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La demagogia, le sue forme

S. Cingari intervista Luciano Canfora

Proponiamo qui un’intervista raccolta nel 1994 da Salvatore Cingari presso la Scuola Superiore di Studi storici dell’Università di San Marino dove il Prof. Canfora ha tenuto un ciclo di lezioni su La democrazia in Occidente: il concetto e la cosa. Ci pare oggi rilevante rimarcare, a diciassette anni di distanza, l’assoluta, precisa scansione di alcuni passaggi, confermati d’altronde dalle cose, appunto, e dagli eventi. 

8.luciano canfora500Nel suo saggio su La democrazia come violenza (commento dello pseudo-senofonteo Atenaion politeia, Palermo, Sellerio, 1988), lei ricorda come Aristotele, nella Politica, abbia sottolineato che la definizione di democrazia non è inclusa nell’idea del “maggior numero”, perché se “i più” fossero i “ricchi”, nessuno definirebbe democratico quel regime, così come nessuno definirebbe oligarchico quell’altro regime in cui la minoranza dei “poveri” detenesse il potere all’interno di una società composta in prevalenza da benestanti. Ciò sembra confortare la sua critica nei confronti delle democrazie contemporanee in cui i tre quarti dei cittadini vivono nel benessere e costituiscono una maggioranza governante a scapito di una minoranza di persone socialmente disagiate (cfr. anche i suoi ultimi interventi sul Corriere della sera del 17 Maggio e del 1 Giugno: E per un piccolo scarto di voti Socrate bevve la cicuta e Ma in democrazia lo spartiacque è tra povertà e ricchezza). Riflettendo su queste sue posizioni mi era in un primo momento sembrato che per lei “democrazia” significasse governo “dei”ceti svantaggiati o “per” tali ceti, anche se essi ceti fossero la minoranza del paese (con eventuale evocazione della dittatura giacobina o bolscevica); in un secondo tempo ho pensato invece che forse la sua idea di democrazia è questa: un regime che non esercita il potere grazie alla ricchezza. Insomma, professore, cos’è, per lei, “democrazia”?

Una volta mi è accaduto di formulare una definizione della democrazia in un seminario dell’ Istituto Gramsci, non moltissimi anni fa. Sono tuttora legato a quella definizione: la democrazia come uno stato provvisorio instabile, che si dà, cioé, in alcuni momenti, ma, nelle medesime forme esteriori giuridiche, non si dà più in altri momenti.

Essa è il frutto dell’equilibrio delle forze sociali: non è una forma semplicemente giuridico-istituzionale o elettorale. Mi interessa sottolineare questo elemento di provvisorietà. Nella nostra storia repubblicana ci sono stati momenti di democrazia. Momenti, cioé, in cui si è realizzato il kratos del demos e momenti, invece, in cui, nel medesimo quadro formale, c’è un arretramento, addirittura un estinguersi della democrazia, a causa di determinati rapporti di forze, di incertezze nei programmi, di impasse psicologiche, etc.

 

Dunque, democrazia come “kratos” del “demos”. In questi giorni, infatti, lei sta sottolineando il problema della tutela della “minoranza” socialmente svantaggiata. Questo tema si lega alla sua scesa in campo contro il sistema elettorale maggioritario. Nel suo recente articolo Viva la libertà (Micromega n. 2/94 Maggio-Giugno), scrittoall’indomani del successo elettorale del Polo delle destre, lei compie un’analisi della situazione politica attuale a partire dalla critica del sistema maggioritario. Lei sostiene che questo meccanismo toglie la rappresentanza al quarto della società che non gode sufficientemente del benessere diffuso. A suo avviso, del resto, col proporzionale “sbarrato” al 4% avremmo avuto lo stesso numero di forze politiche in parlamento. Inoltre – lei ha scritto – il maggioritario seleziona un personale politico tendente, da un lato, ad essere di alto censo e, in secondo luogo, ad “eternarsi” per più legislature nei collegi (un “giolittismo senza Giolitti”). L’esito antidemocratico del maggioritario sarebbe testimoniato dall’alto numero di persone che in U.S.A. non si recano alle urne(più del doppio dei votanti), dall’ascesa dell’astensionismo in Italia e, infine, dal fatto che nel nostro paese una maggioranza di centro-sinistra è governata da una minoranza di destra (N.B. l’intervista risale a pochi giorni prima delle elezioni europee di Giugno). Chi ha votato “sì” al Referendum sul sistema elettorale le ricorderebbe, a questo punto, che (a) il maggioritario aveva anche il senso di danneggiare irreversibilmente gli apparati di quei partiti che, avendo ormai perso il ruolo di strumenti di partecipazione e propulsione politica, erano diventati dei corpi separati dalla società civile (b) la parte della sinistra che ha appoggiato il maggioritario era, in genere, a favore del “doppio turno”, che avrebbe considerevolmente attenuato il rischio (che oggi è realtà) di una minoranza politica che governa una maggioranza ad essa avversa. Cosa risponde a queste possibili obiezioni?

