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La crisi ingravescente del sindacato collaborazionista
di Eros Barone
L'esportazione dei capitali fa realizzare un lucro che si aggira annualmente sugli 8-10 miliardi di franchi, secondo i prezzi prebellici e le statistiche borghesi di anteguerra. Ora esso è senza dubbio incomparabilmente maggiore. Ben si comprende che da questo gigantesco soprapprofitto - così chiamato perché si realizza all'infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del "proprio" paese - c'è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell'aristocrazia operaia. E i capitalisti dei paesi "più progrediti" operano così: corrompono questa aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati. E questo strato di operai imborghesiti, di "aristocrazia operaia", completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita, costituisce ai nostri giorni...il principale puntello sociale (non militare) della borghesia. Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri e propri commessi della classe capitalista nel campo operaio..., veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia, a lato dei "versagliesi" contro i "comunardi". Se non si comprendono le radici economiche del fenomeno, se non se ne valuta l'importanza politica e sociale, non è possibile fare nemmeno un passo verso la soluzione dei problemi pratici del movimento comunista e della futura rivoluzione sociale.
V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, dalla Prefazione alle edizioni francese e tedesca, 1920.
Il documento qui riportato è il riassunto della relazione svolta il 19 dicembre del 2019 da Nino Baseotto, segretario confederale della Cgil, al Direttivo nazionale di questo sindacato. Il riassunto, reperibile sul sito web della federazione varesina del Partito comunista italiano, è stato redatto da Cosimo Cerardi, segretario di tale organizzazione politica, presente alla riunione locale in cui la suddetta relazione è stata nuovamente esposta dal suo autore. 1
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Esiste una Gig economy?1
di Kim Moody2
Il lavoro sicuro non è mai stato una caratteristica del capitalismo. Poiché la concorrenza spinge l'accumulazione da un settore, o da un luogo, all'altro nella ricerca di profitti attraverso gli alti e bassi delle crisi periodiche, questa altera necessariamente i modelli occupazionali e l'organizzazione del lavoro. Nel lungo periodo, il capitalismo degli Stati Uniti ha spostato l'occupazione dall'agricoltura e dall'industria a lavori spesso etichettati come servizi.
Per un breve periodo successivo alla seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni '70, il sistema delle economie capitaliste sviluppate sembrava garantire un po’ di sicurezza ai settori della classe operaia, soprattutto in quello della produzione. Questa illusione venne eliminata con l'aumento della turbolenza economica che caratterizzò l'era neoliberista, a partire dall'inizio degli anni '80, quando furono cancellati milioni di posti di lavoro nella manifattura mentre la produzione continuava a crescere.
Insieme a crisi più profonde, metodi di produzione più snelli e nuove forme di misurazione e di sorveglianza del lavoro hanno portato non solo alla sua intensificazione attraverso lo "sviluppo costante" che ha distrutto i posti di lavoro, ma anche l'outsourcing verso imprese a basso reddito localizzate spesso appena fuori dall’ “autostrada" o all'estero. I tassi di partecipazione della forza lavoro sono diminuiti e l'insicurezza è diventata la norma per milioni di esclusi prodotti da tali cambiamenti.
Nel bel mezzo di questi cambiamenti strutturali, che spesso provocano disorientamento, alcuni commentatori e accademici hanno visto quello che ritengono sia l'ascesa di nuovi tipi di lavoro intrinsecamente più instabili e irregolari rispetto a quelli dell'ultimo mezzo secolo e più.
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Aldo Barba, Massimo Pivetti, “Il lavoro importato”
di Alessandro Visalli
Il libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti avvia una trilogia sulle tre “libertà” del progetto europeo nato con l’Atto Unico e consolidato dal Trattato di Maastricht, fondatore della Unione Europea. Si svolge in sei passi: nel primo sono richiamati i dati relativi all’immigrazione nei diversi paesi europei e la loro progressione nel tempo; quindi viene descritta la dinamica che si è generata nel settore dei lavoro lungo la stratificazione dello stesso, ovvero quella della sostituzione di poco meno di un milione di lavoratori autoctoni (cfr. p.40); al terzo passo viene descritta la teoria economica mainstream, ovvero neoclassica, ed il motivo teorico per il quale sistematicamente esclude che possa esserci in effetti disoccupazione involontaria, anche in presenza di una accresciuta competizione; quindi è presentata una teoria alternativa, imperniata sul conflitto distributivo (invece che sull’equilibrio armonico), su questa base emerge l’evidenza della forza disciplinante dell’immigrazione; dopo aver illustrato gli impatti sullo Stato sociale, probabilmente quelli più rilevanti, gli autori entrano con i piedi nel piatto e tematizzano l’atteggiamento delle sinistre verso l’immigrazione e le loro ragioni, fino ad una retrospettiva sulle posizioni del marxismo classico; infine sono proposte alcune soluzioni per la regolamentazione ‘forte’ del fenomeno.
Premessa: la discussione
Si tratta di un libro che farà discutere, verso il quale sono già sorte numerose obiezioni ed aspre polemiche nel piccolo mondo della sinistra radicale. In effetti disturba profondamente i dogmi e le tranquille abitudini di pensiero, rinsaldate dalla reazione popolare praticamente univoca al crescere del fenomeno.
