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Mainstream e teorie economiche critiche

Intervista ad Emiliano Brancaccio sul suo “Anti-Blanchard”

Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, è uno dei più autorevoli esponenti del cosiddetto “mainstream”, la corrente principale della teoria economica contemporanea. Blanchard è anche autore del manuale Macroeconomia, uno dei libri di testo più diffusi nelle università di tutto il mondo. L’edizione italiana, edita da Il Mulino, è stata realizzata in collaborazione con Alessia Amighini e Francesco Giavazzi.1

Il manuale di Blanchard rappresenta la versione più avanzata della cosiddetta “sintesi neoclassica”. La “sintesi” trae origine dal famigerato modello IS-LM con il quale John Hicks, nel 1937, diede avvio a un celebre quanto discusso tentativo di assorbimento del tipico problema keynesiano della carenza di domanda di merci all’interno di un impianto concettuale tradizionale di tipo neoclassico. Un “keynesismo bastardo”, come venne rudemente definito da Joan Robinson, che però è andato evolvendosi nel tempo e che oggi rappresenta il mainstream, l’approccio dominante alla macroeconomia.

Il modello didattico di Blanchard è detto di domanda e offerta aggregata. Esso ruota intorno al concetto di “equilibrio naturale” di una economia di mercato. La convergenza del sistema economico verso l’equilibrio “naturale” si determina nell’incrocio tra le curve di domanda e di offerta aggregata, rispettivamente decrescente e crescente rispetto al livello dei prezzi.

Stando a questo modello, le variazioni dei salari e dei prezzi generano una serie di effetti su tutti i mercati che spingono l’economia a convergere spontaneamente verso il cosiddetto livello di “disoccupazione naturale”.

In particolare, una riduzione dei salari monetari comporterà una pari riduzione dei costi di produzione e quindi anche un calo dei prezzi, dal quale scaturiranno due effetti: in primo luogo, un aumento del potere d’acquisto delle scorte di moneta, e quindi un aumento diretto o indiretto della domanda interna di merci; in secondo luogo, nel caso di un’economia aperta agli scambi internazionali, anche un aumento della competitività delle merci nazionali e un conseguente incremento della domanda proveniente dall’estero. Rilanciando le spese e la produzione i due effetti dovrebbero riportare il sistema in equilibrio.

Stando a questa visione, dunque, le crisi economiche generate da carenza di domanda dovrebbero determinare soltanto degli scostamenti temporanei dall’equilibrio “naturale”. In linea di principio, infatti, il sistema economico di mercato dovrebbe essere in grado di fuoriuscire da una crisi semplicemente attraverso i movimenti dei prezzi, senza bisogno di interventi politici.

Ciò non significa tuttavia che le politiche economiche di espansione della domanda siano del tutto inutili. Per Blanchard, infatti, i meccanismi spontanei che riportano i mercati in equilibrio possono incontrare vari ostacoli, e possono rivelarsi molto lenti. Ad esempio, anche in presenza di elevata disoccupazione, i lavoratori occupati potrebbero opporsi a riduzioni dei salari, e quindi potrebbero rallentare la caduta dei prezzi necessaria a rilanciare la domanda. In casi simili, le politiche monetarie e fiscali espansive possono rivelarsi utili allo scopo di far convergere più rapidamente l’economia verso il cosiddetto equilibrio “naturale”. In questo Blanchard si distingue dagli economisti neoclassici ultra-ortodossi come Edward Prescott e i suoi seguaci, che negano qualsiasi rilevanza alle politiche espansive. Blanchard però aggiunge che le politiche di espansione della domanda non possono modificare l’equilibrio “naturale”. Una riduzione permanente della disoccupazione “naturale” è possibile, ma richiede un altro tipo di politiche, che anziché agire sulla domanda rimuovano gli ostacoli alla concorrenza sui mercati e in particolare riducano il potere dei sindacati e delle imprese caratterizzate da posizioni monopoliste.

