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“Il sociale è il privato”

Elena De Marchi

Qui di seguito alcune riflessioni sull’ultimo libro di Elisabetta Teghil, Il sociale è il privato, Bordeaux, 2012

Come mai le lotte dei movimenti che si sono generati e diffusi negli anni Sessanta e Settanta, pur avendo ottenuto numerose vittorie e conquiste, non sono riuscite a cambiare qualitativamente in meglio la società e a scardinare il potere della grande borghesia capitalista, che invece negli ultimi vent’anni ha assunto un peso preponderante non solo nella sfera politica ed economica internazionale, ma anche per quello che concerne le scelte individuali e private? Nonostante le donne, gli omosessuali, le trans e qualunque “minoranza” siano stati per così dire accolti nei partiti politici, negli eserciti, nei ruoli chiave economici e in tutte le istituzioni, la società stessa non è infatti più accogliente e più giusta, anzi si assiste a un globale arretramento della qualità della vita, a un controllo sociale sempre più esteso, a una perdita dei diritti conquistati nei diversi ambiti, da quello lavorativo a quello della libertà individuale e dell’autodeterminazione.


Il femminismo, originariamente creativo e dialettico, come si pone di fronte ai cambiamenti in atto? Il fatto che abbia posto preminentemente l’accento sulla visione emancipatoria della donna lo ha in qualche modo reso complice dello stato attuale delle cose?

Elisabetta Teghil affronta tali tematiche in modo molto chiaro e senza esitazioni, in questo suo secondo libro, Il Sociale è il privato (Bordeaux, 2012), una raccolta di lettere inviate alla mailing list nazionale “Sommosse”, che esce a circa un anno di distanza dal suo primo volume, Ora e Qui.

Secondo l’autrice, nella nostra società, al tempo stesso capitalista e neo-liberista, in cui la socialdemocrazia si è fatta destra moderna, i ruoli sessuali, anche quelli definiti come nuovi e ibridanti (transessuali e transgender), il colore della pelle, le culture cosiddette “alternative”, nonché le rivendicazioni di qualsiasi tipo sono utilizzate al servizio della società capitalistica stessa, al fine di creare profitto, senza altresì rimuovere l’organizzazione sessista e classista.

Si creano così meccanismi di promozione individuale, tramite i quali si cooptano dei singoli, che rappresenterebbero l’emancipazione di tutte le minoranze e di tutte/i coloro che sono considerati “diverse/i” dalla stessa società patriarcale, ma che nel medesimo tempo siano chiamati a lavorare per il sistema contro i diritti e le libertà delle stesse “minoranze” da cui provengono, come nel caso delle donne, che “sono promosse nella società solo se si adattano ai valori dominanti e ai metodi maschili, diventando spesso più realiste del re”.

Da qui alla criminalizzazione delle lotte politiche e alla teoria della “tolleranza zero”, il passo è breve. Se il modello neo-liberista accoglie a sé ogni minoranza e ogni diversità, utilizzandola a fini di controllo sociale e consumistici, e sostituisce al concetto stesso di lotta politica, quello di delega a specifiche “associazioni di categoria”, allora tutto ciò che è realmente fuori dagli schemi, deve essere criminalizzato, debellato ed estinto, perché rappresenta la vera indocile rivolta al sistema. Basta pensare alle proteste degli studenti della primavera del 2011 o alle più recenti proteste dei No-Tav, marcate come violente e estremiste, non solo dalle destre e dalla stampa reazionaria, ma anche e soprattutto dal centro-sinistra e dalla stampa considerata da alcune/i “amica”, che rappresenta in tutto e per tutto la socialdemocrazia e i suoi valori “politically correct” (rispetto della legalità, pari opportunità, tolleranza).

Fare leva sul concetto della violenza dei manifestanti, secondo l’autrice, serve ancora una volta a mescolare le carte e a ribaltare i piani: lo stato, autore della violenta repressione degli studenti e dei NoTav, con lacrimogeni, pestaggi, fermi, si pone come tutore dell’ordine, mentre i manifestanti sono etichettati come violenti agitatori. Si chiede inoltre al cittadino di condannare le violenze dei manifestanti e di scegliere i propri valori tra quelli degli oppressori, contro chi lotta per liberarsi dall’oppressione. E infatti chi si ribella al sistema è in ogni caso da criminalizzare, non solo se ha scelto di stare dalla parte “sbagliata”, come i No-tav o gli studenti, ma anche i soggetti marginali, come gli immigrati senza permesso di soggiorno, colpevoli, accusati di reato e rinchiusi nei CIE per la loro condizione stessa.

