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L’uso in comune dei beni

di Gino Sturniolo

Intervento svolto in occasione della presentazione di Beni Comuni, volume monografico della rivista Il Ponte, a cura di Mario Pezzella, il 26 aprile, a Messina. Gino Sturniolo è il portavoce del movimento No Ponte di Messina

“Il capitalismo sta per finire. La prova: il crollo dell’Unione Sovietica”. Con queste parole Anselm Jappe inizia la sua introduzione aL’onore perduto del lavorodi Robert Kurz (pubblicato in Italia da Manifestolibri nel 1994). Secondo le tesi dell’autore tedesco e della rivistaKrisis, con la quale ha collaborato negli anni novanta, la crisi del sistema di produzione basato sullo sfruttamento industriale si evidenzia più clamorosamente laddove presenta maggiori rigidità. Laddove, evidentemente, si presenta a maggiore comando statale. Il crollo dell’Unione Sovietica non dimostrerebbe, quindi, la superiorità dell’economia di mercato, bensì il soccombere delle sue manifestazioni meno concorrenziali.

Le tesi sostenute da Kurz hanno, a mio modo di vedere, a che fare con quanto esposto da Lanfranco Caminiti inBreznev in Calabria,un articolo pubblicato nel 1991 sulla rivistaLuogo Comune,nel quale veniva proposta una lettura del Sud come luogo dove vennero sperimentate nel trentennio postbellico politiche “socialiste”. “E’ come se in Italia si sia realizzato un socialismo regionale e che, ben lungi dalla solita individuazione della zona tosco-emiliana come base rossa, questa macchia di socialismo reale sia stato il Meridione. E proprio come all’Est le macchine statali socialiste sono andate in crisi, la struttura statale nel Sud… va a pezzi e con clamoroso rovinio”.

Di quelle politiche Caminiti ricorda, senza particolari sottolineature critiche, che “l’unico posto al mondo con un livello di produttività operaia bassa come a Tblisi fosse stato l’Alfa di Pomigliano d’Arco”.


Da questo punto di vista il declino nel quale siamo immersi, lungi dal corrispondere alla narrazione comunemente riconosciuta, che ne situa l’origine nel crack finanziario del 2007-2008, rappresenta l’esito di un lungo processo che ha visto entrare in crisi prima lo Stato e poi il Mercato. La politica dei Beni Comuni, in questa prospettiva, diventa un orizzonte strategico, uno sbocco possibile, piuttosto che la salvaguardia di alcuni diritti fondamentali o l’autogestione di qualche angolo della società.


D’altronde l’utilizzo dell’espressione Bene Comune per le primarie e per il programma del centrosinistra impedisce ormai di parlarne senza aggiungere elementi di dettaglio. Anche nel caso dei Beni Comuni assistiamo, quindi, ad una loro declinazione convenzionale che li fa coincidere con una sorta di indistinto interesse generale.


Io credo che non si possa attribuire il carattere di comune a qualsiasi bene o servizio che sia proprietario. Da questo punto di vista, ad esempio, il lavoro non può essere considerato un bene comune laddove si svolge nell’ambito di una impresa pubblica o privata che lo usi al fine di produrre profitti. Così non può essere considerato comune un bene o un servizio che non sia partecipato, che non sia, cioè, sottoposto ad una gestione collettiva. Ma se può essere considerato un bene comune la deposizione storica di una forma artistica o il cumularsi della conoscenza umana, è più giusto parlare di “luoghi comuni” quando si definiscono degli spazi dove soggetti collettivi gestiscono in maniera partecipata una molteplicità di attività in adesione alla vocazione del luogo.


A questo fine il documento “Messina, forme di vita in comune”, scritto con Emilio Raimondi, Luciano Marabello e Gianfranco Ferraro, avanza la proposta dell’uso in comune. Partendo dall’esperienza dei teatri occupati e interrogandoci sulle strategie in campo abbiamo provato ad allargare il ragionamento sugli spazi e sui luoghi comuni. In particolare, il nostro punto di vista parte dall’assunto ormai condiviso che le pratiche del comune debbano essere pratiche che sfuggano all’appropriazione sia pubblica che privata. Prendendo spunto dalle esperienze di occupazione e di assegnazione di luoghi ad associazioni abbiamo immaginato l’istituzione di spazi pubblici, organizzati sulla base di regolamenti comuni, condivisi e redatti da consulte popolari costituite da associazioni, comitati e singoli cittadini. A tal fine abbiamo proposto l’istituzione di un Assessorato dei Beni Comuni.