Da questo impianto concettuale Blanchard fa derivare le sue proposte politiche, che in un certo senso costituiscono un mix di moderato interventismo sul terreno monetario e fiscale e di ferreo liberismo sul versante del lavoro. Per esempio, mosso dall’intento di velocizzare la convergenza verso l’equilibrio “naturale”, l’economista del FMI ha recentemente criticato le politiche europee di austerità in tempi di recessione. Al tempo stesso, in base alle sue tesi sugli effetti positivi di una deflazione salariale, Blanchard ha sostenuto la necessità di draconiani abbattimenti dei salari monetari in Grecia per affrontare la crisi. In entrambi i casi, a guardar bene, la “sintesi” con il pensiero di Keynes non sembra particolarmente riuscita: le posizioni di Blanchard risultano cioè alquanto distanti dal pensiero originario dell’economista di Cambridge. Se però si vogliono contestare le proposte di Blanchard, è necessario approfondire la logica dei suoi modelli e individuare i loro punti deboli.

La recente pubblicazione del saggio didattico di Emiliano Brancaccio, “Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia” (Franco Angeli, Milano, 120 pp.),2 offre numerosi spunti di riflessione critica proprio sul legame fra la teoria economica dominante e le scelte politiche che derivano da essa. Introdotto da una presentazione di Marcello Messori e completato da un’appendice statistica di Domenico Suppa, il saggio non si sostituisce al manuale di Blanchard ma espressamente lo affianca allo scopo di presentare agli studenti una visione meno monocorde e più dialettica della evoluzione del pensiero economico contemporaneo. In questo senso il saggio evidenzia che piccoli cambiamenti delle assunzioni di partenza producono risultati molto diversi da quelli indicati dal modello dominante. In particolare, l’Anti-Blanchard sottolinea che la relazione inversa tra salari e domanda aggregata, che i manuali mainstream danno per scontata, in realtà è incerta. La riduzione dei salari ed eventualmente dei prezzi può infatti provocare riduzioni della domanda aggregata, anziché aumenti della stessa. Da questo e da altri rilievi scaturiscono implicazioni che stravolgono le conclusioni logiche e politiche del modello di Blanchard.

A novembre la Rivista di Politica Economica pubblicherà una serie di saggi dedicati alle nuove prospettive dell’insegnamento della macroeconomia nel tempo della crisi, con alcune riflessioni dedicate anche all’Anti-Blanchard. In questa intervista proveremo a interrogare Emiliano Brancaccio sui propositi del suo saggio e sulle possibilità di successo di un rinnovato approccio comparato allo studio della macroeconomia.

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In genere i manuali di economia eterodossa, soprattutto di ispirazione post-keynesiana, muovono preliminarmente una critica al modello IS-LM di Hicks, dimostrando come esso si discosti in modo piuttosto marcato dalla Teoria Generale di Keynes. L’Anti-Blanchard invece parte direttamente dalla critica del modello dominante di offerta e domanda aggregata. Quali sono le motivazioni di questa scelta?

Per capire le ragioni di questa scelta credo occorra fare una premessa. In Italia, almeno fino alla fine degli anni ‘80, l’insegnamento dell’economia politica è stato fondato su una impostazione che possiamo definire di tipo “storico-critico”. Ogni teoria veniva cioè studiata analizzando la sua evoluzione storica e rapportandola di continuo agli approcci ad essa concorrenti. Questo metodo di esposizione era tipico dei manuali espressamente critici nei confronti del paradigma neoclassico, come ad esempio i libri di Augusto Graziani e di Bruno Jossa in ambito macroeconomico, il manuale di economia politica di Alessandro Roncaglia, e ovviamente i vecchi testi di Antonio Pesenti, di stampo espressamente marxista. Ma la stessa impostazione finiva per influenzare anche i saggi didattici di autori non immediatamente annoverabili nell’ambito del cosiddetto pensiero “critico”. Penso ad esempio ai manuali di economia politica di Terenzio Cozzi e Stefano Zamagni, o di Carlo Casarosa in campo macroeconomico, o di Mario Arcelli in ambito monetario.3 Questi studiosi hanno avuto e hanno opinioni molto diverse tra loro sulla teoria neoclassica e alcuni accetterebbero anche di esser collocati nel filone della cosiddetta “sintesi neoclassica” inaugurato da Hicks, Modigliani e altri. Tuttavia, nessuno di essi avrebbe osato abbandonare del tutto l’approccio storico all’insegnamento dell’economia, né avrebbe pensato di esporre un modello senza riportare almeno alcune delle critiche ad esso rivolte dalle scuole di pensiero alternative. Dunque, non solo le differenze tra la teoria originaria di Keynes e l’interpretazione di Hicks, ma molte altre questioni aperte del dibattito di teoria economica trovavano ampia collocazione nei percorsi didattici degli studenti, fin dal primo anno di studi universitari.


