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il ponte

Populismo, antipolitica e governo tecnico sono facce della stessa medaglia

di Claudio Bazzocchi

L'Italia del dopo-Berlusconi sarà retta da un governo tecnico. Non si sa per quanto tempo.

Commentatori e politici di destra e sinistra parlano di attacco alla politica. Altri di inadeguatezza nella nostra classe dirigente, che non poteva che avere come risultato un governo tecnico.

Vorremmo fare alcune considerazioni su questi due assunti, per dire agli uni che chi ha cavalcato il populismo antipartiti – da destra come da sinistra – non può certo meravigliarsi del fatto che l'Italia sarà governata da un professore liberista della Bocconi, e agli altri che non esistono classi dirigenti inadeguate, ma ideologie che ne postulano l'inadeguatezza proprio in quanto classe politica.

Sarà bene allora ricordare che in tutto l'Occidente capitalistico la politica e i politici soffrono di una grave crisi di legittimazione a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. La politica diventa sinonimo di doppiezza, corruzione, perseguimento di interessi particolari, spreco e inefficienza. I politici sarebbero degni attori di tale scena, perseguitori degli spregevoli fini assegnati appunto alla politica da un'opinione pubblica sempre più risentita, disincantata e disaffezionata.

L'Italia rappresenta in questa storia un caso particolare, ma non perché le sue classi dirigenti siano molto più corrotte di quelle degli altri paesi, bensì per il fatto che la presenza del partito comunista più forte d'Europa e di un sindacato molto politicizzato richiedevano un attacco al sistema partitico e sindacale ancora più aggressivo da parte della destra padronale e del suo apparato accademico.

Vogliamo infatti dire che il risentimento antipolitico nell'Occidente delle democrazie avanzate è il frutto del combinato disposto di crisi dello Stato sociale (assieme alla conseguente crisi fiscale) e di operazione ideologica di screditamento del sistema dei partiti e dell'idea stessa di Stato sociale. Sappiamo bene che a partire dalla metà degli anni Settanta si aprì in Occidente un ampio dibattito sulla crisi dello Stato, afflitto ormai – si diceva – da un'insufficienza decisionale acuta, per dirla in termini medici. Ciò dipendeva dall'eccesso di attese a cui era esposto lo Stato del compromesso tra capitale e lavoro, caratterizzato da alto livello di sindacalizzazione, concorrenza partitica, pluralismo associativo – e quindi nascenti spinte corporative – e mezzi di comunicazione sociale liberi e in continuo sviluppo. I governi occidentali si trovavano così a confrontarsi con attese, richieste, responsabilità cui era difficile sottrarsi e a cui era allo stesso tempo arduo rispondere. Infatti, le possibilità e le capacità di direzione, nonché le risorse materiali, erano troppo scarse per rispondere a un carico di attese notevolissimo oltre che caratterizzato da spinte contrastanti in termini politici e sociali.

Tale analisi della crisi dello Stato trovò la sua concettualizzazione nella tesi del sovraccarico (overload thesis) che nacque in ambienti politici e accademici di destra, dispiegata in tutta la sua forza persuasiva nel famoso rapporto della Commissione Trilaterale (di cui Mario Monti è l'attuale European Chairman) su La crisi della democrazia del 1975. In quel rapporto, una frase di Huntington, in polemica con gli economisti e i politologi marxisti, segnerà quasi il suggello di un'epoca: «ciò che i marxisti mettono erroneamente sul conto dell'economia capitalistica, è in realtà risultato del processo politico democratico». Insomma, la crisi non è causata dal rapporto tra capitale e lavoro arrivato a una soglia di contraddizione insostenibile, bensì dalle modalità di gestione delle democrazie da parte di uno Stato che tramite il welfare paralizza le possibilità espansive dell'economia e quindi del vero benessere. Così, se da una parte anche per i marxisti la crisi era da imputare al welfare state, dal momento che rimandava una risoluzione della contraddizione fra capitale e lavoro non più differibile, dall'altra era invece una domanda politica in eccesso – che a sua volta causava l'inflazione vera e propria – a creare un'ostilità diffusa nei confronti del capitalismo e della sua capacità di creare ricchezza. Per i neoconservatori, la ricetta era chiara: azioni deflazionistiche in senso sia politico, sia strettamente economico avrebbero riequilibrato il sistema capitalistico per fargli riprendere la corsa su un terreno non più ostile né a livello politico né a livello culturale.