Dire che l’abrogazione del proporzionale avesse la finalità di colpire i partiti corrotti che, negli anni scorsi, occupavano lo spazio politico, è uno sbaglio; è, certo, una formulazione che ha avuto successo – tanto è vero che il novanta per cento degli italiani ha risposto positivamente al referendum, convinto di colpire e di punire le forze politiche colpevoli del disastro del paese -; palesemente, però, ciò non ha alcun fondamento logico, nè fattuale, dal momento che il sistema proporzionale è una scatola dentro cui si può mettere qualunque contenuto (l’esito che i voti elettorali danno). Il sofisma secondo cui quel sistema garantiva i vecchi gruppi di potere è passato. La potenza del mezzo televisivo – ma anche il resto dell’apparato dell’informazione – si dimostra anche in questa occasione: un ragionamento totalmente privo di fondamento è diventato senso comune, addirittura a danno di quelle forze politiche che non si univano al coro delle critiche al proporzionale e che erano agli antipodi: Rifondazione comunista e Movimento sociale. Nessuno può sospettare che ci fosse un’intesa fra i due partiti, o che in qualche punto coincidessero i loro fini. E tuttavia questi due partiti si sono trovati ad ottenere meno consensi nella loro posizione rispetto alla loro consistenza elettorale (e ciò si può dire serenamente se la forza del MSI è quella che si è espressa alle ultime consultazioni). Quello che forse utopisticamente ho sempre ripetuto è questo: che se le centrali dei partiti maggiori, i quali avevano motivo per la loro cultura, oltre che per la loro politica, di nutrire perplessità verso il salto maggioritario (mi riferisco alla sinistra storica e alla democrazia cristiana) avessero apertamente rivolto all’area di consenso che li circonda un appello alla difesa del sistema proporzionale, chiarendo che esso è altra cosa rispetto ai meccanismi di degenerazione della politica che sono connessi al rapporto col denaro, cioé al fatto che si compra il voto, il consenso, l’elezione costa sempre di più etc. Se avessero chiarito questo punto, un orientamento assai vasto si sarebbe manifestato a difesa di questo “palladio della democrazia” (come io tendo a chiamarlo). E non mancavano dentro queste due forze dei segni di consapevolezza. Tra l’altro non è inutile ricordare che storicamente è il Partito Popolare – nella persona di Sturzo – e il Partito Socialista – nella persona di Turati – l’asse che per la prima volta ha lottato con successo per il proporzionale, per la forma più rispettosa della volontà popolare fra i modelli esistenti (lasciando impregiudicata la questione degli sbarrammenti, dei corretivi per evitare la dispersione sulle cifre minime etc.). Quindi non possiamo semplicemente dire che l’opinione pubblica “andava verso il maggioritario.

È vero, invece, che c’è stata una serie di errori di valutazione. Cerco di dire quali: per esempio da parte del gruppo dirigente del PDS si è manifestato il convincimento erroneo – che per esempio in alcuni di loro, Occhetto in primis, era molto forte – di avere in pugno la vittoria. Il ragionamento era questo: i partiti tradizionalmente avversi sono allo sbando, dunque questo spazio finalmente è nostro e col sistema maggioritario tradurremo la maggioranza relativa in assoluta. Questo ragionamento era nella testa dei dirigenti del PDS. Per parte loro i democristiani – che sono molto più divisi su questo punto – hanno messo la sordina alla posizione di Andreotti. Andreotti subito disse: “il referendum per il maggioritario è illegale”. E tirò fuori la faccenda di come era andata la stesura dell’articolo 75 della Costituzione. Questo articolo, nella stesura approvata dalla Costituente, inseriva anche la materia elettorale tra quelle che non possono essere oggetto di referendum.

Tutto ciò è stato narrato con estrema precisione da uno studioso (Salamone) sulla rivista della camera dei deputati Bibliotheca. All’articolo di Salamone seguì un dibattito (subito spento) in cui si constatava che, in effetti, si trattò di un colpo di mano di Meuccio Ruini, il quale, quando portò in lettura l’articolo 75 (in cui si stabiliscono le materie non sottoponibili a referendum), lo fece passare senza nuova votazione come non emendato, e però lo trascrisse senza la parola “elettorale”. Fu insomma cancellato di soppiatto l’emendamento proposto dalla celebre deputatessa comunista Rossi, volto a sottrarre la materia elettorale da quelle sottoponibili a referendum. Tale emendamento era stato ritenuto necessario dal momento che era stato appena varato faticosamente dalla Costituente – che era anche Parlamento – la normativa secondo cui si ripristinava il proporzionale, perché i progressisti dell’epoca e le parti più avanzate della DC si erano convinti che si trattasse del sistema più democratico. La Rossi e gli altri costituenti che le diedero ragione, ritennero che quell’emendamento fosse un prudente provvedimento volto a impedire che un domani si potesse cambiare il sistema elettorale con un referendum. Il referendum è un meccanismo ambiguo, rispecchia la volontà popolare in quel preciso momento. Esso può essere il correttivo di una delega quinquennale ai parlamentari, oppure un modo di fotografare la volontà e gli umori delle persone in modo – come dire – “puntuale”. Infatti, come strumento essenzialmente abrogativo va benissimo: ma come “contropotere” rispetto al parlamento crea ovviamente dei problemi.