Negli anni successivi, tuttavia, il quadro è cambiato?

Sì. Per varie ragioni, che trascendono l’ambito strettamente accademico, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta la dialettica tra economisti appartenenti ai diversi filoni di ricerca si è quasi del tutto interrotta e molti docenti hanno manifestato minore interesse verso l’approccio storico-critico. Anche in campo didattico ha quindi iniziato a prevalere un altro tipo di metodologia, tipica della tradizione statunitense. Anziché introdurre lo studente a una conoscenza storica e comparata delle teorie economiche, i principali manuali americani sono incentrati quasi esclusivamente sugli sviluppi recenti della cosiddetta “sintesi neoclassica”, che Blanchard non a caso definisce il “nucleo” della macroeconomia contemporanea.4 Questi libri di testo danno al lettore la sensazione erronea che il pensiero economico evolva lungo un unico sentiero, lineare e progressivo. In quest’ottica essi tendono a esporre solo i dibattiti che si situano in prossimità del percorso evolutivo della “sintesi”. In ciò consiste il cosiddetto “mainstream”, vale a dire la “corrente principale” della teoria economica. Per i più celebri autori americani, le controversie situate al di fuori di quella corrente è come se non fossero mai esistite, o al limite meritano di esser liquidate con poche battute di commento. A questa impostazione aderiva già in parte il celebre manuale di Paul Samuelson, la cui prima edizione risale al 1948.5 Samuelson, tuttavia, aveva l’abitudine di dedicare almeno un capitolo alle correnti di ricerca alternativa e persino qualche riga alle teorie socialiste, lasciando così un piccolo spiraglio aperto verso le scuole di pensiero critico. Questi scampoli di pluralismo sono poi venuti completamente a mancare a partire dalla pubblicazione del celebre manuale di Dornbusch e Fischer, che rappresenta sotto più di un aspetto la “matrice” dei manuali mainstream contemporanei.6 Purtroppo, anche il libro più recente di Joseph Stiglitz attua una chiusura pressoché totale verso le impostazioni alternative.7 In esso, addirittura, si sostiene implicitamente la tesi secondo cui tutti gli economisti aderirebbero al cosiddetto “paradigma della scarsità”, per il quale i rapporti di scambio tra i beni dipendono dalla scarsità relativa degli stessi. In questo modo Stiglitz evita di ricordare ai lettori che questa concezione è condivisa dai neoclassici, ma non dagli economisti che si rifanno al cosiddetto “paradigma della riproducibilità”.


Quali sono le caratteristiche del paradigma della riproducibilità?


Stando a questo paradigma alternativo i prezzi delle merci sono determinati non dalla scarsità relativa dei beni ma dalla necessità di coprire costi e profitti, garantendo così le condizioni di riproduzione del capitale. Il paradigma della riproducibilità prende le mosse da Smith, Ricardo e Marx e si è poi sviluppato prendendo spunto dalle opere di Sraffa, Leontief e da alcuni contributi di Von Neumann. Luigi Pasinetti è uno dei principali interpreti contemporanei di questa linea di ricerca.8 Si tratta insomma di un filone di studi autorevole e fecondo. Eppure, nei manuali che oggi vanno per la maggiore non si fa alcun cenno alla sua esistenza. Accade così che attraverso questa e altre omissioni il cosiddetto “mainstream” tende a presentarsi agli studenti come una sorta di “unique stream”. Il libro di Blanchard, curato in Europa da Amighini e Giavazzi, costituisce la versione didattica più avanzata di questo filone di studi, che oggi viene messo un po’ in discussione a seguito della crisi mondiale ma che tuttora domina pressoché incontrastato nelle aule universitarie.


Dunque, la prevalenza di questo “unique stream” costringe i critici a misurarsi direttamente coi suoi modelli di riferimento? È questo il motivo per cui l’Anti-Blanchard parte subito dal modello di domanda e offerta aggregata?