Andrà ricordato che sempre in quegli anni alla tesi del sovraccarico si affiancò la Public choice theory. I teorici della Public choice, nata negli anni Sessanta negli Stati Uniti è divenuta sempre più influente nei decenni successivi in tutto l'Occidente sia in ambito politico sia in ambiente accademico, approcciarono il tema del malfunzionamento dello Stato utilizzando gli assunti dalla rational choice. In breve, il comportamento degli attori politici non può essere altro che strumentale, orientato alla massimizzazione di benefici personali o per conto della propria parte. I politici sono soggetti razionali e come tali si comportano, cioè come se fossero di fronte a un problema da risolvere in termini di costi-benefici in ogni scelta che dovranno compiere, così che l'opzione selezionata sarà quella che permetterà di massimizzare i propri interessi senza alcuna considerazione per le conseguenze che i propri atti (compiuti secondo una classica funzione di utilità) potranno avere sugli altri. La Public choice theory fu così una valida alleata delle politiche neoliberiste, nel momento in cui stabiliva che anche nell'agone politico valgono le regole dell'economia e imperversa l'egoismo tipico dell'homo oeconomicus. Tale teoria fu inoltre antesignana dell'antipolitica e della polemica contro i partiti. Infatti, se gli attori politici puntano a massimizzare i propri benefici e tendono ad essere rieletti, dando soddisfazione alle molteplici richieste dei vari gruppi di pressione tipici di uno Stato del benessere, innescheranno quel processo di inflazione politica ed economica che porterà alla crisi dello Stato e alla paralisi dell'economia. Lo Stato e la politica non potranno così essere considerati i garanti del bene pubblico e nulla potranno nella lotta all'inflazione, essendone anzi la loro causa. Obiettivo dovrà dunque essere quello tipicamente liberista di spostare le scelte riguardanti il benessere collettivo dalla deliberazione politica alle decisioni "neutre" del mercato. La politica e i suoi attori partitici e sindacali non sono dunque in grado di affrontare la crisi, in quanto volti alla massimizzazione dei propri interessi e a compiacere quindi le varie spinte e controspinte presenti nella società, spesso indicate dai teorici neoconservatori come provenienti da ceti fin troppo garantiti dai partiti e dai sindacati stessi che, con la loro rigidità, non permettevano alle forze produttive di espandersi e ai ceti emergenti di esprimere la propria creatività.

Quella dell'overload thesis, associata alla Public choice theory, fu una narrazione populista della crisi, di cui si avvalsero i campioni del neoliberismo negli anni Ottanta dell'era reaganiana e thatcheriana. La politica e il welfare State, assieme ai soggetti fautori del patto socialdemocratico – partiti, sindacati, associazioni di categoria e burocrazia statale – divennero sinonimo di corruzione, disinteresse al bene pubblico, doppiezza e inefficienza. Le forze sane del mercato avrebbero finalmente liberato la cosa pubblica dai mille impedimenti dell'inefficienza e dei veti incrociati di tipo corporativo.

Vogliamo allora dire che negli anni Ottanta riusciamo ad afferrare il punto in cui si intersecano e si compenetrano in un micidiale cocktail ideologico populismo, liberismo e antipolitica.

Prima di affrontare brevemente la specificità del caso italiano – specificità per eccesso e non per differenza –, possiamo arrivare a una prima conclusione. La tesi del sovraccarico richiedeva di sottrarre alla politica gran parte delle decisioni sull'economia e sulla società per affidarle alla competenza tecnica dei mercati e delle banche centrali. Populismo antipolitico e depoliticizzazione neoliberista si tengono per mano nell'attacco allo Stato sociale e agli attori tradizionali della politica. Non dobbiamo pensare che da una parte stiano i mercati, le banche centrali, i bravi economisti liberisti ed europeisti e dall'altra i capipopolo arruffoni e impresentabili, magari corrotti e sporcati da vari scandali, persino sessuali. Populismo e neoliberismo sono facce della stessa medaglia; depoliticizzazione, riduzione della politics a neutre policies – quasi naturali e indiscutibili – e narrazione populista convergono nell'obiettivo conservatore di espellere le organizzazioni dei lavoratori e il lavoro stesso dal discorso pubblico.

