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il rasoio di occam

Su “Menti Tribali” di Jonathan Haidt

di Alessandro Del Ponte

Come si conquistano i voti di milioni di persone in sei mosse? “Menti Tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione” di Jonathan Haidt (Edizioni Codice) racchiude le istruzioni fondamentali per l’aspirante politico di successo, esaltando il ruolo del ragionamento morale impulsivo, alla base dei nostri giudizi morali e delle nostre scelte in cabina elettorale

cariddi2Immaginate di essere al ristorante della politica. No, non la buvette del Senato. Si tratta di un posto molto particolare. Non c’è la solita scelta: italiano, francese, cinese, indiano, turco o fusion. Qui si sceglie il partito cui dare fiducia. Se per i cittadini americani il buffet è piuttosto ristretto – democratico o repubblicano? – gli italiani hanno il loro bel daffare nel districarsi tra le scelte culinarie. Da Sinistra a Destra, transitando per la miriade di onorevoli partitini di centro (”Ma cos’è la Destra… Cos’è la Sinistra…” diceva Gaber), il menu è davvero ricco. Come districarsi nella scelta? O meglio, ribaltando la prospettiva: come aggiudicarsi il maggior numero di ghiottoni?

Jonathan Haidt, Professore di Psicologia Morale e Ethical Business alla New York University, ha elaborato il manuale del perfetto politico di successo.

The Righteous Mind: Why Good People Are Divided by Politics and Religion (Pantheon Books: New York, 2012), pubblicato in Italia sotto il titolo di Menti Tribali: Perché le brave persone si dividono su politica e religione (Edizioni Codice: Torino, 2013) è una lettura impegnativa, capace di soddisfare un pubblico avido di stimoli intellettuali. In poco più di 400 pagine dense di citazioni accademiche, l’autore spiega perché le persone sono spesso portate a dividersi su argomenti politici e religiosi, arrivando a difendere a ogni costo posizioni irrinunciabili. Pur non avendo dimensioni e linguaggio da Bignami, Menti Tribali, antesignano del più recente Tribù morali di Joshua Greene, può fare la differenza nel lavoro di un campaign manager, svelando i trucchi necessari per trasformare i presupposti di un flop colossale in un clamoroso successo.

 

 
 
De gustibus non disputandum est

Secondo Haidt, il successo politico nasce da lontano. Scaturisce dalla capacità di fare appello ai sentimenti delle persone, al loro intuito morale. Consiste nella comprensione della psicologia morale degli elettori. Psicologia che, come in tutti gli esseri umani, si reggerebbe sulla predominanza delle passioni impulsive sulla fredda razionalità. I lettori ricorderanno l’amara riflessione di Medea, nelle Metamorfosi di Ovidio: “Ma un impulso inaudito mio malgrado mi trascina; la passione mi consiglia una cosa, la mente un’altra. Vedo il bene, l’approvo, e seguo il male”. Le intuizioni precedono il ragionamento strategico. Questo il mantra dell’autore lungo l’intero libro, che sfida la saggezza convenzionale. Facendosi forte di numerosi esperimenti e studi accademici, Haidt sconfessa, uno dopo l’altro, i razionalisti, partendo da Platone, passando per Immanuel Kant, Thomas Jefferson e, infine, lo psicologo Lawrence Kohlberg.

In altri termini, la morale sarebbe questione di pancia, per poi assurgere a costruzione più o meno filosofica, dopo una serie di giustificazioni post-hoc, che tendono ad assecondare la prima impressione. Una volta scelto il proprio piatto preferito e individuato (intuitivamente) ciò che ci disgusta, la nostra dieta morale (e politica) appare alquanto monotona. Cambiare appetiti morali sarebbe un compito arduo: ciò potrebbe avvenire tramite riflessione personale o, meno raramente, tramite l’azione di convincimento altrui, in forma evidente o subliminale. Al ristorante della moralità, passare dalla raclette ad un’amatriciana non è così scontato. Anche far cambiare idea, pertanto, è un’impresa che può riuscire soltanto toccando i tasti giusti.
 
