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L’ipotesi della instabilità finanziaria e il ‘nuovo’ capitalismo

di Riccardo Bellofiore*

minskyQuesta introduzione ha un triplice obiettivo. Chiarire organicamente, passo passo, in modo il più possibile elementare, un pensiero non sempre facile, come quello esposto nel libro che qui si presenta. Integrare le tesi di questo volume con gli sviluppi contenuti nei due libri successivi di Minsky, così come nella sua ultima riflessione sul money manager capitalism e sulla ‘cartolarizzazione’, fornendo così al lettore un quadro aggiornato e d’insieme. Mostrare infine la sorprendente attualità dell’approccio dell’economista americano, quale rivelata dalle dinamiche del ‘nuovo’ capitalismo e dal ritorno della crisi finanziaria (e reale). Una interpretazione ‘finanziaria’ della teoria di Keynes

Il pensiero di Hyman P. Minsky ha ruotato attorno a tre questioni. Innanzitutto, una rilettura di Keynes come economista monetario eterodosso che sottolinea il ruolo essenziale dei mercati finanziari e l’intrinseca non neutralità della moneta. In un mondo caratterizzato dall’incertezza, le oscillazioni degli investimenti privati determinano il ciclo, mentre gli investimenti sono a loro volta influenzati dai rapporti finanziari. Di questo versante della riflessione di Minsky fanno parte integrante il c.d. Modello ‘a due prezzi’ e la ripresa delle equazioni di Kalecki per la determinazione dei profitti.

In secondo luogo, l’ipotesi dell’instabilità finanziaria. Dopo un periodo di crescita tranquilla caratterizzata da una finanza robusta, le strutture del passivo di imprese e banche spontaneamente si spostano verso la fragilità. Il sistema diviene più facilmente soggetto a crisi finanziarie, che si producono periodicamente come effetto del normale funzionamento del meccanismo economico. Ogni stato raggiunto dall’economia è una posizione transitoria, in cui sono impliciti gli sviluppi finanziari che daranno a loro volta luogo alla transizione allo stato successivo. L’evoluzione ciclica del capitalismo – il passaggio dall’espansione al boom, il collasso finanziario e la tendenza alla deflazione da debiti, sino al rischio (o alla realtà) di una ‘grande depressione’ – è proprio il portato necessario della natura monetaria del processo capitalistico sottolineata da Keynes. Ciò che manca alla Teoria generale è l’individuazione delle ragioni per cui la stabilità è destabilizzante: l’evoluzione capitalistica è endogena, ed è dominata dall’andamento delle variabili finanziarie.

Infine, la tesi che l’intervento discrezionale delle autorità di politica economica è in grado di attenuare le forme che assume l’instabilità, fissando dei limiti inferiori e superiori al ciclo. Grazie ai disavanzi nel bilancio dello Stato e al ruolo della Banca Centrale, sia come prestatore di ultima istanza che come regolatore del sistema finanziario, è possibile e ragionevole controllare l’evoluzione delle strutture delle passività dell’economia, e impedire una spirale discendente dei profitti monetari, cioè della variabile chiave che deve convalidare tanto i debiti quanto i prezzi delle attività. Oltre a limitare gli aspetti più destabilizzanti della fragilità sistemica, la politica economica può anche porsi l’obiettivo di ‘fare meglio’, mantenendo la dinamicità dell’attività produttiva e la piena occupazione in un contesto di decisioni decentralizzate. La ricetta di Minsky per curare i difetti del capitalismo che ha dato luogo alla Grande Crisi degli anni Trenta e quelli del capitalismo che ha originato la stagflazione degli anni Settanta coniuga la ‘socializzazione degli investimenti’ e la riqualificazione della spesa pubblica a una profonda riforma del sistema bancario e finanziario.

I tre temi ricorrono, con pesi e accenti diversi, nei tre libri pubblicati da Minsky(1), anche se tutti sono percorsi dal medesimo intento, la costruzione di una interpretazione ‘finanziaria’ della teoria di Keynes. Keynes è il gigante sulle cui spalle Minsky si colloca per vedere più lontano, è il suo punto di riferimento costante nella ricostruzione teorica di un’economia capitalistica con un sistema finanziario stratificato e con un’offerta di moneta endogena, caratterizzata da una inevitabile instabilità. Ciò non di meno, è indubbio che sono diversi gli accenti nei tre scritti. Nel volume che qui si ristampa, il John Maynard Keynes del 1975, l’obiettivo essenziale sembra quello di ritrovare la moneta, la finanza e il ciclo dentro un Keynes diverso da quello della Sintesi Neoclassica, definito ‘bastardo’ da Joan Robinson. In Can ‘IT’ happen again?, del 1982, (Potrebbe ripetersi?: in Inghilterra il titolo fu Inflation, recession and economic policy), una raccolta di saggi dagli anni Sessanta ai primi Ottanta, lo scopo è piuttosto quello di estendere la propria lettura di Keynes sino a farla divenire una compiuta rappresentazione della dinamica interna della morfologia del capitalismo del Novecento. L’ipotesi dell’instabilità finanziaria deve dar conto sia delle cause della Grande Crisi (l’ IT del titolo originale) sia delle ragioni del suo mancato ripetersi. Nel nuovo approccio che viene proposto deve trovare spiegazione la fondamentale instabilità ‘verso l’alto’ del capitalismo, come anche l’inevitabile inversione che conduce al rischio ricorrente della deflazione da debiti e della disoccupazione di massa. Il punto di svolta superiore e inferiore del ciclo sono dovuti soprattutto all’interazione tra modificazioni della struttura finanziaria e intervento di politica economica. In Stabilizing an unstable economy (Governare la crisi. L’equilibrio in una economia instabile), del 1986, una analisi attenta alla diversità istituzionale dei diversi modelli di capitalismo si prolunga nella definizione di una agenda per le riforme.

 

Un economista monetario eretico

La teoria economica tradizionale adotta il ‘paradigma della fiera del villaggio’, muove cioè dall’esame di una economia di baratto, di puro scambio, che viene via via complicata per renderla più realistica. Secondo questo modo di vedere, le caratteristiche centrali di una economia capitalistica possono essere illustrate a partire da un modello in cui non sono presenti né moneta né produzione. Minsky adotta invece un ‘paradigma della City’ o ‘di Wall Street’: parte cioè immediatamente da una economia monetaria con istituzioni finanziarie sofisticate. Il fine degli agenti non è la produzione materiale, fisica, ma l’accumulazione di ricchezza monetaria (produzione di moneta a mezzo di moneta) mediante la ‘speculazione’. Attraverso, cioè, la creazione o la detenzione nei ‘portafogli’ di attività non prontamente convertibili in moneta: o, come scrive Minsky, ‘assumendo posizioni’ in capital assets. Quest’ultimo termine viene reso nelle traduzioni italiane, non del tutto propriamente, con ‘capitale fisso’ o ‘beni capitali’, ma indica in realtà qualsiasi valore che frutti un rendimento in futuro e che non possa essere prontamente liquidato. Può essere costituito da macchine, ma anche da ‘diritti’ o ‘titoli’ su banche, altre imprese, terzi, e così via. Si tratta dunque di un vero e proprio ‘valore capitale’: nel seguito si impiegherà l’espressione ‘attività capitale’, con l’avvertenza che va intesa nel senso appena chiarito. Il possesso di queste ‘posizioni’ deve essere finanziato con capitale proprio o debiti. Per le imprese produttive la ‘posizione’ è costituita dalla proprietà o dal controllo dei beni di investimento necessari per la produzione; per le imprese finanziarie, da attività con mercati secondari ‘poveri’.

La visione di Minsky dei rapporti tra operatori economici si incentra di conseguenza sulla dinamica dei flussi di contante (salari e stipendi per i consumatori, ricavi dalle vendite per le imprese, rispetto degli impegni di pagamento sui crediti per le banche, etc.) e sulle interrelazioni tra bilanci patrimoniali (ovvero sull’intreccio trasversale di passività e attività tra le varie unità, secondo i principi contabili della partita doppia). In una economia del genere, il finanziamento della produzione, dell’investimento e della proprietà di attività capitale - effettuato sulla base di aspettative su un futuro incerto, e la cui verifica verrà fornita da eventi che hanno luogo nel tempo storico, e quindi irreversibile - lega i soggetti alle decisioni prese nel passato e condiziona il funzionamento dell’economia nel periodo corrente.

Il modello elementare di Minsky è quello di una economia chiusa in cui sono presenti prevalentemente operatori privati (con un ‘piccolo’ Stato, cioè dove l’intervento pubblico ha dimensioni trascurabili), e dove l’accumulazione di capitale comporta pressoché inevitabilmente il ricorso al debito, costituito in primo luogo dal finanziamento bancario. In una economia capitalistica devono essere finanziati, oltre alla produzione corrente, anche e soprattutto l’acquisto di nuovi beni di investimento e, più in generale, la proprietà e il controllo di capital assets. Il finanziamento dell’attività produttiva è, per sua natura, un finanziamento a breve termine, anche nel caso si tratti di produzione di beni di investimento. D’altra parte, le posizioni in attività capitale in vario grado illiquide, compresi i beni di investimento (macchine, impianti, edifici, etc.), devono essere finanziate più a lungo termine. Di norma tale finanziamento proviene da una combinazione di capitale liquido proprio e di fondi esterni. Possiamo considerare le ‘banche’, in senso stretto, come il soggetto che finanzia la produzione corrente. Le posizioni nello stock esistente di attività capitale potrebbero essere finanziate anche da altri intermediari finanziari, oppure direttamente dagli stessi risparmiatori, con strumenti la cui liquidità rimanda in ultima istanza alla loro convertibilità in moneta bancaria. E’ in questo senso che Minsky definisce la moneta come un tipo particolare di obbligazione che viene creata man mano che viene finanziata l’attività produttiva, l’investimento, o le posizioni in attività capitale più in generale.

Prima ancora di essere un mezzo di scambio che agevola le transazioni, come nella teoria quantitativa, o una scorta liquida che funge da riserva di valore, come nella teoria keynesiana tradizionale, la moneta è il mezzo di finanziamento che garantisce potere d’acquisto in una economia dove: (i) l’investimento si svolge secondo la linearità del tempo del calendario; (ii) le decisioni di imprese e finanziatori, alla ricerca del profitto, sono avvolte da una incertezza radicale, in quanto non vi è alcuna base scientifica su cui fondare un calcolo probabilistico degli eventi futuri; (iii) l’andamento dell’economia nel tempo riflette, non soltanto la realizzazione delle previsioni relative alla produzione del reddito, ma anche il soddisfacimento dei criteri finanziari; (iv) la struttura delle passività che risulta da questa integrazione della moneta e della finanza nel processo di produzione, di investimento, e di controllo su attività reali e finanziarie, può retroagire, positivamente o negativamente, sulle attese di banche e imprese.

Chi prende a prestito ottiene ‘moneta oggi’ in cambio di una promessa di pagamento di ‘moneta domani’, perché si attende di poter recuperare dall’uso del capitale monetario iniziale una somma che ne consenta il rimborso e lasci un residuo positivo. Chi presta cede dunque un comando certo sul prodotto presente contro un flusso futuro incerto di moneta. Il prestito viene stipulato sulla base di ‘margini di sicurezza’, cioè di protezioni contro situazioni di illiquidità. Nel caso del prestito bancario all’impresa il più fondamentale di questi margini è l’eccesso dei ricavi lordi attesi detratti i costi vivi – in altri termini, le ‘quasi-rendite’ (attese), che possiamo identificare con i profitti lordi attesi (indipendenti dalla struttura delle passività delle imprese e inclusivi, dunque, degli interessi e degli altri oneri da pagare sul debito). I profitti lordi attesi consentono l’attivazione di un finanziamento, i profitti lordi realizzati lo convalidano, e ne consentono dunque il rinnovo. Il finanziamento ‘esterno’ viene promosso sulla base di una aspettativa di flussi di contante in entrata sufficientemente elevati da dare un ‘premio’ rispetto ai flussi di contante in uscita nell’orizzonte temporale rilevante.