Sta di fatto che anche la DC ha fatto un calcolo errato. Considerando di essere sempre stata maggioranza relativa, la DC finì per reputare paradossale il sottrarsi alla possibilità di vedere tale maggioranza tramutarsi in maggioranza assoluta. E così ci siamo trovati di fronte ad un risultato sgomentante: un 90% di voti di fronte a cui ogni voce contraria rischia di apparire donchisciottesca. In realtà noi sappiamo bene che quello è stato un voto “emotivo”, prodotto da una semplificazione indebita che equiparava meccanismo elettorale a corruzione, profittando del fatto che non c’è stata forza sufficiente attraverso i mezzi di comunicazione per spiegare che se c’è un meccanismo elettorale tipicamente connesso alla corruzione è quello maggioritario; e non solo storicamente, ma proprio “per natura”, per il fatto stesso che – come spiega De Rita in un saggio del CENSIS -, nei piccoli collegi è molto più facile raggiungere l’elettore instaurando un rapporto di do ut des, per giunta con la facies di non essere l’uomo di un partito. L’uninominale, infatti, consente al candidato di presentarsi come personalità preferibile, da votare anche se non si preferisce il partito di riferimento. Si determina così l’illusione di votare la “persona” e non il “partito” – cosa che tanti qualunquisti hanno sempre ritenuto buona – ma si produce anche il fenomeno per cui, se la formazione politica alla quale faccio riferimento – ad esempio come forza di governo – non rispetta le promesse fatte, non è il singolo deputato che viene considerato responsabile di ciò. Si tratta, insomma, di un meccanismo micidiale.

 

Ma come spiega, allora, che il cosiddetto “C.A.F.” ha contrastato unanimemente il sistema maggioritario?

No, attenzione, questo non è vero. Una constatazione che non si è fatta – ad esempio nei media – è che appena un anno prima del referendum sul maggioritario la “volontà popolare” – per usare questo termine – si era espressa per la preferenza unica all’interno del proporzionale. Quindi noi ci troviamo due espressioni di volontà popolare nettamente orientate in versi differenti, una in pro del proporzionale a preferenza unica e l’altra in pro del referendum di Segni. Il che fa un po’ girare la testa. Aggiungiamo poi che quando si votò, non lo si faceva per un principio contro un altro principio (anche perché il referendum non può essere propositivo). Ma si votava per dire sì alle proposte Segni-Giannini di ritocco della legge elettorale del Senato. Il PDS ha fatto il grave errore di continuare a invocare il “doppio turno” e al tempo stesso invitare a votare “sì” per una proposta di ritocchi alla legge esistente che rendeva automaticamente la legge del senato maggioritaria a turno unico, ritocchi che la trasformavano da uninominale maggioritaria in uninominale maggioritaria “secca”. Insomma, Zeus accecca chi vuol mandare in rovina!

 

Nello stesso saggio che citavo prima, lei afferma che un corretto critico del sistema maggioritario, avrebbe mosso le stesse critiche anche in caso di vittoria della sinistra. E tuttavia, a mio avviso, la validità di tale meccanismo ritorna in discussione anche in considerazione del nuovo quadro politico. Allorché, infatti, si promuoveva il sistema maggioritario, si pensava ch’esso dovesse funzionare per un campo di forze comprese nell’arco costituzionale, con una sinistra opposta ad una destra, appunto, costituzionale. Nessuno pensava all’entrata in gioco dei fascisti (e di chi con loro è disposto a lavorare) o di Forza Italia, soggetto politico non democratico in quanto “videocratico”……

Si, è vero, Forza Italia non è democratica in senso stretto, come Zagrebelsky ha fatto notare di recente a Milano, Italia: non vi è nessuna base che – sia pure con condizionamenti – esprime un vertice di partito; è l’esatto contrario: è un vertice che ha nominato una base (i famosi club). E’ un organizzazione di tipo aziendale. Del resto lo notava anche Sergio Romano (giocandosi il posto di ministro degli esteri che forse era stato ventilato per lui): non si può trasferire nell’ambito delle forze politiche la struttura dell’azienda. Questa è una delle operazioni più antidemocratiche che si possano compiere. Romano diceva il vero. Del resto – lo sottolineava Zagrebelsky – la nostra Costituzione promuove la libertà di associazione di tutte le forze politiche possibili ed immaginabili purchè strutturate democraticamente, altrimenti essa finirebbe con l’invogliare all’associazione politica organizzazioni pericolosissime come quelle di tipo antidemocratico, in cui c’è una monocrazia di vertice che dispone di una base; sono, come soggetti politici, dei palesi anticorpi all’interno della democrazia: e Forza Italia, almeno attualmente, è questo. In futuro si vedrà.