L’Anti-Blanchard è un saggio breve e ha un obiettivo molto circoscritto: quello di contribuire a suscitare rinnovata attenzione verso un approccio comparato allo studio della macroeconomia. A questo scopo, il saggio prende come riferimento il modello di offerta e domanda aggregata di Blanchard e mette in evidenza che la modifica di poche ipotesi iniziali può determinare un vero e proprio “ribaltamento” delle conclusioni di quel modello. Questo risultato colpisce molto gli studenti, e sembra stimolare positivamente le loro riflessioni e il loro spirito critico. Inoltre, proprio grazie alla estrema compattezza del saggio, il “ribaltamento” dell’analisi può essere ottenuto in un numero di ore di lezione relativamente contenuto. Dunque, un docente che sia intenzionato a fornire ai propri studenti un approccio preliminare di tipo mainstream ma che al tempo stesso non intenda mortificare le loro capacità critiche, potrebbe trarre spunto dall’adozione dell’Anti-Blanchard in affiancamento al manuale di Blanchard. Ovviamente, gli esiti di un simile approccio didattico sono limitati al “ribaltamento” logico del modello di domanda e offerta aggregata e non possono certo essere considerati esaustivi ai fini della formazione di uno studente di economia. Obiettivi didattici più ambiziosi potrebbero essere raggiunti recuperando e aggiornando l’impostazione di tipo storico-critico che era tipica dei manuali della tradizione eterodossa. Oggigiorno, però, scrivere un manuale di base alternativo, che si concentri sui temi macroeconomici e di politica economica e che possa davvero sperare di competere con i principali libri di testo del mainstream, non è un’impresa facile. La maggiore difficoltà, io credo, consiste nell’individuare un criterio che consenta di mettere insieme il recupero dell’approccio storico-critico con l’odierna esigenza di descrivere in termini formali i meccanismi di funzionamento dei modelli esaminati. A mio avviso si tratta di un lavoro in gran parte ancora da compiere, che forse spetterebbe a un collettivo di studiosi.


Nel senso che al giorno d’oggi non esistono esempi di manuali in grado di raccogliere l’eredità dei saggi didattici della tradizione critica rispettando l’esigenza della formalizzazione matematica?

Un esperimento recente, per certi versi interessante, è stato il testo di economia politica di Bowles, Edwards e Roosvelt.9 Quel libro, tuttavia, contiene a mio avviso un limite: esso praticamente rinuncia a un esplicito confronto teorico con l’impostazione dominante. La critica al mainstream a volte è accennata, altre ancora non è esplicitata. Naturalmente, questo criterio ha l’indubbio vantaggio di semplificare la didattica. Io però nutro qualche dubbio verso una esposizione che presenti il confronto con il mainstream in termini solo impliciti, quasi nascosto tra le righe. Al giorno d’oggi, con una didattica mainstream in difficoltà ma senza dubbio ancora pervasiva, un insegnamento critico dell’economia politica e della macroeconomia dovrebbe sempre basarsi su un rigoroso approccio comparato. Nel suo piccolo, l’Anti-Blanchard si attiene fedelmente a questo metodo didattico.


Veniamo allora alle caratteristiche tecniche del suo saggio. Un punto fondamentale è la critica alla curva di domanda aggregata di Blanchard. Lei mostra che essa non è necessariamente decrescente, e quindi che la riduzione dei salari e del livello dei prezzi non determina per forza di cose un incremento della domanda e della produzione. Anzi, nell’Anti-Blanchard si afferma che una deflazione dei salari e dei prezzi potrebbe addirittura ridurre la domanda aggregata anziché aumentarla. Per quale motivo ciò potrebbe accadere?

Le ragioni sono numerose. Quella più citata in letteratura verte sul fatto che la deflazione accresce i tassi d’interesse reali, anche nel caso in cui i tassi monetari siano azzerati. Un’altra, decisamente attuale, verte sugli effetti della deflazione sulla solvibilità dei debitori. La riduzione dei prezzi abbatte i redditi in rapporto ai debiti e tende quindi a deteriorare la posizione finanziaria di numerose unità economiche, che per questo potrebbero essere indotte a ridurre gli investimenti e più in generale le spese.


Queste tesi sono del tutto estranee al mainstream?
 