I pagamenti da effettuare sugli strumenti finanziari comprendono, per un verso l’obbligo contrattuale di restituire il capitale preso in prestito e l’interesse sul debito, e per l’altro verso l’impegno morale di pagare dividendi sulle partecipazioni azionarie. I flussi di contante in uscita nel periodo corrente sono il prodotto della struttura finanziaria dell’impresa che si è venuta costituendo e modificando nel tempo; gli obblighi finanziari pattuiti nel periodo corrente daranno luogo a impegni di pagamento a date stabilite. La struttura finanziaria influenza e viene influenzata dal comportamento nel tempo dell’economia. Contano, in particolare, la realizzazione o meno dei rendimenti futuri attesi, la dinamica dei tassi di interesse a breve e lungo termine, la facilità o meno di ricorrere al rifinanziamento. Se le previsioni sul rapporto tra flussi di contante in entrata e in uscita, o sulla facilità di accedere a nuovo indebitamento, si rivelassero eccessivamente ottimistiche, l’unità potrebbe trovarsi costretta a ‘creare posizioni vendendo posizioni’ - a liquidare attività accettando il prezzo che si determinerà sul mercato. Per evitare il verificarsi di una eventualità del genere, la ‘assicurazione’ principale è costituita dalla detenzione di riserve di moneta e di altre scorte di valore ad alta liquidità (la detenzione di moneta è il ‘barometro’ della nostra ansietà nei confronti dell’economia e del valore futuro delle attività meno liquide): il che giustifica la presenza di una ‘preferenza per la liquidità’ positiva e variabile. I ‘margini di sicurezza’ sui prestiti comprendono, oltre che il rapporto flussi di contante in entrata/flussi di contante in uscita, il rapporto capitale proprio/debiti e il rapporto attività totali/liquidità.

La strutturazione dell’analisi in termini di flussi di contante, da un lato, e di bilanci patrimoniali, dall’altro, mette bene in risalto il ‘nominalismo’ di Minsky. Banche, imprese e speculatori (ma anche le ‘famiglie’) sono tutti agenti che ‘commerciano in moneta’. Stimano i ricavi monetari attesi, da cui devono detrarre gli oneri finanziari del mantenimento delle posizioni, di cui devono valutare la liquidità. Tutte le unità ‘sono come le banche’, che per costituzione praticano una gestione ‘speculativa’ delle attività e delle passività: finanziano con passività a breve termine la detenzione di attività meno liquide e più rischiose. Quando i rendimenti attesi aumentano e/o i rischi previsti si riducono, è conveniente diminuire le scorte di liquidità e ‘allungare’ il proprio bilancio patrimoniale incrementando il peso delle attività meno liquide in portafoglio. Accettare una struttura del passivo significa scommettere che la situazione futura sarà tale da consentire all’unità di rispettare i propri impegni di pagamento in contante.

Ora, non soltanto tutto ciò è (più o meno altamente) incerto, ma le stesse opinioni su cui si fonda la scommessa sono influenzate dalle modificazioni reali e finanziarie della struttura dell’economia.

 

L’offerta di moneta endogena

Per quel che riguarda l’offerta di moneta, la sua definizione ‘ristretta’ comprende riserve e depositi bancari a vista. Il potenziale di credito delle banche non è fissato da un rapporto rigido con la base monetaria, ma è elastico. Un dato volume di riserve può sostenere un volume di prestiti bancari più o meno variabile, e dunque anche crescente rispetto a quella base (p. es., le banche possono reagire a una politica restrittiva della Banca Centrale di aumento di quel tasso di interesse che esprime il costo opportunità delle riserve, economizzando queste ultime o aumentando i prestiti). Il finanziamento può però avvenire anche attraverso strumenti finanziari diversi dalla moneta in senso stretto. Non soltanto le banche, anche gli intermediari finanziari sono agenti orientati al profitto. Essi cercano costantemente di espandere il credito. Ciò li induce a emettere nuovi tipi di strumenti finanziari che, in quanto siano considerati attività liquide, fungono da moneta. Un dato volume di depositi e di prestiti bancari può sostenere, grazie all’innovazione finanziaria, un volume di finanziamenti all’economia esso stesso più o meno variabile, e che dunque cresce anche se la moneta bancaria in senso stretto non aumenta (vi è qui una applicazione alla finanza degli insegnamenti del maestro Schumpeter, che seguì ad Harvard i primi passi della tesi di dottorato di Minsky, completata sotto la supervisione di Wassili Leontief).

A partire da condizioni di crescita tranquilla, e ancor più al determinarsi di aspettative euforiche e al verificarsi di un boom economico, prende piede e si accelera l’emissione di ‘quasi-monete’, cioè di buoni sostituti che vengono temporaneamente accettati al posto della moneta. La quantità ‘effettiva’ o ‘allargata’ di moneta aumenta. Quando vi è una pressione della domanda sull’offerta di finanziamento e/o tentativi di controllo di un qualche aggregato monetario da parte della Banca Centrale, si determinano pressioni al rialzo sul tasso d’interesse a breve termine. A questo punto le innovazioni negli strumenti di pagamento e nelle pratiche finanziarie promosse da intermediari finanziari a caccia di profitto accelerano, e così pure la velocità della moneta. Sul fondamento costituito dal sistema monetario si erge la piramide di un sistema finanziario sempre più esteso, al cui centro rimane però sempre il sistema bancario. Quest’ultimo è infatti il garante ultimo della accettabilità dei sostituti della moneta e della stabilità dei mercati monetari-finanziari.

Chiunque, scrive Minsky, può creare moneta: il difficile è farla accettare dal pubblico. Tale accettazione dipende, in prima battuta, dalla garanzia delle banche commerciali e, in ultima e decisiva istanza, dalla Banca Centrale. Durante l’espansione e poi nella fase euforica della crescita si affievolisce la percezione della diversità della quasi-moneta dalla moneta, che torna in primo piano nella crisi.

L’offerta di moneta non è dunque data una volta per tutte: la sua definizione qualitativa e la sua dimensione quantitativa mutano nel ciclo. La quantità di moneta effettivamente in circolazione non è ‘esogena’ ma dipende dalla domanda di finanziamento. Quando la struttura e le abitudini del sistema finanziario sono date, l’offerta di moneta non è illimitata: ciò non di meno, quando il ciclo economico o l’intervento delle autorità, che aumentano il tasso d’interesse di base, inducono le banche o gli istituti finanziari a ridurre la moneta inattiva e a creare nuovi sostituti della moneta, essa diviene, temporaneamente, infinitamente elastica. Nel tempo, la funzione di offerta di moneta ‘allargata’ rispetto al tasso d’interesse è insomma ‘a gradini’. La determinazione endogena dell’offerta di moneta - tanto in senso stretto quanto in senso lato - disponibile per il finanziamento è rinforzata quando, nell’espansione e in conseguenza di risultati migliori di quelli attesi, le unità riducono i margini di sicurezza, che ora appaiono eccessivamente prudenti. In altri termini, si finanzia l’investimento con ‘trasformazioni di portafoglio’, riducendo la liquidità degli stati patrimoniali.

La politica monetaria risulta spesso inefficace, se non addirittura controproducente, non soltanto quando è di tipo espansivo ma anche quando è di tipo restrittivo. La Banca Centrale può tentare di controllare le riserve. Ciò nonostante la moneta effettiva è in grado di espandersi per altri canali, come un più elevato moltiplicatore dei depositi, oppure una modificazione delle abitudini finanziarie che accelera la velocità della moneta, o la espansione delle ‘quasi monete’, e anche grazie alla riduzione endogena dei margini di sicurezza nella fase di prosperità e poi di euforia. Ciò non significa che la Banca Centrale non possa riuscire infine a controllare la quantità di moneta complessiva. L’efficacia dell’intervento restrittivo, però, è legata alla sua determinazione nell’imporre massicci interventi di riduzione delle riserve, il che si verifica quando il boom è ormai abbastanza avanzato. Il prezzo è un repentino e inatteso aumento del tasso d’interesse (a breve): esattamente il tipo di evento che può scatenare una crisi finanziaria. Insomma, la politica monetaria raggiunge i suoi scopi soltanto con il rendere rigida l’offerta di moneta, e ciò avviene proprio quando la domanda di finanziamento è altamente anelastica, e i bilanci patrimoniali sono appesantiti da debiti e sprovvisti di liquidità. Se non si vuole far precipitare il sistema nella deflazione da debiti e in una depressione duratura occorre che la Banca Centrale inverta il segno della sua azione, rifornendo le banche di base monetaria. Il che conferma, per altra via, la natura endogena della moneta (anche se nell’approccio originale di Minsky ciò significa la determinazione interna al modello non solo della quantità di moneta offerta ma anche del tasso di interesse).

In questo mondo le banche svolgono un essenziale ruolo di selezione della validità dei progetti sottoposti dalle imprese per ottenere il finanziamento. La capacità di selezionare i mutuatari è legata alla abilità delle aziende di credito di reperire le informazioni necessarie a valutare la solvibilità dei clienti potenziali. La stabilità del sistema bancario è cruciale per la stabilità del sistema finanziario nel suo complesso. La tutela della stabilità del sistema delle banche e degli intermediari finanziari non può allora non costituire l’obiettivo primo dell’azione della banca centrale. Il fatto che le banche siano il perno attorno a cui ruotano le altre istituzioni finanziarie, e la difficoltà di ridurre la moneta a un gruppo specifico di debiti, giustifica gli interventi dell’istituto di emissione come ‘prestatore di ultima istanza’.

 

Il modello a due prezzi

I flussi monetari intertemporali (incerti) e i bilanci patrimoniali (interconnessi) intervengono nella determinazione della domanda e, conseguentemente, della produzione dei beni di investimento. Per vedere in che modo è opportuno far riferimento al modello ‘a due prezzi’ di Minsky (che include un riferimento al ‘principio del rischio crescente’ di Kalecki). Nel modello a due prezzi è evidente l’influenza su Minsky del Trattato sulla moneta di Keynes.

Il primo prezzo è il ‘prezzo della produzione corrente’, cioé è l’insieme dei prezzi relativo all’offerta tanto dei beni e servizi di consumo quanto dei beni di investimento (e anche dei beni e servizi che lo Stato acquista dai produttori capitalistici). I produttori di merci, che intrattengono determinate aspettative di breve periodo su costi e domanda nel periodo, fissano tali prezzi di offerta in modo da recuperare i costi diretti (la cui componente principale, in aggregato e per una economia chiusa, è costituita dai salari monetari) e caricano su questi ultimi una percentuale per i costi generali e il profitto, secondo il principio del costo pieno. Detratti i costi generali, si ricava il profitto ‘lordo’ (inclusivo dei pagamenti sul debito). Per quanto riguarda in particolare i beni di investimento, si tratta della definizione del prezzo di offerta – cioè del prezzo appena sufficiente a indurre a produrre il nuovo bene capitale - nel caso in cui non siano necessari fondi presi a prestito all’esterno, e dunque si possa non tener conto dei costi del finanziamento. E’ il reddito lordo da capitale meno i pagamenti lordi sui debiti e per dividendi a stabilire l’ammontare massimo possibile di finanziamento interno. Se però l’impresa va oltre l’autofinanziamento, e finanzia con debito l’acquisizione dei beni di investimento, i loro prezzi di offerta devono incorporare anche il ‘rischio del creditore’: cioè il rischio che i mutuanti, in primis le banche, assegnano ai prestiti ulteriori da concedere a imprese già indebitate – se si vuole, il rischio di perdere la moneta investita. Tale rischio si incarna in variabili ‘oggettive’ costituite dal costo del finanziamento e dagli accordi espliciti previsti nei contratti; l’uno e gli altri costituiscono una maggiorazione sul costo del bene d’investimento venduto, quindi sul suo prezzo di offerta. Al salire del ‘rapporto di indebitamento’ (cioè ad un innalzarsi del c.d. leverage), il rischio in questione aumenta al margine, e con esso il prezzo di offerta del bene di investimento, che ha dunque un tratto crescente. Nella sua determinazione giocano un ruolo essenziale le condizioni dei mercati monetari e finanziari (inclusa l’offerta di moneta e di attività liquide) e la preferenza per la liquidità, in quanto definiscono le condizioni del finanziamento e i margini di sicurezza pattuiti tra creditori e debitori.

