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nazioneindiana

Scuola, feticci e bugie

di Renata Morresi

scuola 4301Il riordino della scuola in atto non crea lavoro ma lo precarizza, non affronta i problemi degli alunni ma li rimanda, non riguadagna autorevolezza al sapere e alla professione docente ma accentra l’autorità. Eppure abbiamo assistito a scene di commozione alla Camera, abbracci, giubilo. Perché? Chi governa e legifera è davvero così avanti, così illuminato circa le sorti della scuola italiana? Prosegue imperturbabile a costruire un futuro migliore per tutti? O non è – come sostiene chi a scuola ci vive ogni giorno – che semplicemente ignorante? O non è che invaghito della nuova, dilagante, sindrome efficientista? O non fa che rispondere al risentimento di una società in crisi, che ancora crede di vedere negli insegnanti dei privilegiati? Sì, io credo che vi sia una arroganza illusa, l’allucinazione presuntuosa di essere i punitori dell’improduttività, i guaritori del disagio sociale e della depressione (in termini quasi psichiatrici), nonché gli autori delle arcinote, ormai quasi mitiche, RIFORME. Quelle moderne, quelle che yes, we can, quelle che nessuno finora ha avuto il coraggio di bla-bla. Quelle che nemmeno la Gelmini… la quale si era “limitata” a tagliare risorse, far classi pollaio e sbandierare l’importanza del grembiulino. Invece qua, caspita: la smania utilitarista si è splendidamente fusa al controllo biopolitico. Il feticcio del “merito” viene ribadito ad ogni piè sospinto; giusto ieri Renzi a Mentana: “lei non ha incontrato un insegnante più bravo di un altro? Siamo d’accordo che ci vuole un po’ di merito?”

Come se il merito fosse una entità trascendentale che sta oltre il lavoro, le lauree e i titoli (pur emanati dallo Stato), come se ci fossero parametri superiori, come se il prof dovesse essere unanimemente adorato, ogni prof trasfigurato in un ineccepibile John Keating, che ispiri i suoi alunni, li instradi al “mondo del lavoro”, somministri test Invalsi e obbedisca al POF. E il rendimento, che diamine, ci dimostri il suo rendimento!

L’ossessione della valutazione continua, ravvicinata, ipercodificata si innesta alla pervicacia del modello scuola-azienda. L’impostazione tecnicistica e aziendalista messa a punto da estensori privi di consapevolezza fa il paio con lo slancio futur-riduzionista in stile lavagnetta renziana. La miscela è micidiale. In un rovesciamento quasi surreale la crisi economica e la disoccupazione giovanile vengono imputate al non adeguamento dell’insegnamento ai bisogni del capitalismo globale, da qui una legge sulla scuola che non solo si rassegna alla proletarizzazione del ceto medio, ma crede che sia l’unica speranza, sottraendo ore di scuola ai ragazzi per mandarli ad “imparare un mestiere” e investendo tutto sul rinnovamento della gestione e nulla in un progetto di società in cui i giovani siano i protagonisti del futuro, non i muli che dovranno pagare il costo sociale di scelte scellerate.

Ne viene una riforma che taglia, cancella, priva, umilia, e mente, semplicemente mente. E con estrema convinzione. Tanto spudoratamente che nessuno, nemmeno una opinione pubblica abituata al malaffare e una classe dirigente adusa all’ipocrisia come sono quelle italiane, nessuno riesce davvero ad avvertire l’enormità delle menzogne. O forse sì? O, forse, davvero, a nessuno più importa?