Venendo brevemente all'Italia, sappiamo bene che le attenzioni degli analisti sostenitori dell'overload thesis puntarono il dito proprio contro l'Italia, tipico esempio di paese latino con un partito comunista fortissimo, sindacati agguerriti, sistema politico inflazionato e spesa pubblica fuori controllo. Ci fu ampia discussione in un dibattito di altissima portata teorica sia nel campo comunista sia in quello cattolico/democristiano sulla crisi dei partiti, lo Stato sociale e la crisi fiscale. Non è questa la sede per riportare la profondità di quel dibattito – assieme, va detto, all'inerzia dei partiti –, né per ripercorrere le tappe della storia politica italiana a partire dalla fine degli anni Settanta. È appena il caso di ricordare che l'uccisione di Moro non fu solo l'orribile omicidio di uno statista da parte di una banda di terroristi, ma la fine di un tentativo di risposta alla crisi dei partiti e del sistema politico italiano con il compromesso storico. E non andrà dimenticato che negli anni Ottanta la narrazione populista contro lo Stato e il sistema dei partiti sarà interpretata dai socialisti italiani e da Craxi (assieme a vari della cultura liberale), di cui non a caso Berlusconi può essere considerato l'erede. Sappiamo anche che incredibilmente il più grande partito comunista dell'Occidente decise di disciogliersi assumendo a sua volta gran parte della retorica antipartitica e affidando la propria strategia politica alla riforma del sistema elettorale, senza più pensare ai grandi problemi che la crisi degli anni Settanta aveva consegnato alla sinistra: il rapporto tra Stato e individuo, che tipo di socialismo nella società postmoderna caratterizzata dall'esplodere deii cosiddetti bisogni postmateriali, il bisogno di espressione individuale e creativa delle giovani generazioni, il rinnovamento dello Stato non solo come modernizzazione ma come espressione della partecipazione e della democrazia, le nuove grandi contraddizioni relative all'ambiente e al modello di sviluppo.

Ma la strategia occhettiana farà sostanzialmente propria quella della destra antipartitocratica, per la quale la crisi italiana stava nella corruzione politica associata al sistema dei partiti che si avvantaggiavano del modello elettorale proporzionale per sottrarre la decisione ai cittadini. Sotto le spoglie della riforma elettorale e dell'ideologia della democrazia diretta cominciò ad attecchire anche in Italia, con dieci anni di ritardo rispetto al reaganismo e al thatcherismo, la narrazione populista antipolitica. La cosa strana è che fu la sinistra a cavalcarla. Come sorprendersi se poi Berlusconi spingerà tale narrazione fino al plebiscitarismo contro i corpi intermedi della società e lo stesso Parlamento, rei di sottrarre potere ai cittadini per sporchi giochi di palazzo, ostacoli al rapporto diretto tra governo ed elettori? Come non vedere che chi festeggia la fine di Berlusconi è in gran parte ancora figlio di quella stessa cultura plebiscitaria che oggi esecra chi si è macchiato dello stesso delitto di separatezza che Berlusconi impuntava ai propri nemici?

E come meravigliarsi allora della nascita di un governo tecnico nell'Italia dell'antipolitica, in cui anche leader di sinistra come Nichi Vendola hanno sparato contro i partiti e si sono presentati come paladini senza macchia nel periglioso mare della politica solcato da navi pirata, leader doppi e senza anima se non addirittura corrotti, sporchi e disonesti? Di che si deve sorprendere Antonio Di Pietro per non parlare di Giuliano Ferrara? Il mix tra populismo, liberismo, razzismo e antipolitica è stato il male dell'Italia negli ultimi vent'anni, a cui purtroppo anche la sinistra ha contribuito sia nella sua versione cosiddetta moderata sia in quella cosiddetta radicale. Chi pochi giorni fa proponeva un referendum elettorale per il maggioritario come soluzione al problema della crisi italiana assieme a quelle forze che da sempre in Italia lavorano per distruggere i partiti, come può dirsi oggi preoccupato che un governo tecnico rappresenti la fine della politica?

Chi di antipolitica ha ferito morirà di antipolitica. Sì, perché il governo tecnico non è la via d'uscita dal populismo e dall'antipolitica. Il governo tecnico e il populismo sono l'antipolitica stessa. E nessuno, dalle colonne del Corriere o di Repubblica, ci venga a raccontare la storia della buona borghesia che ha deciso finalmente di uscire dal proprio isolamento per salvare il Paese dalla catastrofe berlusconiana.

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