Vi è poi il secondo prezzo, il ‘prezzo dei capital assets’, anch’esso un sistema di prezzi delle varie attività capitale, che incide in particolare sulla fissazione del prezzo di domanda dei beni di investimento.

L’ammontare di investimento dipende evidentemente dal rapporto tra prezzo di domanda e prezzo di offerta dei nuovi beni capitale. Più precisamente, l’investimento verrà effettuato se il prezzo di domanda espresso dalle imprese acquirenti i beni di investimento è superiore o uguale al prezzo di offerta di quegli stessi beni di investimento. Tale prezzo di offerta è in larga misura dipendente dal prezzo della produzione corrente (fissato, come si è visto, secondo il principio del mark up sui costi diretti), a cui si devono però aggiungere anche i costi del finanziamento, che hanno a che vedere con il mercato delle attività e con i mercati finanziari. Per quanto riguarda il prezzo di domanda – il massimo prezzo che l’acquirente del bene di investimento è disposto a sborsare – esso dipende invece, strettamente e prevalentemente, dal prezzo di mercato dello stock delle attività capitale quale si riflette nel corso dei titoli.

Con Minsky, concentriamo l’attenzione sulle azioni, considerando le obbligazioni un caso intermedio tra queste ultime e i prestiti bancari: esiste d’altronde, all’interno delle attività capitali, una similitudine tra strumenti finanziari e beni capitali in senso stretto, perché, come sappiamo, i primi (eccetto la moneta) come i secondi danno luogo a rendimenti monetari attesi (flussi di reddito o guadagni in conto capitale) in cambio di impegni di pagamento in contante. Il valore delle posizioni in attività capitale è dato dalla attualizzazione dei loro rendimenti futuri; è sensibile quindi alle aspettative di lungo periodo delle imprese e degli azionisti. Il fattore di attualizzazione degli incassi netti attesi dipende però anche dal tasso d’interesse previsto sui prestiti monetari, che costituisce il costo-opportunità, e dal rischio specifico stimato sull’ ‘investimento’, per l’incertezza che circonda tanto le quasi-rendite che esso promette quanto la liquidità delle posizioni in questione. Quando l’investitore deve ricorrere a fondi esterni, il prezzo di domanda dei beni di investimento deve essere defalcato di una somma rappresentante il ‘rischio del debitore’. Tale rischio, ‘soggettivo’, cresce quanto maggiore è l’impiego di quel particolare bene capitale (aumenta il rischio di fallimento) e con la quota di finanziamento esterno richiesto (aumenta il rischio di insolvenza). La funzione del prezzo di domanda è perciò caratterizzata da un tratto decrescente.

Il punto chiave è che il prezzo di domanda dei capital assets è in larga misura sganciato dai loro costi di produzione. Una smentita delle aspettative nel periodo corrente – sui flussi di contante in entrata o in uscita, o sulla possibilità e i costi di un rifinanziamento - può condurre a una revisione delle aspettative di lungo periodo, e quindi a mutamenti nella valutazione delle attività capitale. Vi è una indipendenza, e anche una maggiore instabilità, del ‘secondo’ sistema dei prezzi, quello relativo ai mercati delle attività capitale e che influenza potentemente il prezzo di domanda dei nuovi beni capitale, dal ‘primo’ sistema dei prezzi, quello della produzione corrente, che include al suo interno il costo di produzione dei beni di investimento (a cui si aggiunge poi, come si è detto, una componente ‘finanziaria’). E quella instabilità è dovuta proprio al fatto che Minsky riconduce il prezzo di domanda dei nuovi beni capitali al prezzo dei titoli. Da un lato, spostamenti nelle preferenze di portafoglio degli operatori si traducono in variazioni dell’investimento; dall’altro, gli stessi prezzi delle azioni dipendono dalle aspettative su ciò che residua dei flussi di contante in entrata, una volta che le imposte e gli impegni di pagamento sui debiti vengano detratti dai profitti lordi. Esistono legami e retroazioni complessi, che possono andare nei due sensi, e su cui si possono innestare dinamiche speculative.

Il rapporto tra il prezzo delle attività capitale e il prezzo della produzione corrente è per Minsky il prezzo relativo fondamentale dell’economia capitalistica. In questo senso: che quando il prezzo dei capital assets è ‘alto’ rispetto al prezzo della produzione corrente, ciò è indice di condizioni favorevoli all’investimento. Quando quel prezzo relativo è invece ‘basso’, aumenta la probabilità di una recessione o di una depressione. Ma nel ragionamento di Minsky a giocare un ruolo chiave è più precisamente il fatto che, per quel che riguarda i beni di investimento, è all’interno del sistema del prezzo delle ‘attività’ finanziarie che ha origine il prezzo di domanda, ed è all’interno del sistema dei prezzi della produzione corrente che stanno le forze che in larga parte determinano il prezzo di offerta. Il rapporto tra prezzo di offerta e prezzo di domanda dei nuovi beni capitali è a sua volta cruciale perché è ciò che determina la quantità di investimento e la sua dinamica. L’incontro tra la funzione del prezzo di domanda e la funzione del prezzo di offerta dei beni di investimento è - sulla base della possibilità di finanziamento interno, del rapporto di indebitamento e delle condizioni del finanziamento delle posizioni in attività capitali - ciò che provoca l’esaurimento del processo di investimento e l’arresto dell’accumulazione. Grazie al suo modello a due prezzi, Minsky può mettere al lavoro la sua analisi della moneta e del finanziamento, e integrarla nella teoria dell’investimento. Per una data serie di aspettative di breve e di lungo periodo, per ogni stato di incertezza, e con dati margini di sicurezza, le variazioni della quantità di moneta determinano il tasso di interesse sui prestiti monetari e il valore della liquidità. Tenuto conto della rispettiva liquidità, è possibile derivare i coefficienti di attualizzazione delle quasi-rendite attese dai beni di investimento e dalle attività finanziarie; e per il tramite dei coefficienti di attualizzazione è possibile ricavare il prezzo di domanda di ogni nuova unità di bene di investimento acquistato. La condizione di eguaglianza con il prezzo di offerta dà il valore dell’investimento effettuato. La somma di tutti gli investimenti delle singole imprese ci dà l’investimento aggregato.

Il ragionamento di Minsky differisce dalla formulazione originaria di Keynes in quanto reintroduce esplicitamente il prezzo dei capital assets nell’analisi della determinazione della domanda monetaria. Esso ripercorre peraltro le orme della Teoria generale: (i) per un dato stato di incertezza e delle aspettative, variazioni della quantità di moneta determinano il tasso d’interesse, producendo uno spostamento lungo la funzione di preferenza per la liquidità; (ii) le aspettative di lungo periodo determinano il rendimento scontato dei flussi di contante attesi; (iii) il valore attualizzato dei profitti lordi attesi e il tasso d’interesse determinano congiuntamente la funzione del prezzo di domanda dei beni d’investimento; (iv) la quantità acquistata del nuovo bene capitale è individuata dal punto di intersezione della curva del prezzo di domanda con la curva che esprime il prezzo di offerta dei beni d’investimento.

La considerazione della struttura delle passività e dell’endogeneità della quantità di moneta ‘effettiva’ consentono peraltro a Minsky di chiarire che anche mutamenti nei portafogli e negli stati patrimoniali degli agenti indotti da un miglioramento dello stato di fiducia hanno effetti positivi immediati sul prezzo dei capital assets e sull’ammontare degli investimenti. Analogamente può operare la creazione di moneta e di quasi-moneta. Secondo Minsky, una diminuzione della preferenza per la liquidità va di pari passo con una più facile accettazione di strumenti finanziari emessi in contropartita ai nuovi finanziamenti. I due fattori insieme fanno spazio ad un aumento del rapporto tra impegni di pagamento a breve termine e le quasi-rendite attese a breve termine, e fanno conseguentemente salire il prezzo delle attività capitale. Vale ovviamente la sequenza inversa, a partire da una distruzione endogena della quantità di moneta e quasi-moneta in presenza di una più elevata preferenza per la liquidità. Di conseguenza, l’offerta di finanziamenti per la produzione e per le posizioni in beni capitale aumentano (si assottigliano) proprio mentre cade (sale) la domanda tanto precauzionale quanto speculativa di moneta, e al contempo si impenna (crolla) la domanda di finanziamenti per l’accresciuto (il ridotto) desiderio di investire.

L’espansione degli investimenti - se le aspettative sono convalidate – genera una maggiore offerta di moneta, una minore propensione alla liquidità, e più pesanti strutture del passivo. Si ritiene conveniente aumentare il volume di attività reali e finanziarie scarsamente liquide detenuto, e razionale accontentarsi di margini di sicurezza più esigui. Il che dà luogo a minori scorte di liquidità in rapporto al valore di mercato delle attività acquistate, e ad impegni di pagamento in contante più elevati (e spesso a più breve termine), i quali a loro volta dovranno in futuro essere convalidati da un crescente flusso di profitti lordi. Questo maggiore rapporto di indebitamento, e il conseguente servizio del debito, risulteranno sostenibili soltanto se le aspettative ottimistiche otterranno conferma.

 

La centralità dei profitti

In Minsky la relazione critica nella dinamica capitalistica, una volta introdotta la presenza dello Stato, è quella tra profitti lordi dopo le imposte, da un lato, e impegni di pagamento di contante sui debiti, dall’altro. Le quasi-rendite attese devono essere superiori agli impegni futuri di pagamento, se non in ogni periodo, almeno nel corso dell’orizzonte temporale rilevante, affinché risulti conveniente procedere alla produzione e all’acquisizione di attività capitale. Il mantenimento nel tempo dello scarto positivo tra flussi di contante in entrata e flussi di contante in uscita dipende dalla realizzazione delle aspettative sulla serie di rendimenti attesi ma anche dalla serie temporale degli impegni di pagamento, e questa a sua volta discende dalla struttura del debito ereditata dal passato e dall’andamento del costo del finanziamento nel periodo corrente. I profitti realizzati forniscono i flussi di contante da cui le imprese traggono i fondi per far fronte agli impegni originati dal debito. I profitti attesi, che dipendono dai profitti realizzati, costituiscono, se sufficientemente elevati, lo stimolo per l’investimento; essi determinano inoltre la capacità delle imprese di rinnovare il debito esistente e eventualmente di accendere nuovi debiti. Di conseguenza, le aspettative presenti sui profitti futuri governano le decisioni di investimento e di finanziamento mentre i profitti realizzati convalidano o meno le decisioni passate. I profitti sono la variabile chiave non soltanto della crescita ma anche della dinamica finanziaria dell’economia. Una centralità confermata dalla ripresa da parte di Minsky delle c.d. ‘equazioni di Kalecki’ in alcuni scritti di poco successivi a John Maynard Keynes, e a cui ha poi costantemente fatto riferimento.

Immaginiamo in prima approssimazione una economia ‘chiusa’ senza Stato, con soltanto banche, imprese e lavoratori, dove si producono un bene composito di consumo e un bene composito di investimento. La propensione al consumo dei lavoratori è pari all’unità, quella dei capitalisti è nulla. I profitti nel settore che produce beni di consumo sono pari al monte salari dei lavoratori occupati nella produzione di beni di investimento: la fissazione di un prezzo che contiene una maggiorazione sui costi di lavoro è l’espediente per ripartire tra tutta la forza lavoro del sistema l’ammontare di beni resi disponibili ai lavoratori. Visto che i profitti totali sono pari alla somma dei profitti nei due settori, essi saranno uguali alla somma dei salari nel settore che produce beni di investimento (pari, come si è detto, ai profitti nel settore dei beni di consumo) e dei profitti. I profitti complessivi sono perciò pari agli investimenti aggregati nel settore che produce beni di investimento. Questa identità va letta nel senso che sono gli investimenti a determinare i profitti e non viceversa, visto che i capitalisti come classe possono decidere quanto spendono, non quanto guadagnano. La domanda totale di consumi è finanziata immediatamente dal reddito distribuito in salari. La produzione, tanto di beni di consumo quanto di beni di investimento, è invece finanziata inizialmente dalle banche con prestiti a breve termine. La domanda di investimenti, in quanto non sia coperta dal ricorso al mercato dei titoli, è finanziata o, di nuovo, dalle banche, o per il tramite degli intermediari finanziari. Il livello e la composizione della domanda effettiva definiscono la distribuzione del reddito. Più alta la spesa per investimenti, come quota del reddito, più alto il mark up, e dunque il livello dei prezzi della produzione corrente. Il diverso modo di finanziamento della spesa stabilisce la gerarchia tra le classi e tra i diversi tipi di domanda, autonoma o indotta.

