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Alcune brevi considerazioni sul (presunto) primato della politica

Sebastiano Isaia

machiavelli afNon bisogna certo essere degli incalliti “marxisti ortodossi” per capire che «a Bruxelles e altrove è la forza dell’economia che determina», in ultima analisi (ma sempre più spesso anche in “prima”), «il peso politico di un Paese», come ha scritto ad esempio Ferdinando Giugliano sul Financial Times del 4 luglio a proposito della partita Germania-Italia (o Merkel-Renzi). Partita che, beninteso, si gioca su un campo che non ha nulla a che vedere con i «valori europeisti» di cui ciancia il noto “rottamatore” in chiave politico-propagandistica. Ben altri valori sono in gioco, e quasi tutti si declinano in termini rigorosamente economici e sistemici – qui alludo all’organizzazione sociale capitalistica di un Paese colta nella sua totalità.

Detto di passata, è bastato che l’italico Premier dicesse qualcosa di “sovranista” agli odiati crucchi (le solite banalità sulla crescita che deve andare insieme alla stabilità, sullo sviluppo che deve «coniugarsi» con il rigore dei conti pubblici), che dal Paese si levasse un esilarante «Contrordine compagni e camerati: Renzi ha due palle così!» Da cameriere e lecchino della Cancelliera dal cospicuo fondoschiena (la quale con qualche maliziosa allusione chiama il leader toscano Mister 40 per cento), a grande statista capace di difendere i sacri interessi nazionali: il tutto nello spazio di alcuni nanosecondi – che non è l’unità di misura del tempo che scorre a casa Brunetta. Ovviamente il prossimo Contrordine! è dietro l’angolo, è sufficiente aspettare un paio d’ore, non di più.

Federico Fubini si chiede perché nessun leader europeo ha il coraggio politico di rinfacciare alla rigorista Germania il suo surplus commerciale che la mette fuori dal «six pack», che proibisce un «rosso» delle partite correnti (scambi con l’estero) di oltre il 3% del Pil per più di tre anni di fila, ma anche un surplus di oltre il 6% per lo stesso periodo.  «È davvero così nocivo che la Germania viaggi con un surplus esterno da 280 miliardi, il più grande al mondo, doppio di quello cinese, circa il 7% del Pil tedesco? Sarebbe ingiusto sostenere che questo saldo record è stato raggiunto riducendo l’import dall’Italia o dalla Spagna. Nel 2009 l’economia tedesca ha comprato made in Italy per 37 miliardi di euro, nel 2013 per 47 miliardi. E sarebbe autolesionista chiedere una riduzione dell’export tedesco: ogni Bmw spedita da Stoccarda a Shanghai contiene freni fatti a Bergamo e pellame dei sedili conciato ad Arzignano, Vicenza.  Ma il surplus tedesco nel 2013 è stato accumulato in gran parte verso Paesi fuori da Eurolandia, per 188 miliardi, e ciò aumenta un forte afflusso di denaro verso l’euro dal resto del mondo. Ciò a sua volta rafforza l’euro, ostacola l’export degli altri Paesi, deprime l’inflazione e dunque spinge i debiti al rialzo rispetto al Pil. Basterebbe che la Germania incentivasse di più i consumi e gli investimenti, rispettando le regole comuni europee come chiede sempre agli altri di fare. Lo strano è forse solo che nessuno lo ricorda, nemmeno Matteo Renzi» (La Repubblica, 5 luglio 2014).

La cosa non è affatto strana, anzi è perfettamente razionale e comprensibile, dal momento che un difetto di forza non è certo assimilabile, neanche alla lontana, a un “eccesso” di forza. «In fondo», conclude Fubini, «chiedere eccezioni per sé ai vincoli che danno noia, più che esigere dal prossimo il rispetto della legge, è sempre stata una specialità italiana. Non tedesca». Qui l’ingenuità cerca di nascondersi dietro l’italica furbizia, che crede di poter surrogare con artifici retorici la mancanza di una reale forza. Non credo che i teutonici possano abboccare a questo pseudo machiavellismo d’accatto.

