Ripensare la scienza economica
di Stefano Lucarelli
Nel pieno del processo di restaurazione antikeynesiana e antisocialista condotta nel corso degli anni ottanta, Giacomo Becattini su Il Ponte1 invitava alcuni grandi maestri italiani della scienza economica a porsi una domanda che allora appariva vitale per la «sinistra»: quale economia politica per il socialismo? In quegli anni, l’alta teoria economica era per lo più impegnata a dimostrare la subottimalità di ogni intervento di politica economica volto a limitare l’operato dei mercati, e le grandi riviste internazionali cominciavano a divenire inaccessibili a tutti coloro che si dimostravano ancora interessati alla critica della teoria economica. In Italia, anche grazie all’indubitabile attenzione che per tutti gli anni settanta la critica dell’economia politica aveva suscitato nel dibattito interno al sindacato, al movimento operaio, e anche ad altre esperienze politiche non riducibili alle prime due2, erano ancora molti gli economisti che condividevano l’interesse e l’urgenza per quella domanda: quale economia politica per il socialismo? A ventisette anni di distanza, tutto ciò appare, almeno in prima battuta, anacronistico. Eppure, il fatto che la domanda su richiamata susciti ancora oggi degli stati d’animo sospesi tra l’imbarazzo, l’isteria e la frustrazione, non rappresenta una ragione sufficiente per potersene sbarazzare. Tutt’altro: farlo significa arrendersi all’idea che «there is no such thing as society. There are individual men and women, and there are families. And no government can do anything except through people, and people must look to themselves first»3.
Credo che l’ultimo libro di Giorgio Lunghini4 – libro che ho avuto il piacere di leggere e commentare man mano che veniva scritto – possa innanzitutto servire a riformulare le domande di ricerca necessarie a pensare e ripensare il sistema economico in cui viviamo, dunque il capitalismo contemporaneo.
Esso è uno splendido abbecedario, accessibile a tutti, che invita soprattutto «i più giovani e meglio attrezzati» a studiare ancora l’economia politica e la sua critica, senza cedere alle mode del momento, senza limitarsi all’agenda di discussione imposta ora dai quotidiani, ora dai partiti, ora dai movimenti, senza cioè limitare il proprio atteggiamento mentale al breve periodo, gettando le armi dell’intelligenza dinanzi ai luoghi comuni e alla propaganda.
Conflitto Crisi Incertezza
La scelta del titolo d’altro canto è molto significativa: conflitto, crisi e incertezza sono innanzitutto tre elementi che caratterizzano, oggi più che mai, il nostro vivere sociale. Lunghini sostiene con molte ragioni che la teoria economica dominante, la quale ha un enorme peso nelle scelte politiche, non dispone delle attrezzature necessarie a trattare in modo adeguato il conflitto, la crisi e l’incertezza. Lo dimostrerebbe la sua storia, dunque la struttura teorica basilare alla quale questa teoria può essere ridotta (è questo un punto del ragionamento dell’autore che considero – come si vedrà – molto problematico). E lo dimostrerebbero anche le indicazioni di politica economica alle quali essa giunge, in sintesi il laissez faire (termine che credo non vada però inteso oggi allo stesso modo in cui lo intendeva il mercante Legendre alla fine del XVII secolo). La teoria economica dominante sembra dunque presentarsi come ideologia capitalistica, che è necessario disvelare.
Lunghini suggerisce allora di guardare anche altrove, studiando innanzitutto, con pazienza ed attenzione, alcuni aspetti del pensiero di quattro economisti molto diversi tra loro, Ricardo, Marx, Keynes e Sraffa. Mi pare inoltre che l’autore implicitamente e garbatamente suggerisca che una seria alternativa alla teoria economica dominante non possa essere abbozzata senza prima comprendere questi classici del pensiero economico. Se cercassimo di imboccare scorciatoie – aggiungo – potremo pure bearci del consenso di grandi platee, ma al più formuleremo inviti alla sobrietà negli stili di vita o audaci minacce alle élites finanziarie. Anche l’indignazione impone dei doveri. Se ce lo dimenticassimo giungeremmo a una scienza incapace di fondare alcunché. Lo stesso rischio può essere corso da coloro che credono di potersi affidare, in tutto e per tutto, solo all’opera di uno dei quattro pensatori su richiamati. In ambo i casi, per ragioni diverse, si perverrebbe all’infausta conferma che «there is no such thing as society». In altri termini, conflitto, crisi e incertezza resterebbero temi non trattati né trattabili, concetti sostanziali mistificati come sciagure sociali, che tuttavia, nell’arco di un’esistenza media, sembrano accadere regolarmente. In questo caso dominerebbero, come oggi dominano, panico, stoltezza e sopraffazione (camuffati talora da tecnicismi volti ad indorare la pillola).
