Hacking netculture e sabotaggio

di Arturo di Corinto

Autorevolezza contro autorità, competenza contro gerarchie, libertà contro controllo

All’inizio c’era l’attivismo.

Diverso dalla militanza nei partiti e nelle associazioni, l’activism è l’azione diretta dei movimenti di base per denunciare un torto, contestare una scelta politica e dare voce alla protesta sociale su questioni specifiche. Poi è venuto l’hack-tivism, l’attivismo al computer, l’azione diretta in rete con tecniche da hacker, e dopo ancora il media-attivismo, l’uso consapevole e critico di telecamere, televisioni di strada e web-tv autogestite. Oggi va di moda l’attivismo 2.0: giovani e meno giovani hanno abbracciato i social media (il web 2.0) per promuovere campagne sociali e fare attivismo oltre le forme tradizionali degli scioperi, delle occupazioni, dei boicottaggi, dei cortei e delle petizioni virtuali.

Questa nuova forma di attivismo che si esprime nel “Mi piace” di Facebook, nel commentare un video su Yutube o “retwittare” un post di 140 caratteri, pretende di contribuire a una singola causa con un piccolo atto pratico, un semplice click, ma spesso si risolve nel suo peggiore estremo, il clicktivism. Puoi twittare una causa e votarla su Facebook senza coinvolgerti in nessuna azione diretta o sentire che sei importante per il suo successo. Quel gesto ripetuto si trasforma allora in slacktivism, l’attivismo fannullone che non si interessa di come è andata a finire. Magari un piccolo click ci porta a impegnarci in una cosa successiva, ma la maggior parte delle cause richiede più di un semplice click. Soprattutto, se questi click non producono azione e cambiamento, c’è il rischio di diventare cinici e smettere di crederci. Perciò anche se qualcuno usa i social media come parte della propria strategia di cambiamento non vuol dire che li stia usando strategicamente. Ci sono tanti modi di perdere tempo in campagne che non cambiano niente. E non dipende dal fatto che gli strumenti sono inefficaci, ma dal fatto che vengono usati male. Un solo click non basta.



Culture digitali


Nel caos indistinto della comunicazione globale si sente parlare di “culture digitali”, o net-culture, per indicare temi, pratiche e comportamenti ormai trasversali tra classi e generazioni: lo scambio di musica nei circuiti peer to peer, la moltiplicazione della propria identità nei social network, il net-gaming o la condivisione di applicazioni per gli smartphone.

Se non fosse paradossale dovremmo più propriamente parlare di “cultura materiale”, quella “cultura” che caratterizza i modi di essere quotidiani.

Sarebbe più appropriato parlare di “cultura” digitale quando tali comportamenti sono consapevoli e si ritrovano all’interno di gruppi sociali. Quando sono legittimati da pratiche collettive, coerenti, ricorrenti. Ad esempio, quando lo scambio di file viene vissuto in maniera ludica ma consapevole con un pizzico di antagonismo e di ideologia antimonopolistica, quando si rifiuta moralmente la tutela del diritto d’autore almeno per com’è intesa oggi, tutta sbilanciata a favore delle major; quando la creazione di un profilo dentro facebook serve a irradiare un messaggio politico, ecologista, femminista, o a un pubblico fatto di amici di amici che sono i legami deboli attraverso cui arrivare al mondo; quando l’utilizzo di Linux è una scelta consapevole contro lo strapotere di Microsoft, e le chiusure di Apple, eccetera.

Le culture digitali esistono se sono consapevoli di se stesse, un po’ come la nozione di classe di antica memoria. Se utilizziamo questo grimaldello concettuale, possiamo dire che le culture digitali oggi esistono e vengono dallo stesso ceppo: la cultura hacker dei dormitori universitari degli anni ’60, come si è contaminata nella interazioni con i movimenti sociali, per i diritti umani e civili, attraverso l’uso degli stessi strumenti che ha contribuito a costruire: Internet e i suoi protocolli di comunicazione. Culture dietro le quali esiste una comunità, fatta di vincoli di fiducia, reciprocità, appartenenza e che spesso hanno un dizionario comune, regole non scritte che delimitano il dentro, il fuori, i comportamenti quotidiani.