Questa conclusione non viene cancellata ma soltanto complicata se si ammette la presenza dello Stato o l’apertura dell’economia. I flussi di contante che le imprese hanno a disposizione per soddisfare gli impegni di pagamento, divengono però funzione diretta dei disavanzi nel bilancio pubblico del Big Government. La tesi keynesiana di un effetto stabilizzante della politica fiscale espansiva viene rinforzata: se la spesa dello Stato eccede le imposte l’esito non è soltanto una espansione della domanda effettiva ma anche un sostegno alla struttura delle passività tramite i profitti. In una economia aperta, i profitti lordi possono essere ingrossati anche da un avanzo della bilancia commerciale. In generale, essi sono depressi dal risparmio sui salari e favoriti dal consumo sui profitti.

Nel corso di una fase di sviluppo ‘tranquillo’, e ancor più in una di boom ‘euforico’, la crescita degli investimenti, attraverso l’effetto del moltiplicatore della domanda autonoma, produce un aumento della domanda aggregata e del reddito, e in particolare dei profitti lordi realizzati. Il fatto che una variazione positiva degli investimenti si traduca in un gonfiamento degli utili effettivi può, se questi ultimi sono superiori a quelli attesi, determinare un finanziamento interno maggiore di quello preventivato, e un rapporto di indebitamento minore di quello desiderato. I due fenomeni conducono a una revisione al ribasso della valutazione dei due rischi, del debitore e del creditore. Impiegando il modello a due prezzi, l’effetto positivo sulle aspettative e la sottovalutazione dei rischi da parte di mutuanti e mutuatari spingono ancora di più verso l’alto l’investimento e il rapporto di indebitamento. In una fase di depressione dell’economia è in atto una tendenza opposta.

 

La classificazione delle posizioni

Su questa base, e contro l’ortodossia di ieri (la Sintesi Neoclassica tra equilibrio economico generale e keynesismo ‘bastardo’) e di oggi (il Nuovo Consenso tra monetaristi e ‘nuovi’ keynesiani), il ragionamento di Minsky può spiegare il succedersi endogeno di stabilità e di instabilità, non riducendo il ciclo a effetto di shock esogeni, errori di politica economica, irrazionalità. L’unico ingrediente che ci manca per descrivere l’evoluzione ciclica del capitalismo proposta da Minsky è in effetti la sua tassonomia delle posizioni finanziarie.

Sappiamo che l’acquisizione e la proprietà di attività non prontamente convertibili in moneta (inclusi i beni di investimento) – le posizioni in capital assets - devono essere finanziate. La detenzione di attività reali e finanziarie deve fruttare flussi di contante in entrata in eccesso rispetto ai flussi di contante in uscita per gli oneri del finanziamento. Gli impegni di pagamento possono essere esauditi ricorrendo ai flussi normali di contante, principalmente flussi di reddito. Se questi non sono adeguati, occorrerà ricorrere a fonti di contante ‘straordinarie’, come l’emissione di nuove passività (rifinanziamento), o ‘secondarie’ (come la liquidazione di alcune attività), o ricorrendo a fonti di contante di ‘emergenza’ (come i flussi di cassa di portafoglio). Soddisfare gli impegni di pagamento grazie al flusso di contante dal reddito costituisce, per così dire, la via della finanza ‘sana’. Il rifinanziamento è invece soggetto al rischio che le condizioni del nuovo indebitamento siano meno convenienti di quelle del finanziamento originario. La vendita di attività è ancora più pericolosa, in quanto può, se i mercati secondari non esistono o sono inefficienti, determinare una caduta vertiginosa dei prezzi dei titoli. I portafogli possono infine essere non adeguatamente provvisti di attività sicure come titoli del debito pubblico o oro, di attività protette, come obbligazioni e depositi a risparmio, e di contante ozioso.

A seconda del rapporto che si instaura tra entrate di cassa (stimate, incerte e soggette a revisione) e impegni (certi) di pagamento sui debiti, la struttura finanziaria delle unità può trovarsi in una delle seguenti tre situazioni.

(i) La posizione finanziaria è ‘coperta’ nel caso in cui i flussi di contante di reddito in entrata siano in eccesso rispetto agli esborsi sulle passività in ogni periodo. Il valore attuale atteso dall’operatore è positivo ad ogni possibile tasso d’interesse. Il debito si ridurrà progressivamente, e l’unità sarà in grado di aumentare sia il capitale proprio sia la liquidità detenuta come assicurazione. Una struttura finanziaria coperta non è esente dal rischio ‘economico’, che è legato all’andamento dei mercati dei beni e del lavoro, p. es. quando le quasirendite realizzate sono inferiori a quelle attese. E’ però esente dal rischio ‘finanziario’.

(ii) La posizione finanziaria è ‘speculativa’ se a breve termine (anche se non sull’intero orizzonte temporale dell’investimento) le entrate di contante risultano inferiori agli impegni di pagamento dovuti, ma la parte di reddito dei flussi di contante è pur sempre superiore al costo dell’interesse sul debito. Per una certa fase, il rimborso del capitale preso a prestito richiede un rifinanziamento, a meno di ricorrere alle riserve di liquidità o alla vendita di attività. Esiste un particolare tasso di interesse, sufficientemente elevato, che invertirebbe il segno del valore attuale netto dell’investimento. La struttura finanziaria speculativa è soggetta dunque anche ad un rischio ‘finanziario’: al buon esito dell’investimento contribuisce ciò che avviene sui mercati monetari e finanziari. In particolare, un aumento del tasso di interesse può ridurre, eliminare o trasformare in perdite i profitti attesi. Se però le attese sull’andamento dei flussi di contante di reddito e sull’andamento dei tassi di interesse passivi si realizzano senza intoppi, la dinamica del debito, del capitale proprio, e della liquidità precauzionale è quella definita per la finanza coperta.

(iii) La posizione finanziaria è ‘ultraspeculativa’, o ‘Ponzi’, quando la parte di reddito dei flussi di contante è, nel breve termine o anche per buona parte dei periodi rilevanti, addirittura inferiore rispetto alla parte di interesse sui pagamenti. Si deve prendere a prestito, non soltanto per finanziare la restituzione della quota capitale sul prestito iniziale, ma anche per onorare il pagamento dei relativi interessi. Nella fase iniziale dell’investimento il debito cresce, e sarà perciò necessario tener conto anche della restituzione dei nuovi debiti e dei connessi oneri finanziari. Affinché le entrate totali di contante siano più alte dei pagamenti totali di contante sul debito, sull’intero orizzonte dell’investimento, deve allora verificarsi un qualche ‘profitto eccezionale’ da un certo punto in poi. Per le posizioni Ponzi, non soltanto esiste un rischio finanziario, ma anche piccole variazioni dei tassi a breve possono far svanire le quasi-rendite attese.

Una caduta dei guadagni attesi può trasformare una struttura finanziaria ‘coperta’ in una struttura finanziaria ‘speculativa’. Un aumento dei tassi di interesse può trasformare unità ‘speculative’ in unità ‘ultraspeculative’, e può tramutare un valore attuale positivo in un valore attuale negativo anche a parità di aspettative di profitto. Un aumento inatteso dei tassi d’interesse di breve termine, o anche una caduta del valore delle attività che possono venire impiegate per ‘creare posizione’, può a questo punto determinare l’insuccesso dell’investimento. Le imprese indebitate possono ritrovarsi a non poter rispettare gli impegni di pagamento, e la loro insolvibilità può tradursi in una illiquidità delle banche o degli intermediari finanziari. Può verificarsi tanto che le banche finanziatrici non rinnovino i prestiti, quanto che si determini una ‘corsa agli sportelli’. Il mutuo legame degli operatori nella rete di flussi monetari e nella concatenazione degi stati patrimoniali, l’integrazione tra finanza e produzione, e la posizione centrale degli istituti di credito nel sistema finanziario, fanno sì che le crisi di un particolare insieme di imprese si generalizzino, e che le difficoltà del sistema bancario abbiano un impatto potenzialmente ancor più devastante. Quanto più nell’economia sono presenti unità in posizione speculativa o ultraspeculativa, tanto più il sistema è ‘fragile’, nel senso che un piccolo shock può generare una grave deflazione da debiti.

Vi è qui una evidente eco di Irving Fisher nella riflessione di Minsky. Le unità cercano di disfarsi dei debiti svendendo beni e attività, ma la conseguente caduta del livello dei prezzi porta ad un onere del debito maggiorato in termini reali. Un fenomeno connesso è il c.d. ‘deceleratore finanziario’ presente nella riflessione di Ben Bernanke, quando, per lo spettro dell’insolvenza, sempre più operatori finanziari devono ‘liquidare’ attività: ma se lo fanno tutti insieme, questo non aiuta i bilanci, li affossa. Si impone con violenza il deleveraging, la riduzione del rapporto di indebitamento: è in atto una sorta di radicale ‘ripudio’ del debito e di estrema ‘semplificazione’ delle strutture finanziarie. Insieme a investimenti, profitti, reddito, e occupazione, crollano la fiducia e la velocità di circolazione della moneta. Il tasso di interesse in termini reali aumenta nonostante la riduzione del tasso di interesse nominale. Se non contrastata da un adeguato intervento di politica economica, una dinamica del genere sfocia in una profonda e duratura ‘grande’ depressione.

E’ questa l’ ‘ipotesi della instabilità finanziaria’ che asserisce che in una economia capitalistica avanzata, in conseguenza della ‘tranquillità’ o della ‘prosperità’, si determinano per forza propria delle modifiche nelle relazioni relative ai flussi di contante in entrata e in uscita che trasformano un sistema finanziario inizialmente solido in un sistema fragile; e afferma inoltre che la fragilità tende a degenerare in una crisi finanziaria aperta a seguito del normale funzionamento dell’economia. La stabilità è destabilizzante.

 

L’ipotesi della instabilità finanziaria

Ipotizziamo di trovarci in una situazione finanziariamente robusta, dove gli operatori sono nella quasi totalità in posizione coperta. L’economia ha un passato ciclico, ma si trova attualmente in condizioni di sviluppo ‘tranquillo’. Crisi del recente passato sono presenti alla memoria degli agenti, che preferiscono strutture delle passività dotate di ampi margini di sicurezza, e i bilanci patrimoniali godono di abbondante liquidità. Con il procedere senza scosse della ‘prosperità’ le aspettative ottimistiche dei soggetti vengono confermate. Per un verso, si sconta un andamento positivo delle quasi-rendite future sugli investimenti nelle varie forme di capitale, e si scommette su un apprezzamento del valore delle attività sia reali che finanziarie; per l’altro, i margini di sicurezza ereditati appaiono eccessivamente prudenti, e si abbassa il valore di assicurazione attribuito alla detenzione di moneta. Si riduce perciò la domanda sia precauzionale che speculativa di moneta. Al decremento dei margini di liquidità si affianca una spinta verso l’alto della domanda di indebitamento, che può essere soddisfatta senza difficoltà dalle banche e dagli intermediari finanziari, o tramite una maggiore emissione degli strumenti finanziari già in circolazione, o introducendo nuovi strumenti finanziari. Favorevole clima delle aspettative, riduzione della preferenza della liquidità e dei margini di sicurezza, espansione monetaria e innovazione finanziaria producono, in prima battuta, l’aumento dei prezzi delle attività capitale rispetto al prezzo di offerta dei nuovi beni capitale. Ne segue l’innalzamento della domanda di beni di investimento, e quindi della loro produzione, con una impennata dei profitti lordi. Il finanziamento interno sarà maggiore, e il finanziamento esterno minore, del previsto. Si inizia a sottostimare i rischi tanto dal lato dei debitori quanto dal lato dei creditori. Tutto ciò non può che facilitare la convalida dei debiti passati e favorire le imprese che hanno rischiato di più. La tranquillità lascia il posto all’ ‘euforia’, e la prosperità si trasforma nel ‘boom’. In questa visione, l’instabilità verso l’alto, e il suo finanziamento, sono generati endogenamente.