Niente affatto. Numerosi esponenti della “sintesi” hanno spesso segnalato che una riduzione dei salari e dei prezzi può aggravare una crisi economica per i motivi suddetti e per varie altre ragioni: penso a Tobin, a De Long e Summers, ad Hahn e Solow, o ai contributi più recenti di Eggertsson e Krugman, per citare alcuni nomi fra tanti. Eggertson, tra l’altro, ha mostrato che la flessibilità verso il basso dei prezzi può accentuare una depressione anche nell’ambito dei modelli mainstream di ultima generazione, detti dinamici e stocastici di equilibrio generale.9 Inoltre, come ricordo nel mio saggio, lo stesso Blanchard riconobbe anni fa che la relazione inversa tra tassi d’interesse e investimenti, che è alla base della domanda aggregata decrescente, trova riscontri empirici a dir poco fragili. E’ curioso che simili evidenze vengano pressoché dimenticate nel momento in cui si passa dalla ricerca alla didattica. Nei manuali mainstream di Blanchard, come di Stiglitz e di altri, non si fa alcun cenno al fatto che la domanda aggregata decrescente è solo un’ipotesi tra tante, forse nemmeno la più robusta. Spero che questo problema venga messo in evidenza nelle prossime edizioni di quei libri.


Ma allora, se nella letteratura mainstream si trovano già dei contributi che criticano la domanda aggregata decrescente, perché mai l’Anti-Blanchard dovrebbe essere annoverato tra i manuali di teoria “critica”?

Non vedrei motivi per contestare una interpretazione che tentasse di conciliare l’Anti-Blanchard con i contributi più avanzati della letteratura mainstream. Tuttavia devo precisare che non sarebbe la mia interpretazione. La ragione è che i modelli più avanzati del mainstream riescono a produrre risultati definibili “keynesiani” poiché assumono l’esistenza di imperfezioni di mercato, asimmetrie informative ed eterogeneità degli agenti economici. Se per incanto queste imperfezioni, asimmetrie ed eterogeneità svanissero nel nulla, allora anche i modelli mainstream più recenti tornerebbero a determinare l’equilibrio in base ai tradizionali “fondamentali” della teoria neoclassica: vale a dire, la dotazione di lavoro e di altre risorse produttive, la tecnologia disponibile e le preferenze degli individui. L’equilibrio del sistema economico verrebbe quindi determinato del tutto indipendentemente da nessi causali di tipo keynesiano, come l’idea che l’occupazione dipende in ultima istanza dalla domanda effettiva di merci. Il problema è che la modalità neoclassica di determinazione dell’equilibrio economico lascia in sospeso numerose questioni irrisolte. Basti pensare ai problemi epistemologici che derivano dal fatto che l’equilibrio neoclassico verte su variabili non osservabili come le preferenze, o alle incoerenze mai superate della teoria neoclassica del capitale, come riconosciuto da autori mainstream del calibro di Samuelson. Oppure ancora, si pensi alle difficoltà insite nei metodi dell’equilibrio temporaneo e intertemporale tipici dell’approccio neoclassico contemporaneo. Vari economisti ritengono che tali problemi colpiscano in modo irrimediabile le fondamenta stesse della teoria neoclassica, e quindi anche della macroeconomia mainstream che ne deriva.11 Per questo essi scelgono altri paradigmi, come quello della “riproducibilità”. L’Anti-Blanchard ovviamente non affronta temi così avanzati, ma andrebbe idealmente collocato in questo filone alternativo.


La critica alla domanda aggregata decrescente solleva un problema anche in relazione a un tema politico molto dibattuto, quello della flessibilità dei contratti di lavoro. Benché il manuale di Blanchard non ne parli espressamente, il modello che esso descrive induce a ritenere che una maggiore libertà di licenziamento possa favorire la flessibilità verso il basso dei salari e dei prezzi e possa quindi ridurre la disoccupazione. Tuttavia l’appendice dell’Anti-Blanchard riporta un test statistico che nega l’esistenza di correlazioni significative tra maggiore precarietà del lavoro e minore disoccupazione.12 Il mainstream è dunque smentito anche sul terreno della verifica empirica?

L’appendice statistica del saggio riproduce un noto test dell’OCSE che ha suscitato forti dubbi intorno all’idea convenzionale secondo cui ridurre le protezioni dei lavoratori contribuirebbe a ridurre la disoccupazione. In effetti il risultato del test contrasta con l’idea implicita nel modello di Blanchard, secondo cui una riduzione delle tutele dei lavoratori abbassa la curva del salario reale derivante dalla contrattazione, quindi provoca deflazione e per questa via dovrebbe accrescere la domanda di merci, la produzione e l’occupazione. Il test, invece, appare in sintonia con l’idea di una domanda aggregata non necessariamente decrescente. Naturalmente, nell’Anti-Blanchardquesti nessi fra teoria e dati sono esaminati a un livello puramente didattico. Ciò nonostante, i risultati sono interessanti e tutt’altro che trascurabili.