Ricardo, Marx, Keynes e Sraffa, scrive Lunghini, «descrivono il sistema economico in cui viviamo, che è un sistema storicamente determinato: il capitalismo, come un sistema in cui la distribuzione del prodotto sociale tra le classi è materia di conflitto; in cui la norma è la crisi e non l’equilibrio; e in cui gli agenti prendono le loro decisioni in condizioni di incertezza e sulla base di conoscenza limitata»5. L’autore scrive queste parole senza nessuna ingenuità, e col saggio intento di incuriosire il lettore perché questi si cimenti direttamente con le opere dei quattro grandi su citati, e non con lo spirito dell’appassionato di anticaglie. Lunghini ha dato nel corso della sua lunga attività intellettuale importanti contributi volti a sollevare tutti i principali problemi che emergono laddove si aspiri a costruire una teoria economica critica cercando improbabili matrimoni fra Marx e Sraffa, Marx e Keynes, Keynes e Sraffa6. È bene aver chiaro che Conflitto Crisi Incertezza non ha la pretesa di pervenire a una teoria alternativa, ha l’aspirazione, ben più urgente, di dimostrare la vitalità e la rilevanza delle teorie alternative, di presentarne i tratti essenziali, affinché possano ancora a lungo servire ad una crescita culturale che possa prolungarsi in consapevolezza politica. D’altra parte il libro è scritto e pubblicato in tempi in cui, soprattutto nell’Accademia italiana, «agli studiosi disinteressati subentrano pugili a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrano la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica»7. Sono tempi in cui gli economisti ricoprono numerosi incarichi di governo e scelgono utilizzando la logica propria della teoria economica dominante, proprio quando questa si è dimostrata incapace di dar conto, innanzitutto, delle dinamiche critiche che caratterizzano il regime di accumulazione trainato dalla finanza in cui viviamo8.
Sulla teoria economica dominante
Lunghini presenta innanzitutto una descrizione del nucleo analitico della teoria neoclassica, o meglio dell’economics, scienza dell’allocazione di risorse scarse per usi alternativi: sul mercato del lavoro, la domanda e l’offerta determinano il salario reale di equilibrio che garantisce l’assenza di disoccupazione involontaria; data l’occupazione di equilibrio, e date le condizioni tecniche di produzione, si ha il livello della produzione e del reddito di equilibrio; in questa situazione è individuabile un tasso di interesse reale tale che tutti i risparmi si traducano in investimenti; variazioni dell’offerta di moneta influenzano solo il livello generale dei prezzi (ecco la teoria quantitativa della moneta); la distribuzione dei redditi è commisurata alla produttività di lavoro e capitale.
Credo però che il modello economico dominante, cui la maggior parte degli economisti si riferisce oggi, non è in tutto e per tutto riducibile alla rappresentazione proposta in Conflitto Crisi Incertezza. Mi scuso con il lettore per questa divagazione che potrà apparire insieme approssimativa e tecnica, ma è importante: sono molti gli ambiti di ricerca nell’economia mainstream, talmente vari da rendere estremamente complessa l’individuazione di un nucleo analitico comune. Si può però dire che normalmente gli economisti impostano le proprie analisi ritenendo che nel breve periodo esistano delle rigidità nei mercati (a loro volta ricondotte a rigidità dei prezzi). In questo particolare senso si riconosce la rilevanza dei fattori istituzionali. Sono molto diffusi modelli costruiti a partire da un atteggiamento pragmatico che pretende di modificare le basi microeconomiche degli aggregati macro, a partire però dal terreno imposto dalla scuola di Chicago che ritiene che gli agenti economici siano in media razionali. Essi sono però giustificabili solo se si hanno a disposizione banche dati in grado di stimare nessi causali significativi in senso econometrico. Sul versante empirico ciò ha condotto ad una vasta produzione di materiale statistico impiegato nelle analisi degli econometrici, dal grado di monopolio dei sindacati, al grado di scolarizzazione dei lavoratori, a caratteristiche specifiche degli agenti presenti sui mercati, alle caratteristiche dei sistemi elettorali, agli indici di corruzione dei governi. Parallelamente, sul versante teorico si assiste all’introduzione di concetti – descrivibili a mezzo di funzioni matematiche – che conducono ai così detti fallimenti del mercato: le asimmetrie informative, le esternalità (sia positive che negative), i beni pubblici. Non ci si limita a essi, ma si accettano anche i fallimenti dello Stato. Sono possibili diverse calibrazioni del modello che possono condurre a equilibri instabili o addirittura multipli. Nel lungo periodo, tuttavia, i fattori di disturbo tenderebbero a riassorbirsi, dando luogo ai risultati tradizionali9.