Secondo Minsky, la fase di tranquillità è caratterizzata da un tasso d’interesse a breve termine notevolmente più basso del tasso d’interesse a lungo termine. L’accrescimento del rapporto di indebitamento nel corso del processo ciclico si accompagna di conseguenza ad un maggior peso del finanziamento di breve termine impegnato in capitale fisso e in attività finanziarie a lungo termine. Sale la proporzione delle unità che si trovano in posizione speculativa e ultraspeculativa. Al principio ciò non determina tensioni particolari, ma è da escludersi che il processo possa proseguire indisturbato.

La ragione può essere chiarita soffermandosi un attimo sulla situazione delle banche e delle imprese. Le banche sono agenti costitutivamente in posizione speculativa, avendo passività a breve e attività a lunga. L’ ‘allungamento’ dei loro bilanci che si dà nella fase ascendente le vede divenire sempre più fragili. Ciò significa che presto o tardi la loro disponibilità a concedere ulteriori finanziamenti sarà a tassi d’interesse crescenti, e che l’offerta di crediti bancari diverrà sempre più rigida. Le imprese, dal canto loro, devono finanziare la produzione a breve termine ricorrendo al prestito bancario, sia che producano beni di consumo sia che producano beni di investimento, e si aspettano di recuperare i loro costi più il margine di profitto dalle vendite. Per quel che riguarda in particolare i beni di investimento, il loro processo di costruzione si distende su più periodi, e il loro rendimento dipende esso stesso da un futuro incerto che coinvolge più periodi. Il finanziamento finale che permette ai produttori di beni di consumo di soddisfare le proprie esigenze di contante per gli impegni contrattuali sul debito proviene dalla spesa del monte salari complessivo; mentre il finanziamento finale di cui hanno bisogno i produttori di beni di investimento per il medesimo scopo è, secondo Minsky, parzialmente ottenuto con nuovo indebitamento. In altri termini, il finanziamento iniziale di breve termine, proveniente dalle banche, viene trasformato in una finanza ‘esterna’ di più lungo termine, o direttamente dai produttori, o indirettamente dagli acquirenti di beni di investimento. La parte ‘esterna’ del finanziamento è tanto maggiore quanto più le imprese si lanciano in progetti di investimento che si distendono in un futuro sempre più lontano. Visto che il finanziamento della produzione e della domanda di beni di investimento avviene sempre più tramite debito ‘esterno’, è l’attività di investimento stessa che fa delle imprese delle unità speculative, se non addirittura, nella fase euforica, delle unità ultraspeculative. La curva di domanda di debiti a breve termine aumenta a parparità del costo del finanziamento, e diviene sempre meno elastica.

Sino a che l’offerta di finanziamenti è pressoché orizzontale a tassi d’interesse a breve termine solo moderatamente crescenti, questi sviluppi non limitano l’investimento e la prosperità euforica si autoalimenta, avvitandosi su se stessa. Le cose mutano quando in conseguenza delle scelte delle banche, o anche di un inasprimento delle intenzioni restrittive della Banca Centrale, l’offerta di fondi diviene subitaneamente pressoché rigida. Il risultato è un drastico, improvviso e imprevisto aumento del costo del finanziamento. La domanda di debiti a breve è ancora di più spinta verso l’alto, e ciò conduce a ulteriori aumenti del tasso d’interesse.

L’impostazione di Minsky spiega endogenamente tanto l’instabilità verso l’alto del capitalismo (l’economia diviene progressivamente sempre più sensibile a variazioni del costo del finanziamento) quanto il punto di svolta superiore del ciclo (il che non esclude che le crisi effettive possano esplodere nella realtà per impulsi esogeni). La crisi può essere dovuta o a un crollo dei profitti lordi o a un inatteso innalzamento dei tassi di interesse. L’aumento del tasso di interesse a breve termine comporta, all’atto del rifinanziamento, una crescita dei flussi di contante in uscita rispetto a quelli in entrata, e ciò dà luogo ad uno spostamento verso l’alto della funzione del prezzo di offerta dei beni di investimento. In questa situazione è probabile che l’aumento del tasso di interesse di breve termine si accompagni anche ad un aumento del tasso di interesse più a lungo termine, il che incide negativamente sul valore scontato dei profitti lordi futuri. Se le quasi-rendite attese non crescono in modo compensativo, il balzo verso l’alto del coefficiente di attualizzazione dei rendimenti futuri determina uno slittamento verso il basso della funzione del prezzo di domanda dei beni di investimento. L’investimento cade, e con esso i profitti lordi correnti e attesi, il che è all’origine di un aumento del peso del debito. Inizia un processo ricorsivo di segno, questa volta, negativo. Alcune imprese si trovano in difficoltà finanziarie, altre falliscono. La mancata convalida degli impegni di pagamento sui vecchi debiti conduce alla revisione dei rischi sia del debitore che del creditore, e alla riconsiderazione delle strutture finanziarie ritenute accettabili.

Nel frattempo, gli aumenti del tasso d’interesse mettono in difficoltà la stessa liquidità e solvibilità delle banche e delle istituzioni finanziarie. La propensione alla liquidità aumenta, si contraggono i depositi, gli strumenti di pagamento emessi dagli intermediari rischiano di non essere accettati dal sistema bancario. Il tentativo di ‘creare posizioni vendendo posizioni’, cioè liquidando attività, si rivela fallimentare per la subitanea caduta dei prezzi delle attività. L’aumento dei tassi di interesse potrebbe addirittura proseguire sino a dar vita ad una inversione del valore attuale da positivo a negativo.

Quando il processo di distruzione del valore patrimoniale netto e l’illiquidità hanno finito con il colpire un ammontare significativo di unità, l’investimento si blocca completamente, e i profitti crollano. Le stesse posizioni inizialmente coperte si vedono tramutate in posizioni speculative se non persino ultraspeculative. La deflazione da debiti e la turbolenza finanziaria si trasmettono all’economia reale con l’abbassamento del reddito e la disoccupazione di massa. Il punto di svolta inferiore di una economia con un ‘piccolo’ settore pubblico e con una Banca Centrale che non interviene come prestatore di ultima istanza si avrà una volta che la contrazione monetaria e i fallimenti avranno ristabilito una situazione economica e finanziaria robusta. Può trattarsi, osserva Minsky, di una strada che passa per l’inferno. In una economia capitalistica con moneta endogena la caduta dei prezzi dei beni e delle attività si traduce in un movimento in direzioni opposte dei flussi di contante in entrata (i profitti lordi in contante, che cadono con i prezzi e le vendite) e dei flussi di contante in uscita (gli impegni di pagamento, che invece aumentano). Il processo di aggiustamento tramite la deflazione, per l’aumento del valore reale dei saldi di cassa, è inoltre rallentato dalla caduta endogena della quantità di moneta nella crisi, e dal gioco perverso delle aspettative, che inducono a posporre la ripresa della domanda. L' ‘effetto Pigou’ e l’ ‘effetto Patinkin’ - grazie ai quali, in un mondo di prezzi flessibili, la deflazione dei prezzi dei beni e servizi farebbe crescere il valore reale di una dotazione data di moneta ‘esterna’, e ricondurrebbe dunque al pieno impiego qualora ce ne si allontanasse per un motivo qualsiasi – sono estranei ad un mondo dove l’offerta di moneta è prevalentemente ‘interna’, dunque endogena.

 

Il ruolo della politica economica

Il quadro appena delineato descrive la forma del ciclo economico nel capitalismo (soprattutto americano) precedente la Seconda Guerra Mondiale. Dal New Deal in poi l’intervento pubblico si è fatto carico di impedire che il punto di svolta superiore desse luogo ad una crisi finanziaria dispiegata e a una Grande Crisi. Il modo è stato quello di innalzare, per così dire, il punto di svolta inferiore. Gli strumenti della stabilizzazione sono stati essenzialmente due: i disavanzi nel bilancio di un esteso settore pubblico e il ruolo della Banca Centrale come prestatore di ultima istanza. La spesa pubblica in eccesso rispetto alle imposte genera più alti profitti lordi per le imprese e, se finanziata con titoli, aumenta le attività finanziarie sicure che possono essere detenute nei portafogli, le quali a loro volta rinforzano la solidità dei bilanci delle unità. Il crollo dei prezzi dei capital assets non si traduce in un crollo dei profitti, se questi sono sostenuti da un (automatico o discrezionale) aumento nel disavanzo dello Stato, che va ad acquistare (direttamente o indirettamente) i beni e servizi prodotti dalle imprese. Inoltre, fornendo ai mercati finanziari passività altamente sicure e negoziabili il governo pone un limite inferiore alla liquidità. Grazie alla politica fiscale espansiva le imprese possono con più facilità rispettare gli impegni di pagamento sul debito esistente, e il processo di deflazione da debiti può essere attenuato o impedito del tutto. Si tratta di un intervento che però richiede tempo. Va quindi affiancato da una azione tempestiva dell’istituto di emissione che deve fornire liquidità alle banche e imporre un limite inferiore al valore delle attività acquistando titoli sul mercato. La banca centrale, più in generale, deve essere attiva nel regolamentare le istituzioni e nell’intervenire nelle pratiche finanziarie.

L’intervento pubblico equivale all’imposizione di nuove condizioni iniziali che vincolano l’instabilità dinamica del sistema. Una Grande Crisi potrebbe verificarsi di nuovo, ma non è inevitabile, se non in un contesto istituzionale in cui le autorità di politica economica decidessero di non agire. L’individuazione della corretta miscela di politica economica è, peraltro, tutt’altro che agevole. Per Minsky, infatti, la politica economica non può abolire i processi che portano all’instabilità finanziaria, può soltanto contenerne gli effetti più deleteri. Così, per esempio, la Banca Centrale non è mai in grado di frenare la crescita della moneta e dei finanziamenti nella fase ascendente del ciclo, e può guadagnare un potere sulla quantità effettiva di moneta soltanto se accetta di scatenare una crisi, che si verificherebbe in ogni caso, prima o poi, anche senza il suo intervento. Può però moderare l’evoluzione della crisi, evitando la bancarotta delle banche e degli intermediari finanziari grazie a un rifinanziamento di soccorso e all’immissione di moneta di riserva nel sistema. Visto che è impossibile controllare la quantità di moneta, e visto che le innovazioni sul mercato finanziario pongono periodicamente nuove sfide alla regolazione, non si può fare eccessivo affidamento sulla politica monetaria nel resto del ciclo e occorre piuttosto impiegare la leva della politica fiscale.

Minsky è tutt’altro che un ammiratore acritico delle politiche cosiddette keynesiane di fine tuning e di deficit spending(2). I disavanzi di bilancio pubblico sono spesso stati effettuati sostenendo in maniera indiscriminata gli investimenti privati – indipendentemente, cioè, dal loro effettivo contributo a migliorare l’efficienza della struttura industriale - o i trasferimenti improduttivi. L’esito imprevisto e indesiderato delle politiche monetarie e fiscali a tutela delle strutture finanziarie minacciate è stato quello di aumentare il peso delle posizioni speculative e ultraspeculative nell’economia, di accorciare gli orizzonti delle imprese, di ridurre la produttività complessiva del sistema. Per questa ragione, la ‘salvezza’ dalla Grande Crisi è stata pagata con il far ripartire il ciclo da una posizione molto più vicina al prossimo trauma finanziario. Sta qui, secondo Minsky, la ragione di fondo della tendenza alla ‘stagflazione’: al congiungersi, cioè, di inflazione dei salari e dei prezzi (di beni e dei servizi) con la tendenza alla stagnazione della domanda - il fenomeno che ha segnato la fine dell’era keynesiana e aperto la strada alla controrivoluzione monetarista.