Quanto alla questione da lei sollevata nella domanda, circa il fatto che non si pensava al ritorno in gioco di forze di destra tendenzialmente anticostituzionali, rispondo che i politici che ragionano sulla base di considerazioni miopi sono destinati all’insuccesso; che incombesse una ripresa di forze che – come scrisse il buon Martinazzoli – non sono più sensibili al pudore verso il MSI, era nell’aria; era chiaro che prima o poi qualcuno, in linea con gli intendimenti di una parte della DC per tutto il corso della prima Repubblica, si sarebbe chiesto perché lasciare inutilizzata una forza politica da sempre pronta a sostenere il sistema. Quante volte il MSI ha sorretto la DC sul piano parlamentare! Si parla sempre – con termine sbagliato – del consociativismo della sinistra, ma quello vero, quello offerto sottobanco per ragioni tutt’altro che nobili, è quello che il MSI ha assicurato ininterrottamente alla DC, rendendola praticamente invulnerabile a qualunque crisi, a qualunque disagio, a qualunque momento di impasse. A eventuali brucianti scacchi elettorali suppliva questo esercito di riserva a cui attingere in modo più o meno occulto nella vita parlamentare, e a garantirsi la governabilità: questo è il vero consociativismo nella storia della prima repubblica! In questo modo è stato eletto anche un Presidente della repubblica, cioé Leone……

 

In un suo saggio (Le tre guerre della resistenza italiana, in Delle guerre civili, Manifesto libri, 1993) in conclusione lei evoca l’immagine – a mio avviso fondata – di un’ Italia teatro di una guerra civile strisciante, che va dal fascismo a Scelba, dall’autunno caldo alla strategia della tensione. Il coacervo delle diverse destre che si sono coagulate in Forza Italia e intorno a Forza Italia, è l’ultimo anello di questa catena – diciamo così – “reazionaria”?

Direi che – sebbene possiamo anche, in futuro, essere smentiti dai fatti – ci troviamo di fronte per la prima volta, dal fascismo in poi, una forza che è, contemporaneamente, smaccatamente conservatrice (al di là della retorica del “nuovo”, del “centro” o della “liberal-democrazia”, tutte parole usate ormai senza alcun rapporto con il loro significato), svincolata da qualunque controllo democratico, e che impone la propria presenza e conquista il consenso con un uso palesemente arbitrario, illegale, distorto, di quelli che oggi sono gli strumenti della conquista del consenso, cioé i grandi strumenti di comunicazione di massa. Se Brecht non aveva torto nel dire – con frase fulminante del suo diario – che se ci sarà un fascismo americano, sarà un “fascismo democratico” -, forse ci siamo in qualche misura arrivati, perché i rituali elettorali non ci saranno conculcati; si svolgeranno in condizioni sempre più disagevoli per chi non è d’accordo, ma non gli sarà tolta la soddisfazione. Anzi. E’ una valvola necessaria. Per questo, in fondo, ho scritto Demagogia (vedi il seguito dell’intervista. N.d.c.), sul tema “attraverso che cosa passa la demagogia oggi”. Passa attraverso veicoli che sono apparentemente neutrali. Quindi, le forme di contrapposizione e conflitto da lei elencate nella domanda (scelbismo, strategia della tensione etc.) erano in certa misura primitive, le abbiamo ormai alle spalle: oso dire che la tematica della strategia della tensione è più un problema retrospettivo di giustizia non fatta che un problema inerente al conflitto odierno. Abbiamo fatto un passo enorme nella trasformazione autoritaria dell’Occidente senza neanche accorgercene. Questa è la mia impressione.

 

Nel suo bel saggio di qualche anno fa Il riflesso di Konradin (“Micromega” 5/91/Dicembre-Gennaio) lei indica nella “fraternità” la stella polare che dovrebbe guidare la nuova sinistra. L’opposizione alle ovunque dominanti tensioni xenofobe in Occidente, e un progetto di riequilibrio planetario delle risorse, dovrebbero incarnare tale istanza. E’ sempre di questo parere? E inoltre: in quell’articolo , dopo aver parlato di brevi fasi storiche in cui il bisogno di liberazione diffuso favorisce le sinistre e di lunghi periodi – come il nostro – in cui essa sinistra è condannata al ristagno, tale stella polare deve dunque rassegnarsi a emanare una tenue luce di trincea? Non ci sono prospettive più incoraggianti? Sul piano più empirico, volevo chiederle altresì se, a suo avviso, in Italia esistano le condizioni per un’intesa organica e progettuale fra il riformismo “strutturale” di Rifondazione comunista e i diversi moderatismi dell’area progressista (dal PDS ad AD a certi settori alleabili del centro).

Nella storia del nostro secolo si profila in modo evidente il ruolo e anche la natura inevitabilmente contingente del fenomeno bolscevico. Non può che essere un fenomeno a termine dentro una storia molto più lunga, però non è una forzatura dovuta agli interessati, che ad un certo momento hanno voluto accelerare la locomotiva della storia: se non ci fosse stata la prima guerra mondiale, Lenin avrebbe concluso la sua vita come capo di un gruppuscolo sconosciuto in Svizzera, alle prese con altri esuli non meno biliosi o litigiosi di lui. La Grande Guerra mostra il fallimento del pur nobilissimo socialismo europeo, riformista e umanitario. Sbaglia Braudel a dire: eravamo sull’orlo del socialismo, ma poi è arrivata la guerra. La guerra non è arrivata da un altro pianeta. E’ arrivata la guerra perché le forze in campo hanno prodotto quel risultato. Il socialismo riformista non è stato capace di fermare la guerra, nè di prevenirla, e quindi era nelle cose che quel disastro umano di proporzioni immani producesse una fuoriuscita di tipo rivoluzionario. A questo punto bisogna chiedersi: quali erano i modelli di questa fuoriuscita? Robespierre e la Comune di Parigi.