La campagna sostenuta nel 2012 da Angela Merkel e dal Presidente Joachim Gauck contro gli «euroscettici» tedeschi aveva come titolo  Ich will Europa (Io voglio l’Europa). L’evidente ambiguità del titolo svela la reale dialettica sociale che informa il progetto volto a fare dell’Europa un polo imperialistico autonomo, anche secondo gli auspici di Barbara Spinelli: «Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che è finito il tempo in cui la pace in Europa viene decisa negli Stati Uniti, con l’Europa che s’accoda e tace come nell’epoca della guerra fredda. Ai nostri con­fini con la Rus­sia, e nel Medi­ter­ra­neo, è di una pax euro­pea che abbiamo biso­gno». Ho citato dal suo intervento al Parlamento europeo del 2 luglio. Peccato che la tanto agognata «pax europea» presupponga il ruolo egemone della Germania nella futura Federazione Europea. Come sempre, se vuoi il “lato buono” della cosa devi portare a casa anche il suo “lato negativo”.

Ancora la Spinelli: «Key­nes diceva, nel ‘36, poco dopo l’inizio del New Deal, che “le idee degli economisti, dei filo­sofi e dei poli­tici, giu­ste o sba­gliate, sono più potenti di quanto si creda. Gli uomini pra­tici, che si riten­gono completamente liberi da ogni influenza intel­let­tuale, sono gene­ral­mente schiavi di qual­che economista defunto». Naturalmente la progressista dell’Altra Europa (a me basta e avanza questa Europa, figuriamoci l’Altra!) non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che «gli uomini pratici» (compreso chi scrive) possano essere «generalmente schiavi» del Capitale, e non delle idee «di qualche economista defunto».  Non posso negarlo: «qualche economista defunto» pesa come un macigno anche sulla mia piccola testa, e almeno in questo la figlia di cotanto padre ha ragione.

Qualche settimana fa ho scritto le brevi considerazioni che seguono sul fantomatico primato della politica, tesi che soprattutto in Italia ha sempre goduto di largo seguito presso intellettuali e politici d’ogni tendenza e colore.

 

1. Naturalmente per i politici di professione, o “politicanti” che dir si voglia, il primato della politica è un dogma che non ammette alcuna obiezione, e quando i “duri fatti” hanno l’ardire di revocare in discussione quel dogma, cosa che peraltro accade sempre più spesso, per lor signori si tratta semplicemente di ripristinare la naturale armonia delle cose, che postula appunto la primazia del politico sull’economico. Il politicante vive per intero nella dimensione della più ottusa delle ideologie, e se così non fosse egli non potrebbe svolgere adeguatamente il proprio ufficio al servizio della conservazione sociale.

 

2. La tesi del primato della politica, nella sfera nazionale come in quella delle relazioni internazionali, ha trovato nella scuola storica idealistica italiana di fine Ottocento inizio Novecento forse la sua elaborazione più compiuta e coerente.

Non è certo un caso se il concetto di egemonia, che con quella tesi ha evidentemente molto a che fare, venne tematizzato in modo originale proprio da quella scuola, e lo stesso Gramsci, che quel concetto com’è noto porrà al centro di tutta la sua riflessione storica, politica e filosofica, non mancò di sottolineare i meriti dello storicismo italiano proprio in rifermento alla primazia del politico.

In realtà, la tesi qui criticata esprimeva la relativa arretratezza sociale dell’Italia e la sua debolezza sul piano della contesa internazionale fra le potenze. Soprattutto sul piano della politica estera si cercava di surrogare la mancanza di una effettiva potenza sistemica, la quale non può che avere come base materiale l’economia (e quindi la scienza e la tecnologia), con velleitarie pose politiche che si rifacevano a un machiavellismo ridotto a farsa. Paesi strutturalmente forti, come la Germania, non avevano alcun bisogno di mettere in piedi teorie che negavano un’evidenza (la potenza economica come base della potenza politica) che dava ragione alle loro ambizioni.

Tutte le volte che la leadership politica del Bel Paese ha creduto di saperla più lunga di chi al tavolo delle schermaglie diplomatiche non si mostrasse avvezzo a certe machiavelliche letture, sono stati dolori e tragedie.

 

3. Il Capitalismo del XXI secolo è un Capitalismo mondiale a tutti gli effetti, proprio come aveva prefigurato Marx già negli anni Cinquanta del XIX secolo, non sulla scorta di poteri divinatori che naturalmente era ben lungi dal possedere, ma sulla base di una concezione (di una teoria, di un metodo) che gli permise di penetrare l’intima essenza del modo di produzione che ha come suo motore la ricerca del massimo profitto. È con questa dimensione mondiale del Capitalismo che la politica è chiamata a confrontarsi, e molti che si autoproclamano “marxisti” mostrano di non aver compreso il vero significato di questa realtà quando pensano di poter mettere insieme impunemente, senza il rischio di cadere nel ridicolo, internazionalismo e sovranismo.