La regolazione perfetta, scrive Minsky, non esiste. Le politiche efficaci in un contesto non lo sono in un altro, e gli agenti che massimizzano il profitto troveranno periodicamente i modi per aggirare le regolazioni esistenti. Un programma di riforme che, da un lato, impedisca una deflazione da debiti e una depressione profonda, e dall’altro semplifichi la struttura finanziaria e ristabilisca le condizioni di una espansione tranquilla più duratura, è però possibile. All’innovazione di imprese, banche e intermediari finanziari sui mercati devono rispondere l’innovazione istituzionale e la riforma del settore pubblico. Tra i suggerimenti di Minsky meritano di essere ricordati: lo stimolo alla produzione di beni di consumo mediante tecniche a minore intensità di capitale; il sostegno indiretto alle attività produttive attraverso la spesa in infrastrutture e in ricerca e sviluppo; lo stabilimento di vincoli alle passività delle imprese; una struttura del bilancio pubblico che vada automaticamente in avanzo (disavanzo) con alti (bassi) livelli di investimento, reddito e occupazione; un riordino della composizione della spesa pubblica, che vada a scapito della spesa per armamenti e per trasferimenti, e che favorisca programmi per l’occupazione e di fornitura di beni e servizi utili, anche ‘in natura’; l’intervento dunque del governo quale ‘datore di lavoro di ultima istanza’ e perno di una vera e propria ‘socializzazione degli investimenti’; interventi fiscali che privilegino il ricorso al finanziamento azionario rispetto a quello tramite debito; politiche a favore di banche e imprese di piccola e media dimensione rispetto alle grandi ‘conglomerate’; una riallocazione dei diritti di proprietà delle imprese dal capitale al lavoro.

 

Il money manager capitalism

La crisi finanziaria esplosa a giugno-luglio del 2007, presto degenerata in crisi bancaria, poi in crisi reale dai caratteri sempre più globali, a dispetto delle politiche monetarie e fiscali sempre più innovative e aggressive che sono state via via sperimentate, non solo ha resuscitato il fantasma della Grande Crisi, ma ha fatto anche balzare il nome di Minsky - morto nel 1996, isolato nella professione - all’onore della cronaca. La crisi andrebbe letta come un Minsky moment (‘Things fall apart; the centre cannot hold’), a cui è seguito l’incubo di un possibile Minsky meltdown (‘Mere anarchy is loosed upon the world’). Le citazioni, non solo in ambito scientifico ma anche sulla stampa periodica e negli stessi quotidiani, sono ormai talmente numerose che è impossibile tenerne il conto.

È, in effetti, difficile sfuggire alla sensazione che l’ipotesi della instabilità finanziaria dell’economista statunitense abbia ancora una volta colto nel segno. Come anche è difficile non sospettare che la crisi recente sia in verità non un ‘momento’ ma il termine di un lungo ciclo iniziato dalla crescita tranquilla immediatamente successiva alla Seconda Guerra Mondiale: un ciclo ‘lungo’ che proprio quella ipotesi aiuta a comprendere meglio. Troppe sono le corrispondenze tra lo scheletro teorico offerto da Minsky e la congiuntura in cui viviamo per ritenerle casuali. Sono dovute, invece, a una capacità di penetrazione del capitalismo come economia eminentemente monetaria, caratterizzata da una instabilità strutturale endogena incentrata sulla finanza (una analisi in cui numerose sono le convergenze tra Minsky e le analisi che dagli anni Settanta hanno svolto anche Paul M. Sweezy e il gruppo della Monthly Review). Penetrazione che manca agli economisti dei vari approcci dominanti, sia di derivazione neoclassica e monetarista, sia di discendenza sedicente keynesiana, che al più complicano il ‘paradigma della fiera del villaggio’ con qualche ‘imperfezione’, e il cui fallimento è evidente, e talora riconosciuto con toni autocritici.

Ciò non di meno, è opportuno segnalare come più di un aspetto delle economie capitalistiche dell’ultimo quindicennio si differenzi, a prima vista, da quanto suggerito da Minsky. Questo potrebbe fornire lo spunto di un aggiornamento, e forse di una riformulazione, della ipotesi della instabilità finanziaria. In quel che segue, ci limiteremo a poche considerazioni su alcune delle questioni più rilevanti(3).

Un primo insieme di osservazioni riguarda l’eclisse del modello di ‘banca’ al centro dell’analisi minskiana, come istituzione che concede prestiti e raccoglie depositi, svolgendo un ruolo di selezione dei mutuatari sulla base delle esperienze passate, assumendosi in prima persona il rischio dell’impiego. Si tratta di un fenomeno legato all’affermarsi della ‘cartolarizzazione’(4) e degli strumenti finanziari ‘derivati’, e alla creazione di ‘veicoli’ esterni per aggirare la regolazione: fenomeno reso particolarmente evidente dalla bolla immobiliare d’inizio millennio, e poi dalla esplosione dei mutui subprime. Abbiamo però qui a che fare con degli aspetti del capitalismo contemporaneo che sono stati intravisti in modo preveggente dall’ultimo Minsky (soprattutto dopo Stabilizing an unstable economy), e che semmai rinvigoriscono le forze che spingono alla instabilità finanziaria nel suo senso.

Si tratta di questo. Le banche, invece di tenere i mutui nel loro portafoglio, li vendono ad altri intermediari, che emettono titoli garantiti non dalle abitazioni ma dagli stessi mutui. I titoli vengono suddivisi in tranches e raccolti in ‘pacchetti’ con differenti classi di rischio e con rendimenti diversificati, cosicché gli investitori sarebbero in grado di scegliere il trade-off desiderato tra rischio e rendimento. Il processo può riprodursi a cascata. A questo punto, la banca ha mutato natura per trasformarsi in un agente che ‘origina’ e ‘distribuisce’ delle attività legate ai prestiti, di cui immediatamente si disfa. Essa guadagna dai premi e dalle commissioni per la emissione dei titoli, da parte sua o ancor più delle affiliate fuori bilancio. E’ spinta a ciò dalla concorrenza sempre più aggressiva dei ‘mercati’, dove proliferano emittenti di ‘quasi-monete’ non sottoposti a regolazione (dunque esenti dalla necessità di detenere riserve, da vincoli sul capitale, con costi decisamente minori di quelli dell’attività bancaria tradizionale): quasi-moneta evidentemente buona come la moneta stessa, e la cui bontà non cessa di essere convalidata nella fase ascendente sempre più euforica e che sembra senza fine. La stima della solvibilità dei debitori viene effettuata dalle agenzie di rating, che operano con strumenti quantitativi ed econometrici. L’interesse delle medesime agenzie (per i profitti che ne traggono e per le connessioni con le unità sottoposte a valutazione), ma in verità anche lo stesso andamento positivo del ciclo, conducono a sovrastimare la solvibilità dei debitori e a sottostimare il rischio. L’evento estremo e improbabile che causerebbe una grande crisi, il ‘cigno nero’, viene escluso per la sua presunta massima improbabilità. Non sorprende che in un contesto del genere si riduca ai minimi termini la percezione del rischio a livello individuale, e più che sterilizzarlo lo si diffonda ovunque come un virus, in modo opaco, per il tramite delle innovazioni finanziarie. A ciò contribuisce la globalizzazione finanziaria sollecitata dallo smantellamento dei controlli di capitale attivamente perseguito dagli Stati a partire dagli anni Settanta. Una dinamica che nasconde l’accumularsi di un rischio collettivo potenzialmente esplosivo.

Queste innovazioni finanziarie vanno di pari passo con una metamorfosi nel carattere del capitalismo rispetto all’era ‘keynesiana’, e sono il preludio ad un cambio di regime nella politica monetaria rispetto al primo e al secondo monetarismo. Vediamo meglio di cosa si tratta.

Negli anni Ottanta, come avvertì lo stesso Minsky nei suoi ultimi scritti(5), si era costituito, in conseguenza di trasformazioni in atto dalla metà degli anni Sessanta, un vero e proprio money manager capitalism. La Grande Crisi aveva segnato la fine del capitalismo di fine Ottocento, caratterizzato dalla preminenza dei grandi finanzieri sui manager, e aveva dato vita a quel ‘capitalismo manageriale’, in cui i secondi avevano acquisito una sempre maggiore indipendenza dai primi. Il capitalismo di fine Novecento vede invece tornare in posizione preminente la finanza, ma nella forma dei ‘fondi’: i fondi pensione, istituzionali, assicurativi, e così via. Il risparmio delle ‘famiglie’ è gestito dagli investitori istituzionali - i ‘money manager’, appunto - in una ottica di valorizzazione (ovvero di rivalutazione continua verso l’alto del corso dei titoli azionari) di breve termine. Nella misura in cui i prezzi delle attività (ad. es., azioni, immobili) crescono, quelle stesse ‘famiglie’ saranno in grado di finanziare il consumo con debito a fronte di una ‘ricchezza’ teoricamente crescente: se si vuole, il consumo discende sempre meno dal reddito e sempre più dalla rendita finanziaria e immobiliare; talora addirittura di trasformare la ricontrattazione dei mutui stessi in fonte di contante da spendere. La rivalutazione delle attività consente ai finanziatori di estendere il credito concesso rispetto al capitale proprio, e di moltiplicare il c.d. ‘effetto leva’, facendo crescere il rapporto di indebitamento. E’ quello che è avvenuto all’interno degli Stati Uniti, e più in generale della gran parte del capitalismo anglosassone, soprattutto dalla metà degli anni Novanta in poi.

A livello macroeconomico, come si vedrà, si tratta di una circostanza in qualche modo necessitata. L’avvento delle politiche monetariste, contemporanee alla svolta conservatrice di Thatcher e Reagan, hanno determinato una tendenza alla compressione della domanda aggregata: il controllo rigido dell’offerta di moneta ha dato luogo ad alti tassi di interesse (nominali e reali) che hanno falcidiato la spesa di investimento; la spesa pubblica al netto degli interessi è stata compressa rispetto al PIL, e sono iniziati e mai terminati tagli massicci alle spese sociali; si è assottigliata progressivamente la massa salariale, e dunque è caduto il consumo dei lavoratori come funzione del loro reddito. Secondo i dettami di Minsky, la conseguente tendenza alla crisi (finanziaria e reale) è stata tamponata dal 1982 in poi con interventi della banca centrale quale prestatore di ultima istanza (ma anche con una serie di salvataggi), e con disavanzi crescenti nel bilancio dello Stato dovuti principalmente a tagli alle tasse e spese militari (particolarmente significativi quelli legati al nome di Reagan).

Sul terreno della politica monetaria vi è però da rilevare anche il cambio di regime di cui si è anticipato, e che si dispiega compiutamente anch’esso dalla metà degli anni Novanta: troppo tardi perché Minsky possa prenderne pienamente atto. Se ne era avuta una avvisaglia nella crisi borsistica del 1987, quando Greenspan salvò i mercati stabilendo una convenzione secondo la quale le scommesse al rialzo sui mercati finanziari sarebbero state in qualche misura garantite dalla Federal Reserve, non soltanto con riduzioni del tasso di interesse a breve termine, ma anche con massicce iniezioni di liquidità che avrebbero stabilito un ‘pavimento’ al prezzo delle attività (quello che Marcello De Cecco ha felicemente definito l’intervento della Banca Centrale come prestatore ‘di prima istanza’, e altri chiamano il Greenspan put). Non soltanto la cosa si ripeterà negli anni successivi. Ad essa si aggiungerà il fatto che la gestione dell’offerta di moneta verrà sempre più praticata non controllandone la quantità, ma fissandone il tasso di interesse di breve termine al quale soddisfare la domanda, quale che essa sia. La curva di offerta di moneta diviene in sostanza ‘orizzontale’. Vero è che quel tasso di interesse viene deciso secondo una certa regola (nota come la ‘regola di Taylor’), in funzione cioè degli obiettivi di lotta all’inflazione e di disoccupazione che la banca centrale si pone: ma si tratta ormai chiaramente di una scelta ‘politica’. Il che, a ben vedere, conferma e approfondisce l’endogeneità dell’offerta di moneta di cui Minsky era un convinto assertore - lungo questa linea si può aggiungere che nella crisi del 2007-09 la Federal Reserve è intervenuta, con il c.d. quantitative easing, all’insegna dell’intenzione sempre più esplicita di regolare direttamente anche i tassi di interesse sulle attività di più lungo termine. Il cambio di regime della politica monetaria affermatosi nel corso degli anni Novanta è ciò che ha fatto della Banca Centrale il sostegno e lo stimolo al prodursi di bolle speculative, susseguitesi puntualmente l’una dopo l’altra.