 
I sei recettori morali
 
Secondo Haidt, la politica funzionerebbe allo stesso modo. Durante gli anni di insegnamento all’Università della Pennsylvania, in collaborazione con il collega Brian Nosek e il dottorando Jesse Graham, l’autore ha messo a punto un quiz (il Moral Foundations Questionnaire, o MFQ, rinvenibile all’indirizzo ProjectImplicit.org),  che permette di scoprire a quali aspetti della moralità siamo più attenti. L’imponente mole di dati raccolta ha condotto all’individuazione di sei fondamenta della moralità, distinguibili come sei coppie antinomiche: 1) Cura / Danno; 2) Equità / Imbroglio; 3) Lealtà / Tradimento; 4) Autorità / Sovversione; 5) Santità / Degradazione; 6) Libertà / Oppressione. Benché gli esseri umani siano sensibili a ciascuna antinomia, alcuni si rivelano particolarmente sensibili solo a un ristretto numero di esse, mentre altri dispongono di un palato morale più vario. Curiosamente, i risultati del MFQ hanno mostrato come, negli Stati Uniti d’America, la sensibilità di Repubblicani e Democratici ai vari “gusti” della moralità differiscano significativamente. Da un lato, i Repubblicani attribuiscono approssimativamente eguale importanza a tutte e cinque le fondamenta; in termini di “dieta morale”, si potrebbe affermare che quella repubblicana è varia ed equilibrata. Che cosa succede dalla parte opposta dello spettro politico? I Dem sono decisamente attenti alla Cura per gli altri (”Care”), all’Equità (”Fairness”) e alla Libertà, molto meno a Lealtà, Autorità e Santità (intesa nel senso latino del termine, quindi come intoccabilità e come pudicizia). Conviene offrire sul menù sempre gli stessi piatti? Secondo Haidt, la risposta è negativa. La monomania morale si paga cara. Soprattutto quando di mezzo c’è la politica.
 
 
Benvenuti al ristorante della politica (come i cittadini eleggono i loro rappresentanti)

Come si scelgono i politici? Se i modelli economici che presuppongono l’esistenza dell’homo oeconomicus postulano complessi processi di calcolo costi-benefici che ogni elettore compierebbe prima di prendere una decisione di voto, la realtà descritta da Haidt è ben diversa. Secondo l’autore, i cittadini scelgono i politici non sulla base del programma economico che li favorisce di più, né secondo una scelta ideologica ben delineata, bensì seguendo la matrice morale che meglio si addice loro. In altri termini, prevale il candidato capace di titillare al meglio le papille gustative morali degli elettori nel modo più variegato e incisivo al tempo stesso. Dalle ricerche di Haidt emerge che i Repubblicani sono stati in grado, negli ultimi anni, di servire all’elettorato piatti piuttosto variati. Per dirla con Gaber:

l’amor di patria/è repubblicano/

l’attenzione verso i poveri e gli ultimi/ è democratica/

la fede in Dio/è repubblicana/

la lotta per i diritti dei gay/è democratica/

la difesa nazionale/è repubblicana/

alzare le tasse ai ricchi/è democratico/

il sogno americano/è repubblicano/

la sanità pubblica/è democratica/

onore al merito/è repubblicano/

il salario minimo/è democratico/

i valori occidentali/sono repubblicani/

contraccezione e aborto/sono democratici/

United We Stand, E Pluribus Unum/ è repubblicano.

Secondo Haidt, le difficoltà incontrate dai Democratici negli Stati Uniti durante l’era Bush jr. sono dovute all’incapacità di catturare l’attenzione dei lettori facendo appello alle sei fondamenta morali: battendosi spesso per la medesima categoria di battaglie – diritti civili e lotta alle diseguaglianze -, si è dimenticato di presidiare le altre aree, che restano appannaggio dei rivali. L’avvento di Obama sarebbe coinciso con la ritrovata sensibilità verso temi cari ai Repubblicani nel recente passato; quella del primo Presidente afroamericano sarebbe la dimostrazione che si può essere Democratici e Liberali senza scivolare nel relativismo valoriale, che ben pochi risultati ha portato a livello elettorale.

A proposito: noi italiani ne sappiamo qualcosa. Negli ultimi anni, il responso delle urne non è mai stato particolarmente tenero nei confronti dei partiti che hanno concentrato i propri sforzi nel portare avanti singole cause, omettendo di trasmettere agli elettori una visione del mondo e valori olistici. Si pensi a tematiche come la Green Economy, la concorrenza, il problema dei clandestini: per quanto cause più o meno nobili, esse sono riconducibili soltanto ad una o due fondamenta morali. I partiti che puntano tutto su un obiettivo – o su temi differenti, ma ascrivibili alla stessa fondamenta – difficilmente potranno superare certe soglie di consenso. Solo chi si impegna con i cittadini per battaglie che stimolano tutti e sei i recettori morali può aspirare ad ottenere i numeri per governare il Paese.

La lezione di Obama, negli Stati Uniti, pare non essere stata compresa fino in fondo dalla maggior parte dell’establishment europeo, che tende a subire passivamente l’ondata di populismo e malcontento che serpeggia tra i cittadini-elettori. Il risentimento, oltre che essere legato a ragioni meramente economiche o materiali, che pure sono drammatiche, appare legato alla rottura definitiva del rapporto fiduciario tra cittadini e politica tradizionale, basato su una matrice morale prima ancora che economica. Da qui il favore riscosso da chi cavalca l’onda del populismo: leader di una rivolta morale, propugnatori di risposte altisonanti sulla carta e avide di rivalsa moralizzatrice (moralistic punishment), ma scevre di consistenza pratica (la pars construens, ossia la proposta di cooperazione verso la ricostruzione di un patrimonio pubblico fisico e morale).