Parlare di primato della politica e di sovranità (economica, politica, culturale) nell’epoca della sussunzione totalitaria dell’intero pianeta al Capitale è francamente risibile, oltre che ultrareazionario sul piano politico.

 

4. L’epoca dei vertici economici internazionali con la presenza dei capi di Stato e di governo, inaugurata negli anni Settanta anche come risposta alla crisi economica che allora investì le metropoli del Capitalismo mondiale, rafforzò nella testa degli analisti superficiali l’idea, cara soprattutto agli statalisti di “destra” (fascisti) e di “sinistra” (postkeynesiani e stalinisti) del primato della politica sull’economia. In realtà si trattava del fenomeno opposto: gli interessi economici erano diventati così potenti da coinvolgere direttamente gli Stati nazionali nella competizione capitalistica internazionale per la spartizione del plusvalore, dei mercati, della forza lavoro e delle materie prime. D’altra parte, il significato essenziale del moderno Imperialismo è proprio questo: la politica è chiamata a supportare con tutti i mezzi necessari le sempre più fameliche esigenze di espansione del Capitale, sia di quello industriale come di quello finanziario – una differenza, questa, che col tempo è andata attenuandosi fino a diventare puramente formale, talmente inestricabilmente intrecciate sono diventate le due “tipologie” di capitale.

 

5. Lo Stato nazionale non fa che adattarsi sempre di nuovo alle leggi della competizione capitalistica mondiale, anche per supportare al meglio il cosiddetto interesse nazionale – che è sempre e necessariamente l’interesse delle classi dominanti o delle fazioni più forti di esse. Il sovranismo politico-ideologico, insomma, non è solo ultrareazionario, in quanto espressione dei rapporti sociali capitalistici e strumento della conservazione sociale, ma è anche chimerico, metafisico nell’accezione più negativa del termine, e questo proprio quando affetta pose di ultraconcretezza. In effetti, anche sul terreno della politica nazionale non vi è nulla di più concreto della competizione sistemica internazionale, la quale impatta sulla peculiare struttura sociale di un Paese con una violenza che i sovranisti neanche sospettano. Per questo è sbagliato analizzare i movimenti della politica nazionale (ad esempio, la lotta tra i diversi partiti) solo, o prevalentemente, dalla prospettiva nazionale.

 

6. La stessa tanto sbandierata (dai sovranisti, c’è bisogno di dirlo?) sovranità del dollaro è, in  larga e sempre crescente misura, un mito, perché anche la divisa americana, benché riserva valutaria internazionale di prima grandezza, ha sempre dovuto fare i conti con il processo capitalistico mondiale colto nel suo complesso, ossia con la concorrenza commerciale internazionale, con la divisione del lavoro internazionale, con il costo delle materie prime, con il costo del lavoro nei diversi Paesi del mondo, con la politica monetaria dei Paesi concorrenti e così via. La politica monetaria degli Stati Uniti ha cercato di difendere gli interessi del Capitale a stelle e strisce, e la funzione del dollaro in quanto strumento fondamentale dell’egemonia imperialistica del Paese, non in astratto, non con arbitrarie decisioni dettate dall’inclinazione ideologica delle diverse amministrazioni, ma sempre a partire dal processo sociale capitalistico mondiale cui facevo cenno sopra.

Scrive Richard Jones: «Asserire che la Cina presta i soldi agli Usa affinché questi le possano comprare le merci è da puri e semplici decerebrati. Intanto i capitali non vengono prestati “agli Usa” (locuzione senza senso) ma al governo americano, il quale si serve di tali denari per far fronte alle sue spese (per es. il finanziamento dell’aumento delle spese militari dopo il 2001) che non prevedono alcun acquisto presso il mercato cinese. Second, and more important, il governo americano deve a sua volta restituire i denari prestati e per soprammercato aggiungerci un interesse: ed è qui che l’ignorante vuotaggine imperante interviene a compiere il proprio trionfo: gli Usa godono del privilegio di stamparli i propri soldi cioè di crearli dal nulla! Ergo le merci cinesi (ed anche tutte le altre comprate sul mercato mondiale) sono dagli Usa pagate con il nulla. Ma se gli Usa sono dotati di questo magico potere di creare denaro dal niente perché dunque farsi prestare i soldi da altri? Perché indebitarsi così tanto, come hanno fatto negli ultimi anni? Il governo non ha il potere di creare proprio un bel niente, e di fronte a un crescente debito può solo o indebitarsi ancora di più presso chi abbia dei soldi liquidi da impiegare oppure aumentare le proprie entrate sotto forma di imposte. […] In definitiva, nonostante le diffuse credenze, la funzione svolta del dollaro (o da qualsiasi altra divisa) di standard internazionale dei prezzi e/o riserva internazionale non assicura nessun particolare vantaggio, come essere un produttore d’oro o una banca non assicura di per sé nessun particolare guadagno in più rispetto agli altri attori del teatro del business» (Richard Jones, Le parole sono più forti delle parole? Nel mondo dove vive la sinistra, sicuramente sì, PDF, 2007).