In sostanza il ragionamento che abbiamo provato a sviluppare e che poniamo alla discussione s’incentra sulla necessità di istituire spazi fisici e politici di riflessione sulle vocazioni, sul futuro e e sullo sviluppo della città e, al contempo, di andare incontro al bisogno di spazi di aggregazione, socializzazione, produzione di cultura, sport, attività ludiche.


Questa pratica l’abbiamo pensata come elemento produttivo in una fase di crisi delle casse pubbliche in quanto capace di generare protagonismo sociale a partire più dalla forza dell’autogestione e dell’autorganizzazione che della leva economica. E’ chiaro che in questo caso ci si situa su un terreno scivoloso perché da più parti vengono avanzate proposte del genere basate sul principio della sussidiarietà, secondo il quale al fondo del limite di spesa per il pubblico viene previsto l’intervento sostitutivo del volontariato. Un elemento che vuole caratterizzare la nostra proposta e’ che queste realtà non debbano essere subordinate ad un vincolo gerarchico superiore, quanto piuttosto debbano direttamente gestire, avere capacità politica di incidere su pezzi di territorio. Dare vita ad esperienze di autogoverno.


C’è, però, un aspetto che reputo essenziale nella questione dei Beni Comuni. Se è vero che non è semplicemente il conflitto a generare i Beni Comuni, è il conflitto a liberarli (su questo insiste giustamente Ugo Mattei in tutti i suoi interventi). Aggiungo che l’atto illegale è molto spesso ineludibile e che assume il carattere dell’evento creativo. I dispositivi economici e normativi sono ormai così avanzati sul terreno delle compatibilità con vincoli imposti dall’esterno (vincoli economici, soprattutto) che solo il disconoscimento di tali obblighi può aprire nuovi spazi. Con chiarezza Gianfranco Ferraro nel suo contributo al volume sostiene che “… è a partire dal comune riconoscimento di pratiche, da una legittimazione superiore a quella del diritto vigente, che si determina un nuovo diritto…”.


Questo aspetto rimanda ad un altro, trattato nella parte scritta da Mario Pezzella, che riguarda il carteggio tra Hardt e Holloway (“creare il comune, incrinare il capitalismo”,
http://www.democraziakmzero.org/ebook/). Il tema del carteggio è il rapporto tra sovversione/conflitto e istituzione. Holloway, e Pezzella con lui, stanno dalla parte della sovversione, cioè di una continua apertura di terreni di conflitto. Hardt ritiene fondamentale l’istituzione (naturalmente da declinare nella formula più creativa possibile), cioè la necessità di un addensamento che serva a consolidare le conquiste fatte. Ciò che va detto, però, è, appunto, che i processi di verticalizzazione del potere e i vincoli imposti dai dispositivi economici comportano, perché le lotte possano avere un qualche sbocco istituzionale, una lunga fase di conflitto e di atti che rompano quei vincoli. Che creino, cioè, un mutamento del piano della discussione dal terreno delle regole dell’esistente alle nuove relazioni imposte attraverso l’evento creativo dell’atto illegale.


Perché, quindi, il discorso politico sui Beni Comuni possa essere produttivo è necessario che resista e sovverta quella “rivoluzione passiva” indicata da Mario Pezzella come lo strumento per depotenziare le insorgenze sociali. A questo fine nel documento introduttivo aBeni Comuniviene più di una volta fatto riferimento a Debord. Lo si fa per descrivere una fase nella quale lo spettacolo (la rappresentazione) ha sostituito la realtà. Lo si fa anche per denunciare il superamento di questa fase in favore di un esplicito allontanamento del potere dai luoghi deputati della rappresentanza politica verso organismi espressione della tecnocrazia finanziaria che non hanno più bisogno del consenso.


Di certo, Debord ci insegna che tutto ciò che viene generato dalla società viene poi “narrato” dal potere attraverso ideologie e questo meccanismo finisce per deformare a tal punto la prassi sociale da rivoltarla nel suo opposto. Per questo solo le pratiche che conducano la critica fino al fondo delle ideologie e che si incarnino nelle biografie delle persone e delle loro modalità organizzative possono sovvertire un ordine delle cose basato su meccanismi appropriativi. A questo proposito è illuminante la citazione da parte di Gianfranco Ferraro diAltissima povertà di Giorgio Agamben, laddove nell’esperienza francescana viene individuata la fine della separazione tra regola e vita. Per questo possiamo dire che sia ancora oggi attuale la frase dei situazionisti del ’68 parigino: “Chi parla di rivoluzione senza riferirsi alla vita quotidiana si riempie la bocca di un cadavere”.

 

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