All’inizio della crisi dell’eurozona, nel giugno 2010, circa trecento economisti pubblicavano una “lettera” contro le politiche restrittive in Europa, che per più di un verso si è rivelata profetica.13 Oggi Krugman e Layard pubblicano un “manifesto per il buon senso economico”,14 anch’esso contrario all’austerity (sebbene curiosamente rivolto ai soli economisti “mainstream”). Quali sono i meriti e i limiti di quel manifesto?

Il merito è che ribadisce ancora una volta che la crisi in corso pone un problema di domanda effettiva insufficiente, e che le politiche restrittive non fanno che aggravarlo. Uno dei limiti è che Krugman e Layard sembrano considerare la “bolla speculativa” una mera deviazione dai cosiddetti “fondamentali” neoclassici. Per questo motivo, nel manifesto essi di fatto sostengono che in condizioni “normali” sarebbe sufficiente che la politica monetaria orientasse i tassi d’interesse verso i livelli “fondamentali” perché si abbia una crescita equilibrata. Per gli economisti che aderiscono al paradigma della riproducibilità, invece, quei “fondamentali” non esistono. Pertanto, la bolla speculativa non può essere interpretata come una mera deviazione, ma deve essere considerata piuttosto come una necessità oggettiva di sopravvivenza, un tassello della condizione di riproducibilità di quel regime di accumulazione del capitale, centrato sulla finanza privata, che ha dominato l’ultimo trentennio fino alla crisi del 2008. Sotto questa diversa prospettiva, la politica monetaria assolve a una diversa funzione ancillare, di salvaguardia della condizione di riproducibilità di quel regime, senza alcun riferimento ai “fondamentali” immaginati dai neoclassici.


Nell’Anti-Blanchard si fa esplicitamente cenno a questa diversa concezione della politica monetaria.

Sì. Il terzo capitolo del saggio è dedicato al tentativo di gettare un ponte tra la didattica e alcune recenti pubblicazioni nel campo della ricerca economica eterodossa. Quel capitolo, tra l’altro, contiene la versione elementare di un modello di teoria della politica monetaria che ho realizzato in collaborazione con Giuseppe Fontana, ed è in corso di pubblicazione sul Cambridge Journal of Economics.15 Partendo in tal caso da un “ribaltamento” della celebre regola mainstream di politica monetaria elaborata da John Taylor, il modello fornisce una descrizione del comportamento del banchiere centrale basata proprio sull’esigenza di garantire la riproducibilità del sistema economico, e in particolare la sua “solvibilità”.


Sembra un divario interpretativo incolmabile. Ciò sta a indicare che gli economisti critici non possono proprio condividere il manifesto di Krugman per il “buon senso” economico?

Sussistono differenze profonde tra i due approcci ma non traccerei una linea di demarcazione invalicabile, né da un punto di vista teorico né politico. Il motivo in fondo è semplice: criticare i modelli o le proposte di politica economica di esponenti dell’attuale mainstream come Krugman o Blanchard è senz’altro più interessante e potenzialmente fecondo che misurarsi, per esempio, con i contributi di Ed Prescott, il quale ha dedicato una vita di ricerche all’improbabile obiettivo di escludere qualsiasi rilevanza della domanda effettiva nella determinazione dei livelli di produzione e di occupazione. Con i seguaci di Prescott si possono imbastire delle controversie anche piacevoli, ma dal punto di vista scientifico temo si perda tempo. Con Krugman e Blanchard no.