Per esempio. Le tanto sbandierate centomila persone che saranno assunte a settembre lavorano già da anni. Da 6, 10, 13 anni a volte. Albi territoriali dove i docenti sono classificati in base al merito (esperienza, titoli di studio, abilitazioni, specializzazioni) esistono già: si chiamano graduatorie. “Ma come? Vi diamo lavoro e non siete contenti?” – protesta il governo. Di cosa dovrebbero essere contenti, in termini professionali, economici o di ruolo sociale, visto che guadagneranno meno, saranno meno tutelati, dovranno in tanti casi fare un lavoro diverso dal loro, saranno perpetuamente instabili? I soliti cinici diranno che la precarietà oggi riguarda tutte le forme del lavoro – come non saperlo? Vi sono oramai enti di formazione che chiedono la partita IVA agli aspiranti docenti. Che sono, sì, professionisti, nella fattispecie professionisti della relazione, ma la cui professionalità non può essere rilanciata dall’agonismo o misurata in base al fatturato. I risultati formativi non sono calcolabili nei termini numerici del profitto economico, l’appagamento degli alunni non è paragonabile alla retribuzione dei dipendenti, né quello dell’insegnante ai ricavi della gestione. L’unica similitudine aziendalista che posso tollerare è quantitativa: un insegnante di inglese ha sei classi, mediamente composte da 25 studenti, per un totale di circa 150 persone. Come un’azienda di grandezza media, insomma. Il suo stipendio è comparabile a quello di un manager? Ahah! No, è lì fermo da sette anni. Il paragone comunque è fuorviante, non solo perché gli insegnanti non guadagnano quanto i dirigenti, ma soprattutto perché la loro opera non può, non deve essere determinata da criteri meramente utilitaristici. Si impone loro di appiattirsi sul modello concorrenziale capitalistico, quando chiunque abbia letto anche solo un manuale di didattica sa che la collaborazione, l’ascolto, il rispetto, la progettualità comune sono le azioni cruciali per migliorare la qualità dell’insegnamento. La verità è che non si chiede agli insegnanti di essere migliori, solo più competitivi, spendibili, comunicativi, acchiappanti. Di produrre, insomma, una performance più appetibile (e misurabile) di quella dell’insegnante concorrente. E di accontentarsi delle soddisfazioni simboliche (di certo non economiche) che tutto codesto “merito” dovrebbe indurre. Si ignora che gli insegnanti, in quanto esperti, programmatori ed educatori, e gli studenti, in quanto discenti inesperti e giovani esseri umani, vivono in una comunità educativa, dove si ha quanto più possibile cura dello sviluppo armonioso dell’individuo in mezzo agli altri, e dove la convivenza giornaliera, i rapporti, gli atteggiamenti psicologici, i genitori, il personale tecnico, le attrezzature disponibili, l’attività extrascolastica e così via, chiamano in causa aspetti culturali, personali e sociali che quella comunità contribuiscono inevitabilmente a modellare.

Al di là degli slogan vuoti, lo scopo primo dell’educazione non è procurare gente che faccia girare l’economia e paghi i contributi, non è solo la trasmissione di un patrimonio di saperi dati, non solo il raggiungimento di alcuni fini condivisi prestabiliti, ma soprattutto la promozione autenticante della personalità degli alunni. Vogliamo esseri umani liberi, autocoscienti, eticamente consapevoli, responsabili del loro futuro. Questa è la preparazione che creerà il lavoro. Pensiamo davvero di poter valorizzare gli educandi avvilendo di continuo la categoria degli educatori? Schiacciando le discipline sulle urgenze della competizione? Facendo vivere 28 ragazzi in un metro quadro a testa? Proponendo un riordino della gestione delle scuole che le mette in mano a dirigenti che si ritroveranno a dover stilare piani, fare selezione del personale, attirare contributi in denaro, rendere l’offerta didattica accattivante (attività per cui, peraltro, non sono stati formati)? Come fanno a credere che in questa riforma vi sia una visione? Mentono. Ma sanno di mentire?

Per esempio. Perché il preside dovrebbe chiamare i docenti non per i punti che si sono guadagnati in questi anni (punti dati dall’esperienza, dall’università, dal Ministero stesso), ma per la loro (presunta) compatibilità con gli obiettivi specifici, espressione dell’autonomia dell’istituto? Una norma troppo simile all’articolo 27 della riforma firmata Vittorio Emanuele, Mussolini, De Stefani, Gentile: “Le supplenze ai posti di ruolo e gl’incarichi di insegnamento di qualunque specie sono conferiti dal preside”. (Allora il dirigente sceglieva “tenendo conto, anzitutto, del servizio militare in reparti combattenti”, oggi chissà.) E cosa saranno mai questi obiettivi specifici, questa tanto ostentata autonomia, questa offerta formativa ad hoc, personalizzata a seconda dei famigerati bisogni del territorio, ecc.? Perché mai la chimica di Trento dovrebbe essere diversa da quella di Catania? O lo spagnolo di Biella diverso da quello di Campobasso? O non è questa dell’autonomia una scusa, che finisce per accettare, anzi promuovere, la differenziazione delle scuole in “sedi di primaria importanza” e “sedi di secondaria importanza”, proprio come da regio decreto del 1923? Perché chi ci governa ha ceduto a questa ideologia della diseguaglianza?