E allora nonostante il successo dei social network, la forma più bassa di vita digitale, le culture digitali sono quella hacker, del software libero, dei diritti e delle libertà digitali. Comunità definite da un sentire comune, di chi si preoccupa se la rete viene colonizzata dalla pubblicità o se nei paesi autoritari ne viene ristretto l’uso, ma anche che denuncia l’esistenza del digital divide e cerca di colmarlo con iniziative di cooperazione nel Sud del mondo o mettendo a disposizione risorse di comunicazione nel Nord ricco; o ancora, persone in carne ed ossa che lavorano al recupero di computer obsoleti per dare una chance in più a un pianeta martoriato dai rifiuti elettronici.

Non è detto che queste comunità, queste culture, abbiano sempre un nome, chi vi appartiene si riconosce dall’odore.

In Italia ad esempio esiste una vasta comunità di hacktivisti e mediattivisti, attivisti della comunicazione che usano i computer e le reti telematiche per connettersi e parlare al mondo: di democrazia, di politica, di impiego attento delle risorse naturali.

Esiste una vasta comunità di difensori della “Cultura come bene comune”, pronti a insorgere a ogni nuova legge che ne impedisca la fruizione collettiva; ci sono gli appassionati del mash-up e del remix, del deturnamento semiotico – strumenti di consapevolezza e di autoironia – ma anche i giuristi che vogliono mantenere la rete aperta alla libera manifestazione del pensiero come detta la Costituzione. E poi ovviamente ci sono le culture del software libero, interessate da sempre a creare opportunità di comunicazione dove non ce ne sono, mettendo a disposizione di tutti un sapere collettivo fondamentale nella società dell’informazione. Come fanno quelli di Frontiere Digitali o dell’hackmeeting.

No, le “culture digitali” non hanno niente a che fare col libro delle facce.


Movimenti sociali su Internet


Il media-attivismo non è nato ieri, il Net-attivismo sì. Senza andare troppo indietro, basti pensare all’uso “alternativo” che del video fu fatto fin dagli anni ’70, o alle radio libere, o alle riviste ciclostilate. Negli anni ’80 poi, si afferma la sperimentazione con il computer: la tastiera divenne strumento per discutere di conflitto e democrazia.

I movimenti sociali, gli attivisti, hanno sempre avuto una gran mole di attività correlate all’uso dei media. All’interno dei movimenti perfino le “azioni” più dirette presuppongono un alto livello di coordinamento e quindi di comunicazione. Perciò più ampia è la mobilitazione, maggiore deve essere la penetrazione del medium. Una spinta potente a individuare forme di comunicazione autogestite.

Molte delle pratiche del mediattivismo di oggi non fanno altro che rimodulare pratiche del passato. Ma nel frattempo qualcosa è successo. Innanzitutto c’è stata la rivoluzione elettronica che ha immesso nel mercato strumenti di comunicazione personale – dal pc ai cellulari alle videocamere – e poi l’avvento di Internet, la digitalizzazione e la convergenza multimediale che in un processo noto come “rimediazione” consente che un medium ne veicoli un altro: la radio da ascoltare in Internet, il documentario in streaming video.