Lunghini dichiara onestamente che il modello che egli presenta è di fatto una approssimazione, ma sostiene di fatto che le complicazioni analitiche ed empiriche riscontrabili sulle riviste scientifiche e nei quaderni di ricerca delle più importanti istituzioni economiche non metterebbero in discussione le implicazioni e le ricette di politica economica derivanti dal nucleo analitico da lui descritto: laissez faire! Cosa può dirsi a riguardo?
È molto diffusa l’idea che affinché un sistema economico sia in salute si debba innanzitutto contenere il tasso di inflazione. La regola di Taylor, o le sue varianti che servono a sostenere la necessità di un banchiere centrale conservatore o la costituzionalizzazione dell’avversione all’inflazione, possono essere comprese richiamando la teoria quantitativa della moneta. Tuttavia nessuno crede più alla possibilità di controllare direttamente la massa monetaria, l’idea dominante (il New Consensus) è piuttosto che il tasso di interesse possa essere uno strumento di controllo indiretto dell’inflazione. Ciò presuppone che si ragioni come se esistesse un tasso “naturale” di interesse, compatibile con il tasso di crescita di steady state in cui si ha un livello di pieno impiego delle risorse. In tal senso abbiamo piuttosto a che fare con una variante wickselliana della teoria della moneta neoclassica. Un esito questo che conduce in un terreno di confine con approcci spuri in cui nel breve periodo possono aversi risultati non efficienti10.
È molto diffusa anche l’idea che solo la flessibilità dei prezzi (e dei salari) possa garantire l’efficienza dei mercati. È tuttavia vero che dopo la crisi del 2007 anche gli economisti del Fmi hanno riconosciuto che quei paesi che hanno adottato riforme strutturali del lavoro tese ad introdurre maggiore flessibilità per alcune tipologie contrattuali (specificatamente i lavori a tempo determinato), pagano un prezzo maggiore in termini di aumento della disoccupazione. Si è dunque diffuso un cauto scetticismo sulla presunta capacità di tali riforme strutturali di generare occupazione11.
Per quanto riguarda l’analisi della produzione, della crescita e della distribuzione dei redditi, le ipotesi di rendimenti marginali decrescenti e di economie di scala costanti – dalle quali dipende principalmente l’idea che salari e profitti siano vincolati ad un qualche livello di equilibrio – sono molto diffuse. Qualche anno fa Sylos Labini ha presentato in modo molto efficiente i limiti di queste assunzioni, che viziano profondamente anche la moderna teoria della crescita endogena: «Da un lato, essi [Romer 1987, Lucas 1988, Rebelo 1991, Barro e Sala-i-Martin 1995] accettano l’apparato fondamentale della teoria neoclassica, che consiste in una varietà di curve statiche le quali rappresentano sintesi di variazioni ipotetiche, fuori dal tempo. Dall’altro lato, vogliono usare tale apparato per svolgere analisi dinamiche. Ciò formalmente si può fare assumendo spostamenti di quelle curve; ma […] un’assunzione non è una spiegazione. Peggio: una tale assunzione diventa una copertura che nasconde la mancanza di una spiegazione. Un altro modo è quello di porre delle assunzione ad hoc, come per esempio quella discussa da Romer (1987) riguardante gli investimenti in ricerca e sviluppo e in laboratori di ricerca costruiti in vista di profitti. Questa è indubbiamente una relazione dinamica, ma non viene spiegato come s’inserisce nell’apparato sottostante»12.