Cioè il modello blanquista, che è quello di Lenin. Modello che con Marx ha poco a che fare, ma che in certi momenti sembra l’unica via possibile. Certo, le rivoluzioni sono le locomotive della storia, ma poi la storia supera le locomotive. Le rivoluzioni hanno questo destino: lasciano alle spalle un mondo profondamente cambiato: siamo quello che siamo anche – e forse non secondariamente – grazie alla rivoluzione sovietica. Come dice la brava (e anticomunista) Barbara Spinelli, il comunismo ha avuto il compito di rendere più umano il capitalismo. Se in questo ci fosse del vero, saremmo di fronte ad uno di quei compiti storici che valgono un giudizio definitivo. Soltanto che non ci si può fermare a contemplare il già fatto, nè una rivoluzione può pretendere di conservare le forme che ha assunto nel momento in cui si è costituita in “stato” come forme perenni.

Perché si parla di “sclerosi” del mondo sovietico? Perché era davvero una pretesa, quella, di fermare hegelianamente, il processo dei fatti storici. Questo aveva delle contropartite anche patetiche. Al punto che in URSS anche lo stesso sviluppo tecnologico era considerato con paura, con sospetto, con angoscia, perché è uno dei fattori potenti di sommovimento del reale. E i sovietici non erano preparati a questo. Per un po’ hanno retto il confronto (la gara, l’aggiornamento etc.), per poi assumere il volto dell’impero romano alla sua conclusione, cioé un grande edificio completamente paralizzato. Infatti, che sia caduto senza un patema di massa delle persone che, pure, tantissimi vantaggi avevano avuto da quell’esperienza, dimostra che, ormai, era indifendibile. Dopo di che cosa succede? Si ricomincia dallo stesso punto di partenza? No: si ricomincia da un punto più alto, è inevitabile. Noi non potremo che battere l’unica strada possibile: la coniugazione di socialismo e democrazia. I partiti che fuori dal mondo dell’Est si chiamavano comunisti, che cosa avevano del bolscevismo? Nulla. Togliatti è il costruttore di un grande partito socialdemocratico che si chiamava – per non chiamarlo così – “partito nuovo”. Solo che, naturalmente, per lui era un problema quasi insolubile quello di coniugare un ancoraggio internazionale, una giustificazione dell’accaduto, con le opzioni concrete e possibili nel suo paese, da lui praticate – devo dire – con grande intelligenza. Il “nome” di un partito finisce con l’essere qualcosa di più simbolico che connotativo. E questo era il caso del PCI. Anche Rifondazione Comunista, cos’è? Un partito riformista che vuole essere serio, e io mi auguro che lo sia. Si chiama Rifondazione Comunista? Sì, ma questo non significa che pretenda di instaurare i soviet e procedere alla conquista del palazzo d’inverno. Vuole delle tasse più giuste, una scuola per tutti, una salute rispettabile, un lavoro assicurato. E questo che cos’è? Puro revisionismo nel migliore significato del termine.

 

Ma quali possono essere le strategie di lotta all’interno di un panorama che, in breve tempo, attraverso le maglie sottilissime dell’oppressione videocratica, sembra avere chiuso ogni possibilità di incidenza ai progressisti? Quali i fronti in cui i progressisti devono attestarsi?

Fra qualche tempo dovrebbe uscire per la Sellerio un mio “libriccino” che, pomposamente, ho intitolato Manifesto della libertà. Questo titolo vuole essere anche provocatorio, nel senso che “libertà” è una parola che la destra forse dovrebbe smettere di usare come suo bagaglio (perché suo non è). Il problema che cerco di affrontare, naturalmente, non troverà soluzione in queste pagine, perché nessuno lo può risolvere su due piedi. Ma mi par giusto indicare un piano a cui tutti oggi sono sensibili, anche quelli che si sono lasciati sorprendere dagli eventi, dalle mutazioni, e cioè il piano che tenderei a chiamare della dilatazione costante dei diritti. I diritti – che sono il contenuto della libertà -, sono infiniti, sono un universo che si espande. Lottare per affermare diritti sempre nuovi – e oggi quello principale è il diritto all’informazione, all’accesso all’informazione – è un fronte su cui si possono coagulare delle spinte vere, cioè delle reattività della società che invece intorno a programmi arcaicamente prospettati con un linguaggio vecchio, rimarrebbero totalmente insensibili. Quindi affermo con forza non solo il nostro bisogno di libertà, il fatto che la libertà “ci” appartiene ed è una bandiera da difendere contro quelli che la brandiscono calpestandola, ma che va riempita di questi contenuti. In fondo tutta la storia è una storia di affermazioni di diritti, da Solone, alla lotta sociale del secolo scorso, alla lotta per la liberazione dalla schiavitù, alla comprensione che la dipendenza dal padrone in fabbrica è una forma di schiavitù moderna della coscienza, della forza fisica, della volontà, del tempo libero etc. I diritti sono infiniti, sono potenzialità di cui appropriarsi. Ovviamente è un problema aspro, perché quando si arriva al dunque, i “modernissimi” nostri avversari sfoderano “classiche” maniere di reazione. Non voglio certo osare di affermare “ben venga”, ma certo sarebbe uno strumento di chiarificazione fortissima.