Stando così le cose, i mutamenti sul terreno dell’innovazione finanziaria e della politica monetaria – in parte intravisti da Minsky, in parte coerenti con la sua visione - hanno accentuato l’instabilità verso l’alto del capitale, favorito l’approfondirsi di un indebitamento crescente, reso più violento il passaggio dall’euforia al panico, e reso più inattesi e difficili da controllare la deflazione da debiti e il deceleratore finanziario.

 

Il ‘nuovo’ capitalismo

Il ragionamento che precede aiuta in realtà a controbattere quelle che sono forse le obiezioni più forti che è possibile portare ad una lettura della dinamica capitalistica nell’ultimo quindicennio in termini di ipotesi della instabilità finanziaria. Nel ragionamento di base di Minsky le variabili chiave sembrano essere soprattutto la domanda di investimenti privati in capitale fisso e il suo finanziamento da parte di banche e intermediari finanziari, in una dinamica che comporta un rapporto di indebitamento crescente. L’argomentazione pare però essere fondata su un fondamento microeconomico discutibile, che estende impropriamente al sistema un ragionamento valido per l’impresa individuale ‘rappresentativa’. Non è infatti difficile intravedere il rischio di una ‘fallacia della composizione’, come hanno sostenuto Lavoie e Seccareccia. Il ragionamento potrebbe non essere valido a livello di sistema perché il tutto è più della somma delle parti. Se l’impresa singola può doversi e volersi indebitare all’esterno per investire in capitale fisso, un investimento aggregato elevato dà però luogo al prodursi di profitti corrispondenti – almeno se si accettano le equazioni di Kalecki, come fa Minsky. L’accumulazione di capitale proprio per l’insieme delle imprese cresce insomma al crescere della loro domanda di investimento, e potrebbe crescere come o addirittura più del ricorso al debito. Si verifica una sorta di ‘paradosso del debito’, per cui l’indebitamento ‘desiderato’ a livello ‘micro’ non si verifica per l’emergere dei profitti a livello ‘macro’, trainati dalla somma delle spese individuali di investimento.

In realtà, Minsky pare avere a più riprese tenuto conto di considerazioni del genere, anche se non le ha mai rigorosamente integrate nei suoi scritti: la sua potente visione del capitalismo non dà sempre luogo ad una trattazione analitica compiutamente coerente. Se ne potrebbe uscire rilevando come, nella realtà, l’esplosione dell’indebitamento rispetto ai fondi propri sia stata una caratteristica, forse non necessaria teoricamente, ma che si è effettivamente data concretamente e ripetutamente. Una caratteristica che è alla base delle varie crisi finanziarie nello stesso capitalismo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, a partire dalla metà degli anni Sessanta, poi sempre più dagli anni Ottanta, sino alla new economy e alla ‘bolla immobiliare’. Ma in questi ultimi due casi, appunto, si cela una obiezione non più teorica ma fattuale. Il ‘nuovo capitalismo’, dalla metà degli anni Novanta in poi, quel capitalismo che pareva aver superato la tendenza alla stagnazione sotterranea nel quindicennio precedente, non pare dovere la sua dinamicità essenzialmente alla spesa per investimenti privati non finanziari e non residenziali, ossia alla spesa in capitali fissi. Già negli anni della new economy, all’epoca della bolla delle dot.com, l’indebitamento crescente delle imprese si era accompagnato ad un indebitamento crescente, e sempre più rapido, delle ‘famiglie’, che così potevano finanziare i loro consumi a debito, sino ad eccedere il reddito disponibile.

Dopo l’interludio della crisi 2000-03, questi caratteri si sono addirittura radicalizzati: nella ripresa iniziata alla metà del 2003 l’investimento fisso è stato per molto tempo stazionario, le imprese non hanno accresciuto il loro leverage, e la dinamica positiva della domanda interna negli Stati Uniti è stata pressoché interamente dovuta ai consumi delle famiglie indebitate. Questa volta, in altri termini, il traino è stato costituito dalla bolla immobiliare, incluso l’episodio dei subprime che ne ha prolungato la corsa, sino a che la crisi scoppiata nel 2007 non ha dimostrato l’insostenibilità del meccanismo.

Abbiamo qui a che fare con una sorta di paradossale ‘keynesismo’ trainato dalle ‘bolle’ e dall’intervento attivo delle autorità monetarie. E’ ‘keynesismo’ in quanto gestione politica della domanda effettiva. In questo senso, checché se ne dica, non si è mai tornati ‘indietro’ dalla svolta impressa dalla Seconda Guerra Mondiale con la spesa militare e i disavanzi di bilancio, e poi con la successiva era c.d. ‘keynesiana’. E’, quello odierno, un keynesismo ‘finanziario’ e per così dire ‘privatizzato’. Ben diverso, certo, da quello auspicato da Minsky: ma l’autore di questo libro ci aiuta ancora oggi a comprenderlo bene. La variabile chiave è qui il consumo ‘autonomo’, spinto verso l’alto dalla inflazione nei prezzi delle attività e dagli ‘effetti ricchezza’: il che ha come condizione il sempre più elevato debito privato delle famiglie, instabile e alla fine insostenibile. Ciò non costituisce a ben vedere una smentita, semmai una generalizzazione e una ridefinizione della ipotesi della instabilità finanziaria, in tutto e per tutto fedele allo spirito di Minsky. Il che conferma anche come nell’epoca del c.d. ‘neoliberismo’ sia stato ben presente – con caratteri diversi nella prima fase ‘monetarista’ e in quella successiva incentrata sul ‘nuovo consenso’ - un ‘interventismo’ vivace, anche se incardinato sul primato della politica monetaria e non di una politica fiscale espansiva centrata sulla spesa pubblica civile e sociale.

In breve, le cose stanno in questi termini. Il money manager capitalism, assieme alle politiche monetariste e conservatrici della prima fase neoliberista, ha prodotto, direttamente e indirettamente, un marcato indebolimento del mondo del lavoro: quel fenomeno che Alan Greenspan ha definito del lavoratore ‘traumatizzato’. Ad un esito del genere ha certamente contribuito il raddoppio dell’offerta mondiale di lavoro prodottosi nel corso degli anni Novanta, per il crollo del socialismo reale e per l’inclusione piena di India e poi Cina nell’universo capitalistico. Il money manager capitalism, d’altro canto, esprime quella che si potrebbe definire come una autentica ‘sussunzione reale’ del lavoro alla finanza e al debito. Il risparmio delle ‘famiglie’ è stato incluso nel capitale finanziario gestito dai money manager, i quali hanno dettato alle imprese criteri di corporate governance che hanno ulteriormente aggravato la frammentazione e precarietà dei lavoratori. Il rinnovato primato della finanza si è tradotto in una ‘centralizzazione senza concentrazione’: gigantesche fusioni e acquisizioni per lungo tempo finanziate con debito esterno senza una contemporanea crescita di grandi imprese verticalmente integrate, ma piuttosto con il proliferare di unità produttive disperse e messe in rete, dentro una catena transnazionale del valore e filiere gerarchicamente stratificate. Nella concorrenza internazionale tra i global player manifatturieri dei beni e dei servizi si è instaurata una concorrenza particolarmente aggressiva con politiche di investimento che hanno fatto crescere l’offerta potenziale, proprio quando le politiche del neoliberismo producevano una tendenza alla compressione della gran parte delle componenti della domanda effettiva.

La incorporazione delle famiglie nel capitale finanziario e la riduzione della quota dei salari, insomma, hanno determinato trasformazioni ben concrete e radicali nella stessa struttura produttiva, aumentando la capacità produttiva inutilizzata. Il ‘nuovo capitalismo’ è stato in grado di risolvere almeno temporaneamente e parzialmente questo problema, facendo sì che le imprese trovassero domanda e finanziamento, sia pure per il giro traverso dell’indebitamento privato delle famiglie che ha sostenuto un consumo sganciato dal reddito. Una sorta di ‘meccanismo unico’ che ha reso impossibile separare finanza ‘cattiva’ e economia reale ‘buona’.

 

Il ritorno della crisi finanziaria

In questa nuova situazione si è prodotta all’apparenza una scomparsa di quella tendenza alla stagflazione che Minsky riteneva connaturata a quelle politiche di Big Government e Big Bank che erano necessarie per evitare il ripetersi di una Grande Crisi. Una previsione, quest’ultima, che di nuovo non è stata smentita ma confermata: senza però che si desse più, almeno dai primi anni Novanta, inflazione sul mercato finale delle merci. L’inflazione si era in realtà trasferita dal mercato dei beni e dei servizi al mercato delle attività - anche se a un certo punto è tornata per le commodities (petrolio e beni primari), oggetto esse stesse di una ulteriore ‘bolla’ stroncata dalla recessione globale. La caduta dei prezzi delle merci è stata non poco aiutata dall’appiattimento della ‘curva di Phillips’: di quella relazione, cioè, che lega tasso di disoccupazione e tasso di variazione dei salari, e indirettamente dei prezzi delle merci: il che non rimanda ad altro che al già ricordato fenomeno del lavoratore ‘traumatizzato’.

E’ proprio l’indubbia efficacia delle politiche anti-inflazionistiche del neoliberismo che ha creato quella che alcuni autori hanno definito la Grande Moderazione. E’ proprio la Grande Moderazione, d’altronde, che ha fomentato la fame di debito e ridotto la percezione del rischio da parte delle unità. E’ qui che si è innestata, a metà degli anni Novanta, la sinergia tra nuova politica monetaria e economia della borsa prima, bolla immobiliare poi. Quando la rivalutazione del prezzo delle attività si è accelerata, producendo secondo alcuni una ‘euforia irrazionale’ (ma che irrazionale non è, per Minsky, in quanto confermata dai fatti del ciclo ascendente), i risparmiatori entravano in fase ‘maniacale’. Emergeva a questo punto il consumatore ‘indebitato’: le famiglie consumavano cioè sempre di più in eccesso rispetto al reddito loro disponibile. Risparmiatore ‘maniacale’ e consumatore ‘indebitato’ sono, come si è visto, l’altra faccia del lavoratore ‘traumatizzato’. E’ nell’equilibrio instabile, e alla fine insostenibile, di queste tre figure che è stata la coerenza all’era Greenspan, di cui Bernanke ha dovuto gestire lo sfaldamento.

Si è trattato di una dinamica necessaria. A partire dagli Stati Uniti dove, nel corso degli anni Novanta, il settore pubblico era andato in avanzo mentre il settore estero di parte corrente era da tempo in rosso. Profitti, reddito e occupazione sono stati sostenuti grazie al conseguente disavanzo del settore privato: nella new economy, di imprese e famiglie; nella bolla immobiliare, delle sole famiglie. Non poteva essere altrimenti, se non a prezzo di un crollo dell’economia interna e globale. Non sono bastati i disavanzi dello Stato di Bush, all’inizio del nuovo millennio, a interrompere questa dinamica. La sostituzione di debito pubblico a debito privato ha reso però l’economia americana ancora più fragile, e ha preluso all’accumularsi esplosivo degli squilibri. In un isolamento che parla da solo, autori di tradizione minskiana, come Wynne Godley e i ricercatori raccolti attorno al Levy Institute, ne avevano dato tempestivo allarme(6).

Quando l’insostenibilità del processo esplode realmente, forte è il rischio che il risparmiatore abbandoni la fase ‘maniacale’ per entrare in una fase ‘depressiva’. L’uscita dal debito delle famiglie, assieme al blocco delle relazioni interbancarie e al materializzarsi del deceleratore finanziario, riduce fortemente la domanda di consumi e paralizza il credito. Il ‘paradosso del risparmio’ fa sì che il reddito cada ancora più velocemente, frustrando le intenzioni delle unità individuali. Il crollo della dinamica perversa che aveva visto rinforzarsi reciprocamente il risparmio in fase maniacale e il consumo fondato sul debito privato crescente non poteva non sfociare nella crisi reale: una crisi globale, a dispetto delle fantasie di possibili ‘sganciamenti’ di alcuni paesi, se non di intere aree del pianeta, dalle interconnessioni ormai planetarie. E’ stata la crescita trainata dal consumo a debito del capitalismo anglosassone a consentire gli avanzi di parte corrente di quei paesi che - come Germania e Giappone: ma anche Cina, India e altri paesi emergenti, e una parte dello stesso apparato economico italiano - hanno praticato una strategia ‘neomercantilista’ secondo la quale la compressione della domanda interna proveniente dal reddito va compensata, non con il consumo estratto dalla rendita finanziaria o immobiliare, ma con esportazioni nette positive. Il tentativo di impedire la stagnazione e di sterilizzare la tendenza ‘depressiva’ del risparmiatore spiega il rapido ritorno di Bush e Greenspan alla spesa pubblica (militare) in disavanzo e alla inondazione di liquidità a bassi tassi di interesse nel 2001.