Qualcosa dunque all’interno dell’economics sembra muoversi, conducendo gli studiosi, per lo più inconsapevolmente, a recuperare alcuni aspetti delle teorie alternative e soprattutto a non credere che il laissez faire possa essere sempre la soluzione ottimale13. Se poi si guarda alle politiche economiche messe effettivamente in atto, bisogna distinguere tra ciò che un’istituzione dichiara di fare e ciò che fa in pratica, cioè tra il modello in cui dichiara di credere e le regole che realmente segue per perseguire gli obiettivi che realmente persegue. Basta guardare alle politiche monetarie messe in pratica dalla Fed e dalla Bce nell’ultimo decennio. Ciò non significa tuttavia che la teoria economica dominante, anche nelle nuove vesti che dimostrano il suo stato di crisi, non sia da sottoporre a critica. E ciò non significa che le critiche di Marx, Keynes e Sraffa perdano di incisività, anche se oggi «i più giovani e meglio attrezzati» non possono limitarsi ad esse.
Da Ricardo a Marx
Lunghini scrive una “storia a ritroso”, che è insieme storia delle categorie analitiche utilizzate dagli economisti e storia delle idee politiche, che influenzano e sono influenzate dalle teorie economiche. Definisce l’economia politica come scienza del capitalismo, scienza di una società divisa in classi tra loro in conflitto, che evolve secondo le leggi dell’accumulazione del capitale; questa scienza – la cui categoria prima è il sovrappiù, quel che resta del prodotto sociale al netto del consumo necessario ai lavoratori e del logorio dei macchinari – non giunge sino a noi in modo lineare, ma dopo una serie di rivoluzioni scientifiche (e sociali); contro di essa emergono sia la critica marxiana – che individua nello sfruttamento l’origine del sovrappiù – sia l’economics – che del sovrappiù si sbarazza. Per mostrarlo l’autore utilizza la spiegazione marxiana della fine dell’economia politica classica: Ricardo, il più grande tra gli economisti borghesi, che studia la relazione fra prezzi, salari, profitti e rendite, senza però pervenire ad una teoria del valore lavoro esatta al 100%, dimostra che il capitalismo non prefigura un mondo armonico ma un sistema in cui domina l’opposizione tra gli interessi delle classi. La scienza borghese dell’economia politica arriva così al suo limite insormontabile. Da qui comincia sia la critica dell’economia marxiana, scienza rivoluzionaria volta a svelare sino in fondo le contraddizioni reali del capitalismo, sia l’economics, una rifondazione volgare della scienza economica borghese che, sebbene in forme diverse, domina ancora oggi nel mondo accademico e politico.
Lunghini sceglie di presentare al lettore la critica marxiana e offre una magnifica lezione, introduttiva ma rigorosa, sugli schemi di riproduzione e sulla teoria delle crisi, utilizzando con cura ed intelligenza i riferimenti ai testi originali del pensatore di Treviri. Le pagine che egli dedica alla caduta tendenziale del saggio dei profitti e alle cause antagoniste sono tra le più ispirate e utili per avviare una comprensione della lotta tra le classi nella crisi: la legge della caduta del saggio dei profitti «non opera meccanicamente come vorrebbero le letture scolastiche del Capitale. Ci sono, nel bene e nel male, spazi di azione e soprattutto di reazione. Ci sono, come credono e sostengono gli eretici, degli spazi politici […] Nel modo capitalistico di produzione il capitale non è una cosa […] è invece un rapporto, il rapporto tra i capitalisti e i lavoratori salariati». «Le più generali di queste cause antagonistiche, per Marx, sono l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario al di sotto del suo valore, la diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante, la sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’accrescimento del capitale azionario. […] La contraddizione esistente nel modo capitalistico di produzione consiste nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, che vengono continuamente a trovarsi in conflitto con le specifiche condizioni di produzione entro le quali il capitale si muove e può solo muoversi»14. Queste pagine si concludono con una lunga citazione da M. Horkheimer, per ricordare un aspetto importante, necessario, soprattutto oggi, per ridurre il rischio di un uso ingenuo e dannoso della critica dell’economia politica: per i lavoratori occupati «cui il salario e la pluriennale appartenenza ai sindacati e alle associazioni garantiscono una certa, seppure ridotta sicurezza per il futuro, tutte le azioni politiche significano il rischio di una perdita enorme»15.