 

Secondo lei questa dilatazione di diritti riesce a configurare un allargamento della democrazia oltre l’orizzonte procedurale: in quello, cioè, “sostanziale”?

Certo, il diritto all’ambiente, ad una salute vera e via dicendo, insomma, l’insieme dei diritti pensabili, non si muove affatto sul piano formale, ma si muove su quello sostanziale (del resto, dire “democrazia formale” o “procedurale” è quasi un non-senso perché l’aggettivo svuota il sostantivo). Un progetto di lotta siffatto non è un ripiegare sul “possibile”, è un proporre con linguaggio e concetti oggi più pregnanti e capaci di suscitare consenso e capacità di allineamento, le stesse esigenze elementarmente prospettate dieci-venti-cinquant’anni fa con il linguaggio tradizionale della sinistra.

 

Nel suo Demagogia (Palermo, Sellerio, 1993) – mirabile per rigore ed intensità – a mio avviso lascia, infine, un’ insoddisfazione: se la parola politica è intimamente demagogica – come si dice nel saggio – allora non è possibile sposare politica e razionalità? Valori politici e valori del sapere?

Beh, intanto, una cosa è la parola politica, il dialegein politico, e una cosa è la politica. Io volevo dire semplicemente che è poco utile la parola politica in quanto è tendenzialmente contrappositiva e non mirante alla comprensione. Per questo dico che il parlare politico è lontano dal linguaggio scientifico. Nel discorso scientifico non ci sono partiti, c’è una convergente ricerca di conoscenza sempre più valida. La discussione politica purtroppo non è questo. E sappiamo perché. Dal punto di vista concettuale è quasi inutilizzabile, ha una funzione empirica. Tutti la usiamo, ma dobbiamo essere consapevoli della sua scarsa valenza cognitiva. E’ questa la ragione per cui di Platone ho sempre apprezzato il disprezzo verso i Pericle o i Temistocle: per lui sono gente che truffa, gente che parla senza proporsi la maggior conoscenza o la miglior conoscenza, e quindi una parola perversa.

 

E allora come sviluppare un discorso politico senza scoprire il fianco all’accusa platonica?

Secondo me nella storia ci sono sempre delle combinazioni contraddittorie; proprio il fatto che il veicolo della comunicazione stia diventando non quello della tribuna – quello usato dai potenti polmoni di un oratore come Mussolini -, ma quello più freddo della comunicazione tecnologica, dimostra come la possibilità di passare ad un livello cognitivo molto più acuminato è a portata di mano. Insomma, chi ritiene di dover continuare a guardare la realtà come perfettibile – perché la sinistra è questo: ritenere la realtà perfettibile, non appagarsi di quello che c’è – dovrebbe più che mai mostrarsi capace di una critica approfondita dell’esistente, una critica che sia il più possibile scientificamente fondata e al tempo stesso comprensibile. Gli scienziati, i matematici etc. vanno chiamati in causa. Basta con la politica fatta solo dagli umanisti (essa mostra la corda). Gli umanisti, certo molto informati della storia politica e sociale, mancano di altri strumenti. Strumenti che, attraverso la comunicazione tecnologica, possono passare e possono costituire delle scorciatoie fulminanti per arrivare subito a far chiaro delle questioni che invece nella tradizionale discussione politica rimangono confuse. Prendiamo la questione del maggioritario: non sarebbe stato possibile spiegare, attraverso i mass media, cos’è la cosiddetta “ghigliottina di Condorcet”, quell’argomento, cioé, formulato dal filosofo e matematico francese che, in termini di calcolo delle probabilità matematiche, nel saggio Sur les elections, dimostrava che il sistema maggioritario è assolutamente deformante (se ci sono tre candidati si scopre che il candidato che sarebbe risultato terzo col sistema dell’indicazione unica, può risultare il preferito tenendo conto della completa scala di preferenze di ciascuno)? . Ora, tramite le risorse infinite della televisione (grafici etc.) sarebbe possibile spiegare tutto ciò al telespettatore: sarebbe un modo di avvicinarsi al rigore fecondo del linguaggio scientifico.

 

Quindi per lei il sapere è divulgabile?

Ma certo! Se non lo fosse, tutti noi cambieremmo mestiere. Noi non parliamo per le nostre conventicole. L’archeologo Bianchi Bandinelli diceva bene: la divulgazione è il nostro fine. Solo che dobbiamo studiare come matti per non divulgare stupidaggini….

 

Il suggestivo finale di Demagogia tratta il problema della forma attuale di demagogia, quella in cui siamo immersi. Lei giustamente sostiene che la demagogia non è più affidata al superuomo di tipo mussoliniano ma si identifica con la mercificazione onnipervasiva, con la diffusione di pseudo-valori capillarmente trasmessi tramite i media e l’universo spettacolare-popolare, spesso di valenza deviante; non c’è vera alfabetizzazione di massa ma un “basso e torvo livello culturale e un generale ottundimento della capacità critica”. Si tratta di “una forma di demagogia altamente perfezionata per ora non bisognosa della coercizione violenta di tipo paleo-fascista”. E’ dunque corretto affermare che l’unica speranza per la democrazia è creare dei cittadini democratici, occuparsi della formazione delle condizioni mentali di un costume democratico; che l’unica speranza, insomma, è nella paideia (come lei ricordava di recente chiamando in causa anche Dewey: cfr. Corriere della sera). E come appellarsi all’educazione senza suscitare accuse, senza evocare in noi stessi il sospetto di coltivare un pedagogismo tendenzialmente totalitario?