Ad ogni innovazione tecnologica degli strumenti del comunicare è stata sempre associata l’idea utopica di trasformazione della società e della politica prefigurando nuovi spazi di democrazia. Una tesi centrale per spiegare il successo di Internet che per il suo carattere globale, decentrato, resistente alla censura è stato presto accolto dai movimenti come medium rivoluzionario. Un’idea ingenua se non ci si interroga rapporto fra la politica e la rete. Graham Meikle nel libro Disobbienza Civile Elettronica prova a spiegarlo, focalizzandosi sull’uso politico di computer in network gestiti con l’intenzione di provocare un cambiamento sociale e culturale nel mondo offline. Per Meikle il momento fondativo del Net-attivismo è stata la rivolta di Seattle del 1999. C’è da dire che anche prima di quella data la rete Internet veniva usata come strumento di protesta e di mobilitazione, ma su una scala più ridotta, meno ricca e interattiva. Anche allora però con l’obiettivo, proprio del mediattivismo, di forzare i media tradizionali, infiltrarli, contaminarli, fino a imporne l’agenda. La prova generale della comunicazione indipendente e globale di Seattle è stato un momento seminale per lo sviluppo di tattiche comunicative, anch’esse rimodulate su pratiche preesistenti – si pensi alle petizioni online o ai sit-in virtuali – che fondano parte del loro successo sulla familiarità della pratica e poi sulla “global reach” del mezzo stesso.

Nel 1999 c’era il “popolo di Seattle” a contestare i vertici del WTO via computer con Indymedia, creatura dell’informazione indipendente nata da una generazione di attivisti dei media intenzionata a fare informazione senza doverla delegare ad altri, attingendo alla propria rete di relazioni e a patto di avere un computer su cui mettere le mani, dieci anni dopo è il Popolo Viola a contestare un governo su Internet. I “viola” sono stati il primo movimento politico a organizzare in Italia una grande manifestazione di piazza con l’aiuto di Facebook, il No Berlusconi-Day, per chiedere le dimissioni dell’allora Presidente del Consiglio.

Ma ancora oggi i guerriglieri per la libertà in rete usano due strategie prevalenti per rispondere alla prepotenza del denaro e della cattiva politica: producendo informazione dal basso e sabotando i flussi di comunicazione del potere.


Libera informazione


Negli ultimi venti anni i movimenti sociali hanno praticato un’alternativa all’informazione blindata che si chiama Internet, prima con i BBS (i Bulletin Board System) nei centri sociali, poi con i provider di movimento come lo European Counter Network, e gli hacklab, esperienza da cui sono gemmate Indymedia prima e Autistici/Inventati dopo. Perché?

Grazie alla rete ognuno può diventare editore di se stesso e anche piccoli nodi d’informazione possono competere con i grandi gruppi editoriali quando riescono a trovare la strada verso il proprio pubblico di “prosumer”, produttori e consumatori d’informazione. Della potenzialità di questo passaggio il potere è sempre stato avvertito e cosciente. E per questo i legislatori sono sempre al lavoro per limitarne uso e portata. Come se già non bastasse il digital divide a creare gli “information rich” e gli “information poor”.

Per questo Parlamento e governi si sono distinti in numerose iniziative per limitare le forme della libertà della comunicazione in rete. Tanto per esemplificare, proposte come quella di chiudere interi siti contenenti una sola frase ingiuriosa, o quelle volte a impedire l’anonimato in rete, a trasformare i provider in sceriffi digitali per individuare i potenziali criminali del peer to peer, hanno trovato il proprio corollario nella richiesta dell’obbligo di rettifica entro 48 ore delle informazioni sui blog pena una multa salatissima. O ancora la proposta di legge in cui si chiede di rendere integralmente applicabile a tutti i “siti internet aventi natura editoriale” l’attuale disciplina sulla stampa, assoggettandoli ai criteri di responsabilità previsti per le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa o radiotelevisione.

Gli attivisti del web si sono mobilitati contro queste forme sotterranee di censura e anche contro il famigerato Pacchetto Telecom, che aveva l’obiettivo di ridisegnare il quadro comunitario delle telecomunicazioni favorendo ancora una volta le grandi compagnie e ridisegnando l’accesso ai servizi in rete su base censitaria. Con ciò attaccando uno dei pilastri su cui si è sempre fondata la democrazia di Internet, la net neutrality, cioè l’uguaglianza di accesso ai suoi contenuti, compromettendo la quale i grandi carrier di telecomunicazioni puntano a creare una rete a due velocità in base alla capacità di spesa di ognuno: solo se paghi vai veloce e scarichi tutto. Alla faccia della libertà. Lo stesso è accaduto con l’Acta, l’accordo globale anticontraffazione che ha visto scendere in campo decine di migliaia di attivisti con la maschera di Guy Fawkes per chiedere una Internet libera dai condizionamenti dei dententori della cosiddetta proprietà intellettuale, e del copyright su musica, software, libri e film.