Sulle critiche del Novecento
L’economics, la Grande Teoria che si impone, nei quarant’anni seguenti il 1870, come completa e autosufficiente, ricorre al calcolo differenziale per ridurre ogni problema economico ad uno scambio fra agenti, le cui incertezze sono trascurabili, in un mondo di risorse scarse. La Grande Teoria nasconde la prova ricardiana che la distribuzione dei redditi è caratterizzata dal conflitto tra le classi sociali, e rifiuta l’immagine marxiana di un processo capitalistico Denaro-Merce-Denaro volto alla realizzazione di un plusvalore e caratterizzato normalmente da crisi. Contro questa rappresentazione distorta della realtà e della logica, per ragioni diverse e con strategia opposte, John Maynard Keynes e Piero Sraffa erigono due monumenti di ardore teorico. La General Theory e Produzione di merci a mezzo di merci sono due libri difficili da leggere, da comprendere e da spiegare. Giorgio Lunghini riesce ad individuare l’essenziale di queste due opere d’ingegno, e trova le parole adatte per metterle alla portata di tutti. Elimina il “soverchio” e offre agli occhi il “concetto”, come fosse l’ottimo artista: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto / ch’un marmo solo in sé non circoscriva / col suo soverchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto.»16
Keynes sottopone a critica la teoria neoclassica dell’occupazione, del tasso di interesse e della moneta: l’occupazione non è univocamente determinata dalla domanda e dall’offerta di lavoro, ma da altre forze che hanno a che fare innanzitutto con la natura monetaria dell’economia capitalistica. L’occupazione è quella che i capitalisti decidono di dare, secondo le loro aspettative: data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione dipende dall’ammontare dell’investimento, su cui esercita la sua influenza anche il tasso di interesse (monetario). In condizioni di incertezza quest’ultimo non è riducibile a ricompensa per il risparmio o per l’astinenza (come vorrebbero i neoclassici), è invece la ricompensa all’abbandono della liquidità, «misura la riluttanza di coloro che possiedono la moneta ad abbandonare il loro controllo liquido sulla moneta stessa […] perché mai dovrebbe essere qualcuno al di fuori delle mura di un manicomio, che desideri usare la moneta come riserva di ricchezza? La spiegazione keynesiana è che, per motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni circa il futuro»17. Il clima di incertezza favorisce il movente speculativo che condiziona la quantità di moneta in circolazione. Questo insieme di circostanze determina il livello del tasso di interesse, che insieme alle aspettative del mondo degli affari, condiziona l’ammontare degli investimenti privati, la componente più instabile della domanda effettiva che insieme ai consumi privati determina il livello del reddito e infine dell’occupazione. L’equilibrio sul mercato della moneta e sul mercato dei beni si realizza senza che ciò implichi necessariamente un equilibrio di piena occupazione sul mercato del lavoro. Chi sostiene che sia inutile ricercare nel libro di Keynes una solida griglia teorica utilizzabile oggi dagli scienziati economici, ha qui di che pensare18.
Le pagine dedicate a Sraffa spiegano perché la teoria neoclassica della produzione e della distribuzione dei redditi sia logicamente insostenibile e perché invece le mancanze di coerenza relative alla teoria del valore lavoro ricardiana siano emendabili. Mostrano inoltre l’efficacia della strategia difensiva adoperata dagli economisti ortodossi: ignorare l’accaduto, condannandosi all’inesattezza e consolidando il potere accademico. Spiegano anche che il rapporto inverso e lineare tra salario e saggio del profitto, cui Sraffa giunge forse incidentalmente, non è né una teoria dello sfruttamento, né una reale teoria della distribuzione del reddito. Spiegano altresì che la soluzione sraffiana al problema ricardiano della misura invariabile di valore (la riduzione della questione del valore a puro e semplice problema di misurazione) sopprime ogni domanda circa l’origine del valore e con essa la categoria marxiana dello sfruttamento. «Scrivendo soltanto le cose che possono essere scritte, Sraffa mostra fin dove può arrivare la teoria economica, il limite estremo che quando esteso rende irrilevanti (superflue) le proposizioni di cui è fatta»19. Se si vuole fare economia politica – ancor più se si vuol fare critica dell’economia politica, cioè scienza volta a sovvertire le contraddizioni reali – occorre prepararsi a confrontarsi con sistemi contraddittori, cioè con sistemi, si potrebbe dire, caratterizzati per loro natura da conflitto, crisi ed incertezza. Più che un nucleo analitico su cui impiantare altre teorie, ciò che Sraffa ci lascia in eredità è un atteggiamento epistemologico: una posizione scomoda, da me condivisa, che tanti sraffiani hanno rinviato, e rinvieranno con ogni probabilità, al mittente.