Quest’ultimo non è certo un pericolo: la nostra società è talmente policentrica dal punto di vista delle possibilità di comunicazione da togliere ogni dubbio in tal senso. Semmai l’accusa che si può muovere a questa veduta è di essere ingenuamente utopistica. Forse però non è così; proprio perché non stiamo parlando del pianeta e dei suoi problemi – dove è evidente che una situazione come quella del Brasile del Ruanda, del Sudafrica, dimostra che sulla terra ci sono situazioni talmente immediate e tragiche da far apparire ridicola l’evocazione della paideia come panacea -. Ma nel nostro tipo di società, nel nostro contesto abituale, abbiamo a che fare con una maggioranza sostanzialmente acculturata, che non gradisce essere trascinata al consenso per motivi imprecisi, confusi, ma che vuol “conoscere” – o che vuole passare per “cosciente” di quello che fa-; cioè il terreno è favorevole ad una procedura di quel tipo proprio perché abbiamo a che fare con una società per lo più appagata. Facciamo l’esempio dei dirigenti d’industria, spesso schierati con le forze conservatrici. Essi si credono lontanissimi dai problemi dell’operaio di linea. Non si rendono conto dello sfruttamento di cui sono oggetto, uno sfruttamento micidiale e particolarmente assurdo: quello dell’intelligenza, di quella stessa intelligenza che fa muovere l’azienda. Il problema è parlare a loro, maturare in loro la coscienza di questa condizione.

 

E invece pare che attualmente la televisione sia utilizzata per tutt’altri scopi…A questo proposito, professore, non ritiene priva di fondamento l’analogia formulata da Paolo Del Debbio (Il mercante e l’inquisitore. Apologia della televisione commerciale, il Sole 24ore libri, Milano, 1991) fra l’agorà antica e l’odierna piazza elettronica delle TV commerciali in cui dimensione politica, ludica, religiosa, mercantile e culturale, condividerebbero gioiosamente – secondo il “filosofo” della fininvest – lo stesso spazio, riproducendo la libertà delle democrazie antiche? Non le sembra che ci sia l’errore di fondo per cui si confonde una libera e complessa realtà sociale (la piazza antica) con un meccanismo in cui è la logica commerciale a “produrre” artificialmente le altre logiche e realtà?

Il paragone è certo inconsistente, c’è il raffronto fra due entità incongrue che rispecchia una conoscenza insoddisfacente della realtà antica. Siamo di fronte ad una mistificazione. L’accesso allo strumento televisivo non è indiscriminato e aperto. L’odierna “piazza elettronica” è tutta drenata da un meccanismo fortissimo, esclusivo, controllato, che – certo – si giustifica perché si tratta di cose miranti al profitto, commerciali: chi le fa ci deve guadagnar su, cerca i suoi uomini, il suo pubblico, se lo fabbrica quando non c’è, si offre come modello e cerca di rappresentare un ideale per masse il più possibile larghe. Ma non è un’ agorà. E’ la raffigurazione simbolica di un’ingannevole agorà, semmai. E quindi è l’esatto contrario. Dopodiché la si può idolatrare, come l’ottimo Del Debbio, oppure la si può sviscerare nella sua ingannevole natura, segnalarne il sofisma. Quella di Del Debbio è una formulazione infantilmente entusiastica, che però trucca i dati in maniera troppo facile da smantellare. Il problema è che oggi c’è chi “feticizza” la televisione. Poiché essa raggiunge milioni di persone e ottiene apprezzamento, come tale va adorata, va assunta come un dato di natura quale che sia il suo contenuto. Invece essa è un veicolo che può avere mille usi, e può essere riempito di tutti i contenuti che si vuole. Il circolo vizioso quale è? Quanto più si continua a giocare al ribasso, a dare prodotti sempre più bassamente allettanti, facili da fruire, inconsistenti e quindi, in ultima analisi – per usare una parola deweyana – “diseducativi”, tanto più questa cattiva moneta scaccerà la buona.

 

Passiamo, in conclusione, a problemi – diciamo – più “astratti”; dopo il naufragio dell’esperienza sovietica, che atteggiamento dovrebbe avere, a suo avviso, la sinistra post-marxista nei confronti del concetto di “stato”, che in Marx è legato al dominio borghese e per questo destinato all’estinzione? Inoltre – da studioso di storia – che validità ritiene che possa conservare, oggi, il concetto di “classe”?