Accesso e diffusione della cultura


E infatti negli ultimi anni il copyright (il diritto d’autore in Italia) ha smesso di essere un argomento per avvocati ed è diventato un tema di importanza cruciale per musicisti, designer, scrittori, accademici, consumatori e per chiunque sia coinvolto a vario titolo nella produzione e fruizione di cultura. Ma poco si dice di quanto un regime di copyright rigido danneggi la diffusione dell’istruzione nei paesi in via di sviluppo. Ma il copyright è nato e poi si è consolidato come un dispositivo di bilanciamento per garantire agli autori un incentivo alla produzione di opere creative e allo stesso tempo favorire la loro circolazione presso il pubblico, affinché chiunque potesse goderne. Non è nato certo per tutelare i profitti delle case editrici come qualcuno sostiene. E la migliore dimostrazione del ruolo di garanzia di questo istituto sta nel fatto che da sempre le biblioteche pubbliche esistono come alternativa alla distribuzione commerciale delle creazioni culturali. Per questo è nato un vasto movimento contro le storture del copyright, che ha preso di mira l’equo compenso sul prestito bibliotecario o i dubbi meccanismi della pubblicazione scientifica. Anche per questo è nata la Open Access Initiative: per garantire la libera fruibilità e circolazione dei prodotti della ricerca accademica finanziata con soldi pubblici, organizzandoli in archivi aperti liberamente accessibili e gratuiti. Oggi finalmente i ricercatori possono pubblicare una nuova generazione di riviste ad accesso aperto, in cui i costi sono coperti da meccanismi diversi dagli abbonamenti. Come il caso della Public Libray of Science – PLOS.


Contro la sorveglianza per la libera diffusione di sapere


L’insieme delle tecniche di controllo di Internet usate dai regimi autoritari è nota col nome di Peking consensus e indica l’origine di una forma di censura che si esprime a livello tecnologico con filtri informatici – ipfiltering, deep packet inspection, firewalle blocked proxy – e azioni come l’incoraggiamento alla delazione, le perquisizioni e i sequestri di computer non autorizzati ai cattivi netizens che, se non portano all’arresto, hanno comunque l’effetto di indurre conformismo e autocensura nella popolazione di Internet.

Per questo hacker etici e attivisti per i diritti umani hanno creato nel tempo strumenti per aggirare la censura dei governi e potenziare privacy e anonimato – software come il PGP, reti di server come Tor, o le Freenet – che possono essere usati per comunicare liberamente e accedere, senza essere scoperti, a contenuti bloccati o inaccessibili, nascondendo l’identità di chi vuole leggere e scrivere in rete senza temere ritorsioni. Perciò gli attivisti del progetto Tor lavorano incessantemente a migliorare e diffondere i loro software, ottenere fondi e aumentare il numero di server necessari a superare le muraglie tecnologiche degli stati canaglia. Tor è gestito da volontari di tutto il mondo e anonimizza la navigazione internet nascondendo la localizzazione fisica di chi lo usa, sia durante una semplice navigazione web che con client di instant messaging, e altre applicazioni basate sul protocollo base di Internet, il TCP/IP. In questo modo i cittadini che vogliono denunciare la corruzione o il malgoverno, i giornalisti che vogliono proteggere se stessi e le loro fonti, coloro che comunicano da zone di guerra e le famiglie che vogliono proteggere i propri figli possono farlo garantendosi un adeguato livello di anonimato: nessuno in Internet saprà se sei un cane e dove sta la tua cuccia.