Reprimere e criminalizzare i più deboli e i movimenti da parte dello stato e dei suoi garanti (magistratura, polizia, istituzioni, partiti) ha come unico obiettivo quello di eliminare il dissenso e di far passare il messaggio che ogni forma di conflitto non solo è impossibile, ma dannosa per tutte/i, quando invece chi ci guadagna dall’assenza di conflittualità sociale e di disubbidienza civile non è il cittadino, ma sono unicamente coloro che hanno degli interessi e delle posizioni da difendere, una nuova iper-borghesia che, attraverso il controllo sociale, la violenza e la cooptazione, cerca di riportare la società agli anni Cinquanta del secolo scorso o, peggio ancora, all’Ottocento, facendo una vera e propria guerra alle cittadine e ai cittadini. Questa guerra si serve dell’eliminazione del dissenso e di alcuni concetti passepartout, come per esempio quello di rispetto della legalità, per ottenere la privatizzazione di tutti i servizi e lo smantellamento dello stato sociale, da dare in regalo alle multinazionali, alle banche, alle finanziarie, le vere responsabili della crisi economica europea in atto.

Gli attori della scena, cioè gli incaricati di tale operazione, sono attualmente il governo Monti, eletto dalla BCE e dal capitale finanziario – e proveniente da quello stesso ambiente –, e i suoi sostenitori, che hanno sostituito il governo precedente, incapace di allinearsi in maniera soddisfacente alle richieste delle banche e delle multinazionali anglo-americane. Scrive l’autrice: “Si svenderanno le ultime industrie statali, si smantellerà definitivamente lo stato sociale, si privatizzeranno tutti i servizi. In parole povere si farà la guerra ai cittadini e alle cittadine. Questa guerra prevede l’aumento della platea delle povere/i, la trasformazione di chi è già povera/o in miserabile, l’annullamento delle residue conquiste degli anni ’70, l’eccezionalità assoluta del lavoro a tempo indeterminato in un contesto generale di precarietà normale e normata, la persecuzione delle forme economiche di mera sopravvivenza”, con la conseguenza che la piccola e media borghesia di oggi sarà ricondotta al ruolo di servizio che aveva ai tempi della nobiltà.

Per questo è necessario riappropriarsi del concetto di lotta di classe, che la borghesia ieri e l’iper-borghesia oggi hanno riservato solo per sé, al fine di ottenere i beni dei cittadini, di condurre i poveri alla miseria e di affossare le classi medie, impugnando la bandiera della crisi economica.

Silenzio e complicità al sistema sono richieste alle cittadine e ai cittadini, che da un lato vengono trattate/i come esseri incapaci di provvedere a sé stessi e di autodeterminarsi, e che devono pertanto essere seguiti dagli esperti e monitorati costantemente; dall’altro, come consumatori, a cui viene concessa l’illusione di esercitare un certo potere, di poter realizzare sogni e desideri, di sovvertire addirittura le leggi del mercato, compiendo una sorta di liberazione attraverso il consumo di merci e prodotti. È ciò che Elisabetta Teghil chiama “il marketing della liberazione”: “Il meccanismo è semplice. Si identifica una convenzione sociale che non metta in discussione lo status quo, né i rapporti di classe, né la società e la si destruttura e, grazie a questa destrutturazione, le ditte vendono e la società rimane sempre la stessa”.

Il quadro dipinto dall’autrice non è certamente confortante e ci riguarda tutti/e, nonostante il paese sia colpito da un grave attacco di sonnolenza, in cui i movimenti faticano a trovare terreno fertile per riprodursi. E dunque, di fronte a tutti questi meccanismi di oppressione e sfruttamento “mascherati” con l’utilizzo di termini quali “emancipazione”, “parità”, “meritocrazia”, che cosa possiamo fare? Perché tutto tace?

Secondo l’autrice bisogna innanzitutto avere la forza di smascherare tutti e tutte coloro che si riempiono la bocca di tali parole per far passare politiche, che hanno connotati reazionari, se non addirittura clerico-fascisti, vendute alle cittadine e ai cittadini come progresso, civiltà e libertà. In secondo luogo bisogna rendersi conto che tali politiche, in realtà, non sono contro il sistema ma lavorano per lo stesso sistema neo-liberista e capitalista, al fine di renderlo più digeribile a tutti/e, per fare in modo anzi che, attraverso quei meccanismi di promozione sociale di cui si diceva all’inizio, qualcuno o qualcuna possa fare la propria scalata, purché diventi complice.

E il femminismo? Che connotati deve assumere oggi? “Questa società ed i suoi alfieri socialdemocratici e riformisti – scrive Elisabetta Teghil –, al di là delle belle parole, sono contro le donne ed il femminismo. Oggi vogliono ridurre il femminismo, così come gli altri settori della vita sociale, ad una associazione di categoria che può contrattare quote di rappresentanza nelle commissioni di pari opportunità, nelle istituzioni e negli enti”.

Per questo, dunque, noi donne, noi femministe, dobbiamo smascherare e denunciare tali meccanismi, rifiutando i ruoli, scardinando tutte le dinamiche di sopraffazione, anche quelle delle donne contro le donne, con il coraggio di esprimere apertamente la nostra opinione, dobbiamo “spezzare l’ipocrisia in cui ci vogliono imbrigliare”.

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