L’Anti-Blanchard contiene pure una critica all’analisi di Blanchard della distribuzione del reddito tra salari e profitti. Per Blanchard, le rivendicazioni salariali dei lavoratori sono inutili, visto che nel suo modello gli eventuali incrementi dei salari monetari si scaricano interamente sui prezzi. Questa relazione viene presentata agli studenti come se fosse ovvia…

Ma a guardar bene non lo è. Nel modello di Blanchard la distribuzione del reddito è determinata da un markup, che comprende un margine di profitto sul costo unitario del lavoro. Nelle versioni più avanzate di quel modello il markup viene solitamente ottenuto rinviando a un’analisi di concorrenza imperfetta, e quindi all’incrocio tra una curva non decrescente del costo marginale e una curva decrescente del ricavo marginale.16 Questa modalità di calcolo genera un markup che dipende solo dalla elasticità della domanda rispetto ai prezzi: nota l’elasticità della domanda, anche il markup è determinato. Se dunque il markup è già noto, allora qualsiasi aumento dei salari monetari si tradurrà in un pari aumento dei prezzi, senza alcun effetto sulla distribuzione del reddito e sul potere d’acquisto delle retribuzioni. Questa procedura sembra ineccepibile. Essa tuttavia solleva diversi problemi. Basti notare che se la domanda non è decrescente allora nemmeno il ricavo marginale lo sarà. In tal caso la procedura descritta non è più in grado di determinare il markup e quindi non si può più affermare che la distribuzione del reddito è insensibile alla contrattazione tra imprese e lavoratori.


Attraverso questa critica l’Anti-Blanchard sembra allacciarsi alla concezione della distribuzione del reddito tipica degli studi classici e marxisti.

Bisogna tener presente che il markup del modello di Blanchard non corrisponde al saggio di profitto della “free competition” alla quale si riferivano gli economisti classici. Comunque, se viene negata la possibilità di calcolare il markup in funzione della sola elasticità della domanda rispetto ai prezzi, effettivamente si pone il problema di determinarlo in un altro modo. Tra le possibilità, in questo senso, vi è sicuramente quella di tornare all’idea dei classici, di Marx e di Sraffa, secondo cui le variabili distributive dipendono in ultima istanza dallo stato dei rapporti di forza tra gruppi sociali antagonisti.


In Europa e nel resto del mondo la crisi economica non sembra affatto superata. E’ possibile che siamo alla vigilia di un cambiamento nella concezione prevalente dell’economia? Marx e Keynes, con Sraffa, potranno essere nuovamente gli ispiratori di una “rivoluzione” nel pensiero economico?

Guido Tabellini, attuale rettore della Bocconi, qualche tempo fa si è posto una domanda simile e ha scelto di rispondere negativamente. A suo avviso non ci sarà alcun bisogno di una “rivoluzione” delle idee economiche, perché dai contributi di frontiera della letteratura mainstream lui ritiene possibile trarre corrette interpretazioni della crisi e misure effettivamente in grado di contrastarla.17 Nella lettura di Tabellini mi sembra di ravvisare un eccesso di generosità nei confronti della effettiva capacità euristica della teoria dominante, che è stata messa a dura prova dalla crisi.18 Tuttavia riconosco un fatto: la depressione, pur gravissima, non sembra avere ancora creato le condizioni per una rinnovata battaglia delle idee in campo economico. Gli approcci alternativi faticano tuttora ad affermarsi, sulla scena politica e persino accademica. A mio parere la complessità di questa crisi è tale che, pur partendo dai loro fondamentali contributi, oggi dovremmo andare oltre Marx, Keynes e Sraffa. Per esempio, bisognerebbe approfondire la critica al regime di accumulazione che ha dominato gli ultimi trent’anni attraverso uno studio dei meccanismi di formazione dei prezzi sul mercato finanziario e delle inefficienze che possono determinare sulla distribuzione settoriale degli investimenti, sulla composizione della domanda effettiva e sul grado di utilizzo della capacità produttiva nelle varie branche della produzione. Questa, tra l’altro, è una delle vie attraverso cui si potrebbe recuperare e aggiornare il tema cruciale del “piano”.19 Sull’argomento, a mio parere attualissimo, la tradizionale letteratura critica riesce a dire ancora poco.20 Il problema è che nella fase attuale non si riesce a far progredire il dibattito poiché risulta difficile anche solo ribadire concetti che dovrebbero risultare ormai largamente acquisiti. Basti pensare al fatto che nel dibattito politico appare ancora sconcertante l’idea che una politica restrittiva possa accrescere anziché ridurre il rapporto tra debito e reddito. Insomma, sono passati ormai quattro anni dall’inizio della crisi eppure ancora si fatica a introiettare il principio keynesiano della domanda effettiva. Data la gravità della depressione questo ritardo è esasperante, ma in fondo non dovrebbe meravigliarci. Lo stesso Keynes, già nel 1931, aveva compreso che i cambi di paradigma avvengono in primo luogo grazie all’incontenibile pressione degli eventi, e solo in seconda istanza per il lento decadere dei vecchi pregiudizi.21