Resistenza


Gli attivisti sanno bene che nella società digitale si è ampliato a dismisura il ruolo dei media e della comunicazione e sono coscienti che lì dove c’è comunicazione, produzione di sapere e di discorso, lì c’è il potere. Un potere nomadico, che non risiede in strutture stabili e definite e che non è una struttura che si conserva e può venire annientata, ma un sistema di relazioni che decide di volta in volta chi ha potere di parola e chi no, determinando l’agenda setting – ciò di cui si parla e che richiede il formarsi di un’opinione – dando un ruolo cruciale agli stregoni della notizia – gli spin doctors – e che determina nuove forme di esclusione rendendo i saperi inaccessibili. Proprio oggi che la mancanza di accesso al sapere e alla comunicazione equivale sempre di più all’esclusione dal lavoro e dai diritti.

È in questo rapporto fra il potere e la comunicazione che va sviluppata la nostra critica. La produzione controllata di sapere oggi è tutt’uno con la condizione di assoggettamento dei nuovi schiavi della comunicazione che svolgono vecchie e nuove professioni: nella formazione, nel giornalismo, nelle pubbliche relazioni, nel marketing e nella pubblicità, siano essi designer, copywriter, fotografi, registi, o che lavorino negli uffici stampa, nell’editoria cartacea e nelle professioni Internet.

E’ irreggimentando i comunicatori che la comunicazione e la cultura asservite alla logica spettacolare dei media diventano subalterne all’audience intesa come fonte di profitto. E’ con il ricatto della precarietà che si produce conformismo e censura preventiva.

Non c’è bisogno di essere marxisti per capire che la comunicazione è una merce che foraggia il sistema dei media che fa vendere le merci, con tutto quello che ne consegue: omologazione verso il basso dei gusti e dei comportamenti, contaminazione dei generi, produzione di consenso.

Che fare? Anzitutto prendere coscienza di questa situazione, non considerarla ineluttabile, ma collegarsi, connettersi, resistere. Come? Mobilitandosi. Sul web e fuori. Nelle scuole e nei centri sociali. Attraverso l’auto inchiesta, con la ricerca, per comprendere come la comunicazione sia fabbrica e recinto e che a dispetto della grande disponibilità di mezzi per comunicare si comunica poco e male. Perché manca quell’aspetto di tessitura relazionale, di costruzione collettiva del significato che è l’essenza della comunicazione.

Poi però la parola deve passare alla politica che deve essere capace di fare proposte nette, come quella di un reddito garantito per gli intermittenti dello spettacolo, come quella di facilitare l’accesso alle professioni dell’informazione ridiscutendo il ruolo degli ordini professionali, o studiando un sistema di ammortizzatori sociali per arti, mestieri e professioni che sono per natura basati sull’apprendimento continuo e si ricreano incessantemente nei circuiti della relazione sociale.

Altro che riduzione di stipendio, libertà di licenziare e guerre fra poveri: è tempo di chiedere più tempo, più soldi, più diritti per chi lavora nella produzione di cultura e comunicazione.


Sabotaggio


“Nella gara tra segretezza e verità vincerà sempre la verità”. Ma la verità, come la libertà, per gli hacker è un concetto binario: o c’è o non c’è. Questo è quello che credono molti sostenitori italiani di Wikileaks. La galassia hacker coagulata intorno a Wikileaks lo fa in omaggio al noto adagio dell’etica hacker “information wants to be free”. “Wikileaks è diventato un baluardo dell’informazione, non perché senza macchia e senza paura, ma perché difende il diritto fondamentale di rendere trasparenti notizie che contribuiscono a formare l’opinione pubblica”.

Alla spy story di Assange si poteva reagire in molti modi diversi, e gli hacker italiani ne hanno scelti due. Il primo è stato supportare l’operazione Payback attaccando i siti che hanno provato a togliere il terreno sotto ai piedi del progetto trasparenza di WL – Amazon, eBay, le Poste svizzere. Il secondo tipo di strategia è stato quello di replicare le informazioni di Wikileaks all’infinito come hanno fatto hacker e attivisti italiani riuniti intorno a Indymedia facendone un mirror o creando sistemi simili ma decentrati come Openleaks e Globaleaks.

I guerriglieri della libertà non dormono mai.

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