Un altro dei paradossi dell’ultimo quindicennio è questo: che proprio la circostanza che la crescente instabilità finanziaria sia rimasta per lungo tempo allo stato latente (la Grande Moderazione) è ciò che ha contribuito a quell’accumularsi progressivo di tensioni che ha fatto della crisi finanziaria del 2007-08 il prodromo della crisi reale più grave dagli anni Trenta del secolo scorso. Dalla seconda metà degli anni Novanta la successione di crisi alla periferia (basti ricordare soltanto quelle asiatica, russa, brasiliana, argentina) ha dato luogo a fughe di capitali in direzione degli Stati Uniti, alla ricerca della ‘qualità’, che hanno sparso benzina sull’incendio della speculazione. La stessa, pretesa, efficacia della risposta di politica economica allo sgonfiamento della new economy nel 2001-03, quando la flessione congiunturale era stata tutto sommato moderata rispetto ai timori, e poi la successiva vivace ripresa hanno cullato autorità e agenti nella illusione che la nuova politica monetaria e l’innovazione finanziaria avessero creato un mondo inedito e felice. Un mondo dove la resilienza e la stabilità del ‘nuovo’ capitalismo sarebbero stati senza limiti.

Anche autori di tradizione minskiana - soprattutto quelli più disponibili ad una integrazione con la teoria keynesiana tradizionale nella sua versione contemporanea - hanno ritenuto negli anni passati che le forze stabilizzanti avessero preso il sopravvento; ed hanno sostenuto che il problema fosse ormai essenzialmente quello di una migliore ‘regolazione’ della finanza. Che una più stringente e rinnovata regolazione sia necessaria è fuor di dubbio. Ma l’ipotesi dell’instabilità finanziaria, tanto più nella sua versione aggiornata, implica ben altro. In primo luogo, la necessità di un ritorno della politica fiscale: non tanto nella forma delle riduzioni di imposte, ma in quella di una sostenuta spesa pubblica diretta. Una spesa in disavanzo, di cui si riaffaccia l’esigenza di un finanziamento aperto con nuova moneta.

L’impellenza di uno stimolo fiscale di grandi dimensioni si è fatta strada, faticosamente ma sempre più imperiosamente, in forza del precipitare stesso della crisi, all’insegna di un conclamato ‘ritorno a Keynes’. L’aumento della spesa pubblica viene peraltro ritenuto, anche da chi ne sottolinea l’urgenza e la rilevanza quantitativa, come qualcosa che dovrebbe avere natura temporanea, e rientrare una volta superata l’emergenza.

Nella prospettiva di Minsky le cose stanno ben diversamente. La spesa pubblica deve crescere in modo permanente come quota rispetto al PIL. Se è vero che la spesa pubblica corrente è bene che sia finanziata dalle imposte, il principio del pareggio del bilancio è accettabile esclusivamente se si è in pieno impiego dei fattori della produzione. Di più, quel principio non può essere esteso alla spesa per investimenti dello Stato, non può farsi valere per il conto capitale del bilancio pubblico. Di conseguenza, il deficit spending è giustificato nel momento della ‘crisi’, ma anche nella ‘normalità’. Il traino dell’investimento pubblico deve divenire il perno dello sviluppo economico, in una spirale al rialzo. Una sorta di ratchet effect che specifica la ‘socializzazione degli investimenti’ di cui parlava Keynes: il che fa crescere una offerta reale riqualificata, e influisce positivamente sulla produttività del sistema, nel momento stesso in cui si interviene dal lato della domanda; un contributo, perciò, a contenere l’inflazione e a ridurre il peso stesso dei disavanzi sul PIL nel corso del tempo. Una radicalizzazione, forse, dell’impianto teorico minskiano: più probabilmente, una risposta fedele al suo spirito, nelle nuove condizioni in cui si svolge l’ipotesi della instabilità finanziaria.

Un analogo approfondimento e riformulazione richiede l’idea di Minsky che vede nello Stato l’offerente di una occupazione ‘di ultima istanza’ come sostegno ai consumi (e alla dignità) dei lavoratori. Ha ragione l’economista americano a preferire questa soluzione ad una politica di welfare, anche universalista, incentrata meramente sui trasferimenti di reddito. D’altra parte, il modo in cui la proposta fu formulata, e le caratteristiche istituzionali del contesto in cui fu pensata, possono dare, erroneamente, l’idea di qualcosa di ‘residuale’. Così non è. Né così può essere, proprio vista la contemporanea esigenza della socializzazione degli investimenti e della presenza pubblica nella risposta di politica economica in una ottica minskiana. Meglio sarebbe parlare di ‘piano del lavoro’ dello Stato che direttamente si fa garante di una piena occupazione, stabile e di qualità. L’indirizzo concreto della spesa pubblica e dell’occupazione ‘contano’. E certo Minsky propugnerebbe una definizione ‘estesa’ di investimento dello Stato: e sarebbe a favore, non di un sostegno generico della domanda effettiva, ma di un intervento ‘mirato’. Non ne mancano gli obiettivi: dalle infrastrutture a una riqualificazione ambientale, dalla mobilità e i trasporti all’energia, dalla salute alla educazione, dai servizi pubblici alla assistenza agli anziani; e si potrebbe continuare. Un keynesismo ‘strutturale’, quello di Minsky, ben lontano non soltanto dal neoliberismo, ma anche dal keynesismo reale che abbiamo conosciuto. Un keynesismo originale, che non separa lato della domanda e lato dell’offerta, e che – contro non solo gli approcci neoclassici, ma anche gli ‘imperfezionismi’ e il Nuovo Consenso - pare oggi più attuale che mai.

 

* Con Piero Ferri, Jan Toporowski, Alessandro Vercelli e Randy Wray ho nel corso del tempo discusso di molti aspetti del pensiero di ‘Hy’ Minsky, mentre con Joseph Halevi ho negli ultimi anni ragionato di quei caratteri del ‘nuovo’ capitalismo che spingono ad una riformulazione della ipotesi della instabilità finanziaria. Un grazie anche a Stefano Lucarelli, Marco Passarella e Giovanna Vertova che hanno letto e commentato queste pagine.
1 John Maynard Keynes, Columbia University Press, New York 1975, ristampato in paperback nel 2008 da McGraw-Hill, con prefazione di R.J. Barbera e introduzione di D.B. Papadimitriou e L.R. Wray (trad. it. Keynes e l’instabilità del capitalismo, Boringhieri, Torino 1981); Can “It” Happen Again? Essays on Instability and Finance, Armonk, New York 1982 (ed. ingl. Inflation, Recession and Economic Policy, Wheatsheaf, Brighton 1982; trad. it. Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ’29, Einaudi, Torino 1984); Stabilizing an Unstable Economy, Yale University Press, New York - London 1986, ripubblicato sempre nel 2008 con prefazione di H.Kaufman e ancora una introduzione di D.B. Papadimitriou e L.R. Wray (trad. it. Governare la crisi. L’equilibrio in un’economia instabile, a cura di A. Levy e G. Padula, Comunità, Milano 1989). Nel 2005 è stata pubblicata per la prima volta la tesi di Ph.D. di Minsky, Induced Investment and Business Cycles, con introduzione di D.B. Papadimitriou, Edward Elgar, Cheltenham. Una biografia intellettuale su Minsky la si trova nella voce a lui dedicata, e redatta dallo stesso economista statunitense, contenuta in P. Arestis e M. Sawyer (a cura di), A Biographical Dictionary of Dissenting Economists, Edward Elgar, Aldershot 1992. Per un quadro complessivo sulla sua riflessione, i riferimenti ancora oggi più significativi sono i saggi contenuti in alcune raccolte: in particolare S. Fazzari e D.B. Papadimitriou (a cura di), Financial Conditions and Macroeconomic Performance, M.E. Sharpe, Armonk NY 1992, e i due volumi che ho curato con Piero Ferri, Financial Keynesianism and Market Instability e Financial Fragility and Investment in the Capitalist Economy, entrambi Edward Elgar, Cheltenham 2001. Si veda anche l'introduzione di Augusto Graziani a Potrebbe ripetersi?
2 La posizione di Minsky sulla politica economica è ancora una volta sintetizzata nella Parte V di Governare la crisi. Per intendere bene la posizione dell'economista americano, e la sua attualità, è però bene fare riferimento agli articoli e ai manoscritti inediti che, sin dagli anni sessanta, contengono una acuta e devastante critica della War on Poverty di Johnson e dei suoi consiglieri 'keynesiani'. Su tutto ciò è essenziale S.A. Bell [Kelton] a L.R. Wray, 'The War on Poverty after 40 Years. A Minskyan Assessment', The Levy Economics Institute of Bard College, Public Policy Brief, n. 78, 2004. Su questi punti si torna al termine della Introduzione.
3 Nelle pagine che seguono si riprendono argomentazioni svolte in maggior dettaglio in vari lavori congiunti con Joseph Halevi, in particolare da ultimo: ‘Deconstructing Labor. What is ‘new’ in contemporary capitalism and economic policies: a Marxian-Kaleckian perspective’, in C. Gnos-L.P. Rochon (a cura di) Employment, Growth and Development. A Post-Keynesian Approach, , Elgar, Cheltenham 2009; ‘A Minsky moment? The subprime crisis and the new capitalism’, in C. Gnos-L.P. Rochon (a cura di), Credit, Money and Macroeconomic Policy. A Post-Keynesian Approach, Elgar, Cheltenham 2009.
4 Sulla ‘cartolarizzazione’ cfr. Hyman P. Minsky, Securitization, Poliy Note 2008/2 del Levy Economics Institute of Bard College. Si tratta di un ‘memo’ del 1987.
5 Si veda: Schumpeter: ‘Finance and Evolution’, in A. Heertje e M. Perlman (a cura di), Evolving Technology and Market Structure: Studies in Schumpeterian Economics, University of Michigan Press, Ann Arbor 1990. Si veda anche il saggio di Minsky incluso in Istituzioni e mercato nello sviluppo economico: saggi in onore di Paolo Sylos Labini , a cura di S. Biasco, A. Roncaglia e M. Salvati, Laterza, Roma-Bari, 1990. Su questo aspetto della riflessione dell’economista americano cfr., da ultimo, C. Whalen, ‘Understanding the Credit Crunch as a Minsky Moment’, Challenge , January-February 2008
6 Si veda per tutti il preveggente saggio di Wynne Godley per il Levy Economics Institute, Seven Unsustainable Processes. Medium-Term Prospects and Policies for the United States and the World, 1999. Ma si vedano anche, sullo stesso sito, le successive Strategic Analysis di Godley redatte insieme ad altri autori, in particolare quelle del 2004, 2007, e da ultimo dicembre 2008. L’idea, diffusa tra gli economisti di ispirazione più o meno direttamente neoclassica, secondo cui il ‘fallimento’ degli economisti nel prevedere l’insorgere della crisi finanziaria e reale nel 2007-08 sarebbe stato generalizzato, va presa con un grano di sale abbondante, ed è a ben vedere del tutto infondata.{jcomments on}

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Paula
Wednesday, 01 November 2017 04:26
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Vincenzo
Thursday, 27 August 2015 19:00
La moneta immessa dal sistema delle banche deve, alla fine del circuito del capitale, tornare nelle mani di chi l'ha emessa. Solo così essa trova una sua validazione come moneta, come pure così trova validazione il ciclo capitalistico con essa attivato. In mancanza di questo ritorno validante, il credito nato con il suo prestito diventa carta straccia, nonostante gli interventi di quantitative easing delle banche centrali e le fantasiose invenzioni finanziarie degli economisti di turno.
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