Sul lungo periodo
Lunghini dà grande rilevanza alle indicazioni di politica economica presenti nel capitolo conclusivo della General Theory e nelle Prospettive economiche per i nostri nipoti. Il capitolo conclusivo del libro presenta al lettore il Keynes del lungo periodo, che non ha mai dominato né nelle Accademie, né nell’agenda politica dei governi sedicenti keynesiani20. Queste pagine andrebbero lette con grande attenzione da coloro che citano e criticano Keynes senza averlo mai letto e che riducono le politiche keynesiane al deficit spending. È vero che, come ha scritto Joan Robinson, «quando Keynes è entrato nell’ortodossia ci si è dimenticati di cambiare quesito [come uscire dalla disoccupazione?], e discutere a che serve l’occupazione»21, ma è anche vero che lo stesso Keynes indica la necessità di tenere a bada i bisogni relativi, cioè quei bisogni che esistono soltanto in quanto la loro soddisfazione ci fa sentire superiore ai nostri simili. Egli si adopera per costruire l’adeguata struttura istituzionale volta a perseguire l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale22, unico contesto in cui poter governare la socializzazione di una certa ampiezza degli investimenti, senza che lo Stato si assuma la proprietà degli strumenti di produzione, che lo stesso Keynes auspica per determinare un ritmo ottimo di investimento (e non già di spesa priva di determinazioni)23. Non solo, giunge ad immaginare un sentiero di sviluppo in cui un’equa distribuzione dei redditi, un elevato tasso di accumulazione del capitale e un giusto controllo demografico possano condurre gli uomini a cambiare il proprio codice morale considerando spregevole l’amore per il denaro.
Riscontro qui delle consonanze con quanto sostenuto da Claudio Napoleoni nella sua risposta alla domanda: quale economia politica per il socialismo? «Nei confronti della “economia”, cioè della produzione di merci, Keynes ha un atteggiamento duplice. Per un verso, si tratta per lui di dimostrare che il mercato, se non è intrinsecamente stabile, può però essere reso stabile mediante l’intervento politico; il quale intervento perciò viene a porsi come la condizione, possibile, di uno sviluppo salvaguardato da interruzioni od ostacoli sopravvenienti per ragioni interne all’ “economia”, o per ragioni connesse all’unica causa di disagio sociale che Keynes poteva vedere, cioè la disoccupazione. Per l’altro verso tuttavia si tratta per lui di mostrare che questo sviluppo, di cui in sede economica si fonda la possibilità … non ha peraltro alcun titolo per informare di sé permanentemente la società: la società “vera” ha altri valori, che non quelli economici, sui quali basarsi; la vita degli uomini ha altre dimensioni, che non il lavoro, su cui fondare un’esistenza “degna”»24. Napoleoni riconosce il carattere aristocratico del ragionamento keynesiano, ma, aggiunge, poiché il welfare state fornisce i contenuti determinati della spesa pubblica, è proprio la capacità di assegnare questi contenuti esercitabile collettivamente dal basso che può in parte realizzare le soluzione proprie di una società libera dal vincolo della produzione materiale. «L’assunzione piena di Keynes nella cultura di sinistra comporterebbe insomma sia la determinazione positiva della “società migliore”, sia lo spostamento al presente dell’inizio della realizzazione di essa»25. Da qui si dovrebbe cominciare una riflessione sul senso, i contenuti e i limiti dell’intervento pubblico, mettendo al centro la società, senza subire nessun governo e nessuna politica di austerità.
Ripensare a fondo la scienza economica seguendo le indicazioni che Lunghini mette a nostra disposizione, ci ricorda che la società esiste, che è contraddittoria, che quelle contraddizioni hanno un’origine storica e che la storia non è finita.
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