 

7. Thomas Piketty, celebre autore del Capitale nel XXI secolo ed esponente del partito keynesiano che vuol salvare il Capitalismo dalle sue stesse contraddizioni, sostiene ovviamente il primato della politica sull’economia: «Il mercato e la proprietà privata hanno certamente molti aspetti positivi, sono la fonte della ricchezza e dello sviluppo, ma non conoscono né limiti né morale. Tocca alla politica riequilibrare un sistema che rischia di rimettere in discussione i nostri valori democratici e di uguaglianza. La politica però può intervenire in maniera intelligente o distruttrice. Da questo dipende il nostro futuro». Ma nemmeno per idea: oggi come ieri il nostro futuro dipende dalla bronzea legge del profitto, il quale regola, in ultima analisi, i movimenti dei capitali, ossia la loro allocazione nella cosiddetta “economia reale” piuttosto che nella sfera della finanza, attività speculative incluse, le quali considerate dall’esclusivo punto di vista della redditività dell’investimento (qui genericamente inteso) non hanno nulla di patologico, ma al contrario si armonizzano perfettamente con la fisiologia di questo regime sociale. Viceversa, se considerate dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica, le attività speculative sono il sintomo più evidente della sofferenza cui periodicamente va incontro appunto il processo capitalistico di accumulazione, la cui salute (misurata dal saggio di crescita dell’accumulazione) dipende in ultima analisi dal livello del saggio del profitto. E su questo fondamentale punto qui occorre fermarsi, per non andare troppo fuori tema.

 

8. L’interventismo statale di vecchia concezione, che prese corpo nei paesi capitalisticamente avanzati per rispondere alla Grande Crisi degli anni Trenta e che in alcuni momenti fu spinto fino alle soglie del “puro” Capitalismo di Stato, ebbe il significato di un maggior controllo esercitato dal Capitale sul suo Stato, usato per conservare o ripristinare le condizione della redditività degli investimenti e, com’è ovvio, per difendere ed espandere il dominio del rapporto sociale capitalistico.

 

9. Sbaglierebbe di grosso chi da quanto detto sopra deducesse la tesi di un’assoluta negazione di qualsivoglia grado di autonomia della politica rispetto all’economia, che invece esiste e che si dà nelle forme e nei modi che dipendono da circostanze d’ordine nazionale e internazionale che bisogna sempre evitare di sottovalutare. Sono lungi dal negare tutto questo.

È indubbio, ad esempio, che in tempi di grave crisi economica o di alta tensione interimperialistica quel grado di autonomia tende ad espandersi, toccando il picco nei periodi bellici, quando lo Stato è chiamato ad esercitare la più ferrea dittatura su ogni aspetto della prassi sociale. Ma anche in questo caso la potenza del Capitale appare alla fine il momento di gran lunga dominante, perché il successo bellico di una nazione è sempre più dipendente dalla forza della sua organizzazione economica, come è stato ampiamente dimostrato nelle due guerre mondiali “convenzionali” del XX secolo e dalla guerra “non convenzionale” passata alla storia come Guerra Fredda.

Detto in altri termini, la relativa autonomia del politico, che si apprezza soprattutto nella sfera delle relazioni internazionali fra gli Stati, si dà sempre all’interno di una prassi sociale sempre più dominata dagli interessi economici. Trovare, servendosi di una concezione non economicista e non determinista del processo sociale, i complessi nessi che legano gli interessi economici di classi e strati sociali alla prassi politico-istituzionale di un Paese: questo è il difficile compito che sta dinanzi a chi si sforza di comprende la società-mondo nella sua totalità, nella sua dinamicità e nella complessa dialettica delle sue parti.

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