Chi pare invece aver imboccato una strada diversa è il premier italiano, Matteo Renzi. Obamiano più nei modi che nei contenuti, pur non conoscendo forse le sei fondazioni morali, sembra toccare tutte le corde giuste: dai famosi 80 Euro per determinati ceti meno abbienti, ricollegabili alle fondamenta legate a equità e cura per gli altri, ai costanti richiami all’unità europea e all’orgoglio nazionale (Lealtà), alla lotta alla burocrazia opprimente (Libertà), passando per la rottamazione (Autorità/Sovversione) e, infine, per i riferimenti al Santo Padre e ai valori occidentali (Santità), questi ultimi emersi, in particolare, nel recente discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo. In termini di Haidt, ci sono tutti gli ingredienti per accattivare gli elettori di matrice morale cattolica e “moderata”. Stimolare l’attivazione dei sei recettori morali permette di catturare il numero di elettori più ampio possibile, nell’ambito del pubblico target (cioè di quello che si riconosce nella matrice morale di riferimento).
 
 
Lo spirito di gruppo in azione

Un ulteriore punto sollevato da Haidt è quello della naturale tendenza dell’uomo a formare un gruppo, e a sentirsi parte integrante della compagine a tal punto da sublimare il proprio io in quello della nuova unità, più grande, e costituita da atomi collegati tra loro da un vincolo improvvisamente indissolubile. Tale spirito di gruppo – un celebre esempio del quale è la falange oplitica – è l’ingrediente chiave per permettere la cooperazione tra esseri umani, e sarebbe una delle variabili fondamentali che hanno permesso all’uomo di distinguersi tra gli altri mammiferi e avere il sopravvento nella competizione evoluzionistica. Il meccanismo dietro a tale miracolo quotidiano è più potente di quanto si possa immaginare: a livello neurale, osservare una persona sorridere attiva le stesse popolazioni di neuroni come accade quando lo stiamo facendo noi. Si parla, in questo caso, di neuroni “a specchio”, i neuroni dell’empatia. Di converso, proviamo un’emozione negativa (e un’attivazione neurale corrispondente) quando vediamo una persona che coopera e fa del bene agli altri subire una punizione. L’empatia al potere: non stupisce che i film strappalacrime abbiano tanto successo.  Il processo empatico, tuttavia, non è incondizionato: si attiva adeguatamente solo se chi ci sta davanti ha aderito alla nostra matrice morale. Quando ai nostri nemici succedono le cose più orribili, il disgusto e la commozione per l’atroce fine che hanno fatto è mitigato (e, spesso, superato) dalla soddisfazione per aver assistito alla vittoria del nostro team, con cui condividiamo la stessa matrice morale.

Lo spirito di gruppo, quindi, come strumento necessario alla cooperazione infragruppo e alla competizione intergruppo, come sostiene il filosofo harvardiano Joshua Greene.  Il gruppo, oltre a stimolare la cooperazione per rendere possibili obiettivi impensabili per il singolo, fungerebbe anche da controllore morale, che spingerebbe il singolo ad un comportamento consono alle regole di buona convivenza e lo spronerebbe a dare il massimo delle sue possibilità. Secondo Haidt, un ipotetico individuo che portasse al dito il mitico anello di Gige, l’anello che dona l’invisibilità, non esiterebbe ad avvantaggiarsene a fini egoistici, perpetrando i peggiori misfatti, con il suo Io pronto a giustificare creativamente la sua condotta antisociale, che resterebbe certamente impunita. Se è vero che l’anello di Gige non esiste, è altrettanto reale la presenza di situazioni in cui il singolo è privo di alcun controllo esterno. Come rimediare? Secondo Haidt, il ruolo della religione consisterebbe proprio nel fornire un antidoto all’“invisibilità” morale. La minaccia secondo cui “Dio ti vede” costituirebbe un deterrente positivo; l’accento dei Repubblicani sul ruolo della religione in politica andrebbe, pertanto, accolto con favore.

L’autore propone dei metodi concreti per rinvigorire lo spirito di gruppo, così potente non solo in campo elettorale, ma in tutte le imprese umane. Spicca, tra le altre, la prescrizione di sottolineare le somiglianze, invece che le differenze: aumenta la fiducia reciproca e fa sentire parte integrante di un’unità. E’ un duro attacco alla saggezza convenzionale degli ultimi anni, secondo cui esaltando le diversità e spingendo sempre più verso una società multiculturale si creerebbe una società più pacifica e ricca di comprensione reciproca.
 