Da studioso di storia, devo dire che ho sempre ritenuto insoddisfacente l’aspetto utopistico – diciamo così – proiettato sul futuro, del pensiero di Marx (estinzione dello stato etc.), e invece enormemente utile l’armamentario analitico che lui ci ha offerto. Per me Marx è più lo studioso delle società europee del diciannovesimo secolo che non l’uomo capace di intuire il cammino della storia. Ciò ha il suo fulcro in un punto particolare: proprio nella previsione della proletarizzazione generale delle classi non dominanti, connessa dell’idea che la forma-stato è connessa al dominio della borghesia. Poiché penso che non solo fosse una previsione sbagliata ma che comunque le vicende che si sono poi prodotte sono andate radicalmente in direzione contraria, ho maturato la convinzione che l’idea di una polarizzazione profonda, mentre è stata smentita in pieno sulla scala degli stati nazionali, ha invece un recupero veridico su una scala complessiva. L’estinzione dello stato è già avvenuta, e ciò grazie al dominio planetario delle forze economiche vincenti, che hanno superato la dimensione statale da tantissimo tempo (da almeno venti-trent’anni); il secondo dopoguerra è la fase in cui lo stato come orizzonte ferreo in cui si svolge il conflitto delle classi e il predominio dei più forti, è alle spalle (si pensi all’assoluta libertà rispetto al controllo degli stati con cui, spostando una quantità di denaro da una banca di Singapore ad una di Hong Kong, si può incidere sugli equilibri mondiali), nel senso che lo stato è sempre più una cornice burocratica empirica per l’ordinaria amministrazione e, se vogliamo, anche per pilotare su degli obiettivi intermedi, gratificanti per tutti, il conflitto; mentre poi la vera contrapposizione avviene ad un livello tale, con forze tali, che non è attingibile da un conflitto diretto. Quindi – come dire – l’idea dell’estinzione dello stato è espressa in modo infantile, primitivo, da Marx – e, come tale, è andata alla deriva, perché appare smentita dalla realtà effettuale – ma contiene dentro di sé un elemento di verità, che si proietta su un futuro lontanissimo da lui, che è quello in cui noi ci troviamo, dove davvero c’è una situazione di polarizzazione profondissima e di proletarizzazione di massa, non già dei ceti ma addirittura di interi continenti e un potere invisibile ma efficacissimo, che non ha nessun legame con questo o quello stato particolare.

Quanto al concetto di “classe”, dire che è in crisi non significa concedere che esso non serve più. Anzi, il problema è un altro. L’esperienza ha dimostrato che è un concetto talmente utile che va articolato, studiato, approfondito etc. ma certamente non buttato a mare, un altro strumento analitico così soddisfacente, così aderente alle nostre società, non lo abbiamo ancora. Ho sempre avuto una certa riluttanza ad usare l’espressione “storico marxista”. Sono convinto, infatti, che queste espressioni non siano utili perché il marxismo ha pervaso l’intero sforzo di comprensione della realtà, anche dei pensatori più lontani, inconsapevolmente o consapevolmente. Senza il marxismo essi non sarebbero quello che sono. Dopo Marx è impossibile non servirsi di questa grandissima strumentazione analitica, che lui ha prodotto studiando la società del tempo. Le Goff , che non era marxista, diceva che l’unica spiegazione storica possibile è il concetto di classe (Intervista sulla storia, Laterza). Fustel de Coulanges – di tutt’altra fomazione che quella marxista – nella Grecia conquistata dai romani esordiva sostenendo che nella Grecia del secondo secolo a.c. c’erano delle classi in conflitto (il conflitto era arrivato ad un punto morto in cui non ci potevano essere nè vinti nè vincitori: i possidenti rompono questa situazione invocando i romani). Tutto ciò significa che la spiegazione dei fatti storici andava in questa direzione. Marx ha sintetizzato un’intera epoca di studi, di ricerche, di comprensione della realtà sociale, con una capacità di sintesi che altri non hanno avuto, talmente utile da entrare nel bagaglio della conoscenza storica senza aggettivi. Anche perché la conoscenza, per essere veramente tale, è talmente disinibita e senza paraocchi, che non ha bisogno di farsi etichettare. E’ buona o cattiva, in ultima analisi, come ricerca; ed è cattiva se si priva di uno strumento importantissimo come il concetto di classe, che non è un dogma, ma è un’arma, uno strumento analitico che deve sapere aderire a quel magma complicatissimo e sempre in movimento che sono le società. Ecco perché sono serenissimo rispetto alla crisi – che non c’è -, ma al tempo stesso sono lontanissimo da ogni ortodossia schematica che poi finisce per non far capire la storia.

 

Per finire, professore, nel suo Demagogia lei si sofferma su Gramsci. Ora, sebbene lo studioso di Ales sia stato forse il più grande nostro pensatore del Novecento, non crede ch’egli non sia più utilizzabile da una moderna teoria della democrazia in quanto il suo marxismo configurava una società senza classi priva dei conflitti di valori e bisogni delle odierne società aperte?

Mi permetto di dirle che Gramsci è importante, nella storia del pensiero politico contemporaneo, non per queste genericità, ma per avere affrontato il problema della conquista dell’egemonia, di come si vince in una società complessa. In questo senso le sue pagine sono di una modernità straordinaria, certo, in rapporto alle realtà tecniche che erano a sua conoscenza. Gramsci è forse l’unico che regge alla prova della storia, proprio perché ha pensato subito in questi termini, non a caso all’indomani di una sconfitta.


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