In ultimo, vorrei spendere due parole sulla distruzione della fiducia. È difficile capire. Non ho mai incontrato qualcuno che potesse capire senza esservi direttamente coinvolto. I percorsi della formazione docente sono così divisi, frammentati, screditati che arrivati a questo punto anche i più volenterosi di solito si arrendono. Le innumerevoli identità (prima, seconda, terza fascia, abilitati, specializzati, congelati, idonei, ecc.) in cui si è frantumata la professione non fanno che stancare. Stancano persino gli attori stessi, spesso fatalisticamente arresi al sarà quel che sarà. Per farla breve: gli aspiranti insegnanti sono ripetutamente ingannati.

Un esempio concreto: fino a ieri si è investito su corsi abilitanti a numero chiuso per selezionare e formare i futuri professori, i cosiddetti TFA. D’ora in poi, per quanto siano del tutto assimilabili, nella selezione e nei risultati, alle vecchie scuola di specializzazione (SSIS), essi non permetteranno più l’accesso alla professione, ma solo ad un ulteriore concorso, che precederà un ulteriore periodo di prova (3 anni!) senza stipendio e col rimborsino spese. Con lo stesso titolo di chi li ha preceduti, insomma, costoro (che al momento sono spesso già docenti supplenti a stipendio pieno) l’anno prossimo ripiomberanno indietro allo stato di stagisti. Dopo non una, ma due selezioni concorsuali. In tanti casi, dopo anni già spesi a scuola. Il nuovo percorso di formazione di chi vorrà insegnare (nuovo? ancora? negli ultimi 7 anni è cambiato già 4 volte) si paventa come un intricato labirinto di pedagogismi, tasse, tirocini, burocrazie, e anni senza paga. Vedete la truffa? Vedete la menzogna? Di anno in anno vengono tradite migliaia di persone, e su questi tradimenti si vuole riformare il paese.

Ma qui non si tratta di una legge sull’occupazione – lo dice anche Renzi: mica possiamo assumere tutti! Ma già lavorano, signor Presidente, già lavorano – qui ci si chiede come tutelare lo spazio di libertà, crescita e conoscenza dei ragazzi italiani. Uno spazio di cui gli insegnanti – non i genitori, non i funzionari, non gli pseudo-manager votati alla politica – sono i custodi. Eppure le norme che riguardano gli alunni con bisogni speciali, il problema della dispersione scolastica, il diritto allo studio, non esistono: si è solo votato per darle in delega al governo. Tutto è rimandato, niente sarà dibattuto in Parlamento.

Perché crediamo che questo sia giusto? A molti conviene credere. In primo luogo ad un governo che sbandiera il cambiamento ma deve far portare i conti fino all’ultimo spicciolo: risparmiare sul comparto scuola, così vasto (e, tutto sommato, ahimè, inerte) aiuta. Altri vogliono credere. Non potendo accettare la propria progressiva riduzione ad ingranaggi preferiscono immaginarsi protagonisti del grande efficientismo che ci porterà avanti, fuori, lontano da ogni crisi brutta e cattiva. Altri non credono affatto. La guerra civile cellulare imperversa e ognuno cerca di salvare la pelle o almeno la pensione. “Francia o Spagna, basta che se magna” sembra riecheggiare. È la paura che serpeggia in Italia che fa prevalere il fatalismo e, assieme, la voglia di legge del più forte. Avremmo bisogno non di una politica del fare ad ogni costo, ma di un pensiero rigoroso e visionario insieme, che abbia a cuore l’equità e il paese che viene.

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