 
Il modello intuizionista è davvero quello giusto?

Fin qui l’impostazione di Haidt che convince, e appare particolarmente utile nel valutare la comunicazione politica. Purtroppo, non si può affermare lo stesso per altri punti importanti sollevati dall’autore, che formula un’aspra critica all’utilitarismo e ai suoi padri fondatori. Strenuo paladino dell’intuizionismo, Haidt cade nella trappola di portare tale impostazione fino alle estreme conseguenze, bollando come “illusi” i razionalisti e giungendo persino ad affermare che pensatori illustri come Immanuel Kant e Jeremy Bentham altro non fossero che casi clinici, affetti, probabilmente, dalla sindrome di Asperger, una forma lieve di autismo. Le teorie risultanti dal lavoro di due personaggi (pur blandamente) malati di mente sarebbero di conseguenza altrettanto imperfette. Per quanto il (pesante) gioco retorico possa compiacere il lettore più avvezzo a facili sarcasmi, non risulta difficile ritenere che tale passaggio costituisca un piccolo vulnus in un’opera altrimenti ammirevole per erudizione scientifica e padronanza della materia psicologica trattata.

La diatriba tra intuizionisti e razionalisti pare il risultato di una questione mal posta: non si tratta di stabilire se comandi la testa o il cuore, l’amigdala o la corteccia prefrontale; il punto, invece, sta nel tentare di comprendere quali siano i meccanismi che fanno prevalere l’una sull’altra, con quale intensità e con quali limiti. L’approccio intuizionista radicale ha dei chiari limiti: non è vero che è sempre l’intuizione e la passione a guidare l’uomo; l’esercizio di pensare a situazioni – concernenti decisioni morali e non- in cui la ragione prevale sui sentimenti risulta immediato. Se è vero, infatti, che la risposta intuitiva è – per definizione, e per dimostrazione di studi neuro-scientifici – la prima ad arrivare, è altrettanto corretto sottolineare come spesso la ragione abbia il sopravvento.

Si può chiudere con una metafora, cara all’autore per spiegare la sua teoria.

Un poderoso elefante si aggira nella giungla. Possente e maestoso, le sue orme si imprimono con cadenza regolare sul terreno polveroso. Le grandi orecchie sono pronte a percepire ogni minimo sussulto; gli occhi scrutano l’afoso paesaggio in cerca di cibo; la lunga proboscide è pronta ad annusare i cibi più prelibati, e ad afferrarli con lestezza: l’enorme bocca non vede l’ora di essere riempita, sempre in attesa di nutrimento che possa titillare le numerose papille gustative.

L’elefante va dove lo portano i suoi sensi: vede un frutto succulento pendere dal ramo di un alto albero; e subito l’animale si dirige verso il pomo agognato. Un ruscello scorre placido poco più in là; un’opportunità che il nostro non si lascia certo sfuggire. Finalmente, una radura.  All’improvviso, un dettaglio si rivela alla vista: il pachiderma è sormontato da un conducente, minuscolo a confronto della smisurata bestia. Secondo Haidt, è lui a servire la bestia, a guidarne gli istinti, spesso senza opporvisi, ma, anzi, cercando di giustificarli con la ragione. Ben lungi da voler cadere nell’illusione razionalista, sorge il dubbio che la verità possa stare nel mezzo.

Lo stile di vita dell’ultimo decennio, dominato dall’avvento dei social media e della comunicazione (commerciale e politica) istantanea, ha strizzato un occhio alla nostra parte istintiva, mettendo in risalto sempre più le passioni immediate, momentanee e lasciando sullo sfondo il ruolo fondamentale del pensiero lento. Tribù morali di Haidt sembra un inno all’istantaneità formulato da psicologi. E’ giunto il momento, forse, di riequilibrare l’analisi, anche in politica, e di salvaguardare gli spazi dedicati alla pianificazione e agli investimenti di lungo periodo, sfuggendo al vorticoso succedersi di cinguettii dell’era di Twitter.

NOTE
[1] Si veda, ad esempio, il Teorema dell’elettore mediano, di Duncan Black (1948) e Anthony Downs (1957)
[2] “E Pluribus Unum”, “da molti, uno soltanto”. La locuzione si riferisce all’unificazione delle tredici colonie che formarono il primo nucleo degli Stati Uniti d’America.
[3] Joshua Greene (2013), Moral Tribes: Emotion, Reason, and the Gap Between Us and Them, Penguin Books.
Alessandro Del Ponte è membro della National Honor Society for Public Affairs and Administration Pi Alpha Alpha.
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