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Note
1 Blanchard O., Amighini A., Giavazzi F. (2011), Macroeconomia. Una prospettiva europea, Il Mulino, Bologna.
2 Brancaccio E. (2012), Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia, Franco Angeli, Milano (http://www.emilianobrancaccio.it/2012/04/07/anti-blanchard/).
3 Graziani A. (1992), Teoria economica. Macroeconomia, ESI, Napoli. Jossa B. (1988), Macroeconomia, Cedam, Padova. Roncaglia A. (1994), Lineamenti di economia politica, Laterza, Roma-Bari. Antonio Pesenti (1972), Manuale di economia politica, Editori riuniti, Roma. Cozzi T. e Zamagni S. (1989), Economia politica, Il Mulino, Bologna. Casarosa C. (1991), Manuale di macroeconomia, Carocci, Roma. Arcelli M. (1986), Economia e politica monetaria, Cedam, Padova.
4 Blanchard O. (2000), Macroeconomia, Il Mulino, Bologna, cap. 30.
5 Samuelson P. (1948), Economics, McGraw-Hill, New York.
6 Dornbusch R., Fischer S. (1980), Macroeconomia, Il Mulino, Bologna.
7 Stiglitz J.E. (2001), Principi di macroeconomia, Bollati Boringhieri, Torino.
8 Per un approfondimento su questa linea di ricerca, si può ad esempio consultare Kurz H. e Salvadori N. (1995), Theory of production, Cambridge University Press.
9 Bowles S., Edwards R., Roosvelt F. (2011), Introduzione all’economia politica, Springer-Verlag, Milano.
10 Tobin J. (1980), Asset Accumulation and Economic Activity, Basil Blackwell. De Long, J.B., Summers, L.H. (1986). “Is increased Price Flexibility Stabilizing?”, American Economic Review, 76, 5. Hahn, F., Solow, R. (1995). A Critical Essay on Modern Macroeconomic Theory, Oxford, Blackwell Publishers. Eggertsson, G.B., Krugman, P. (2010), “Debt, Deleveraging and Liquidity Trap”, Federal Reserve Bank of New York, New York. Bhattarai, S., Eggertsson, G., Schoenle, R. (2012), “Is increased price flesibility stabilizing? Redux”, Federal Reserve Bank of New York Staff Reports, New York, n. 540, January.
11 Sul tema si veda Kurz e Salvadori (1995), cit. e Petri F. (2004),General Equilibrium, Capital and Macroeconomics, Cheltenham, Edward Elgar. Cfr. anche Mas-Colell, A. (1989). “Capital theory paradoxes: anything goes”, in Feiwel R. (ed.), Joan Robinson and Modern Economic Theory, London, Macmillan.
12 Suppa D. (2012), Appendice statistica, in Brancaccio E., (2012), cit.
13 http://www.letteradeglieconomisti.it.
14 Il manifesto, tradotto in italiano, è riportato su: http://keynesblog.com/2012/06/28/lausterita-e-smentita-dai-fatti-il-manifesto-di-krugman-per-il-buon-senso-in-economia/.
15 Brancaccio, E., Fontana, G. (2012). “Solvency rule versus Taylor rule. An alternative interpretation of the relation between monetary policy and the economic crisis”, Cambridge Journal of Economics, forthcoming.
16 Blanchard O., Fischer, S. (1992). Lezioni di macroeconomia, Il Mulino, Bologna.
17 Tabellini, G. (2009). “Il mondo torna a correre. L’Italia non si fermi”, AA.VV., Lezioni per il futuro, Edizioni Il Sole 24 Ore.
18 Si vedano i saggi raccolti in Brancaccio E., Fontana G. (eds.), The Global Economic Crisis. New Perspectives on the Critique of Economic Theory and Policy, Routledge, London.
19 Si veda il capitolo “Modernità della pianificazione”, in Brancaccio E., Passarella M. (2012), L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano.
20 Sul tema, si veda Brancaccio E. (2011), “Some contradictions in mainstream interpretations of the crisis”, pp. 20-22, in Brancaccio E., Fontana G. (eds.),cit.
21 Keynes J.M. (2011), Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano (orig. 1931).
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