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Il lavoro importato: brevi note ai commenti
di Aldo Barba e Massimo Pivetti
Come promesso (vedi il mio post precedente) Barba e Pivetti mi hanno inviato alcune note ai commenti al loro libro sul "lavoro importato" (invi comprese le reazioni ai miei "Appunti a margine di un libro politicamente scorretto", una riflessione sulle tesi del libro in questione che ho pubblicato qualche giorno fa su questa pagina). Copioincollo qui di seguito il testo inviatomi dai due autori [Carlo Formenti]
Il nostro Il Lavoro Importato. Immigrazione, salari e stato sociale, edito da Meltemi, è un libro divisivo nel tema e per le tesi che vi si espongono. E’ normale quindi che generi reazioni contrapposte. Quelle avverse tendono a ricadere in tre tipologie. Le reazioni appartenenti alla prima tipologia si caratterizzano per lo stabilire una connessione immediata tra il libro ed il dibattito politico corrente in Italia. Poco interessate al merito del discorso che sviluppiamo, la questione che pongono riguarda l’ ‘opportunità politica’ di scrivere, a sinistra sembrerebbe, un libro di questo genere in questo momento. L’accusa, per farla breve, è di “fare il gioco delle destre”. Di questo si tratterebbe per alcuni, perché i problemi causati dall’immigrazione ai ceti popolari sarebbero un’invenzione diversiva dei capitalisti, volta a sviare l’attenzione dalle reali cause dell’accresciuto malessere sociale; per altri, meno sprovveduti, il problema invece esiste, ma a sinistra sarebbe controproducente parlarne in quanto causa o anche solo pretesto di ulteriori frammentazioni del campo. In un caso come nell’altro, ci sembra che questa lettura vuotamente politicista del nostro saggio costituisca la prova più evidente dell’opportunità di discutere esplicitamente il tema.
Una seconda tipologia di reazioni, anch’essa periferica rispetto al merito della questione, muove più o meno esplicitamente al nostro lavoro un’accusa di economicismo. Fosse anche vero quanto andiamo argomentando sull’esercito industriale di riserva e l’azione disciplinare svolta attraverso l’immigrazione sui lavoratori indigeni, staremmo perdendo di vista il fatto che si tratta di uomini. Anzi, non soltanto di uomini, ma “degli ultimi”. Qui crediamo si sia incappati in un equivoco.
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La classe operaia è tramontata?
di Maria Grazia Meriggi*
Da alcuni decenni ormai nella discussione pubblica si è affermata un’idea che non ha permeato solo la discussione politica ma anche il discorso sociologico e ha influenzato la ricerca storica: il tramonto della classe operaia. Di recente il perdurare della crisi iniziata alla fine del 2006 negli Usa e che ha influenzato profondamente mercati del lavoro e modelli produttivi e l’insorgere elettorale e sociale dei populismi1hanno rimesso all’ordine del giorno delle agende politiche l’importanza del lavoro come fonte di reddito e di integrazione sociale ma non certo la centralità dei lavoratori e dei loro conflitti.
Questa eclissi ha assunto le forme più svariate. Quella “di sinistra” ritiene che si possa parlare di classe solo in presenza di esplicite manifestazioni di coscienza di classe, espressa politicamente. Per questa concezione, più leninista che marxista, prima l’integrazione nel “ceto medio” poi l’adesione (supposta? reale?) ai populismi avrebbe decretato l’eclissi della classe operaia come soggetto politico e questo compito dovrebbe essere assunto da altri “ultimi del mondo”. Ho scritto più leniniana che marxista – con tutte le semplificazioni che queste definizioni implicano – perché altre tradizioni teorico-politiche attribuiscono centralità anche alle forme immediate del conflitto di classe che si può manifestare nei luoghi di lavoro o nelle mobilitazioni sociali in forme che comportano il silenzio politico: non dimentichiamo che per il giovane Marx una delle prime manifestazioni di classe nella Francia del 1848 è l’insurrezione “elementare”, accusata di essere “bonapartista”, del giugno2. “Maledetto sia il giugno!”, anche se quella sconfitta ha aperto la strada al successo elettorale di un regime autoritario – il bonapartismo – che ha esibito almeno nella propaganda della fine del ’48 alcuni tratti populisti.
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La fusione FCA-PSA e Marx
di Domenico Moro
La fusione tra Fca e Psa rappresenta in maniera esemplare alcune importanti caratteristiche dell’attuale fase del capitalismo, confermando lo schema interpretativo dell’economia di Marx. Alla fine del capitolo XXV del Terzo libro del Capitale, quello sulle conseguenze della caduta del saggio di profitto, Marx evidenzia tre caratteristiche principali della produzione capitalistica: a) la centralizzazione in poche mani dei mezzi di produzione, b) l’unione della produzione capitalistica con i risultati delle scienze, e c) la creazione del mercato mondiale.
Il primo aspetto, quello della centralizzazione della proprietà in poche mani, è trattato da Marx anche nel capitolo XXIII del Primo libro, quello sulla legge generale dell’accumulazione. Qui Marx evidenza come il processo capitalistico dia luogo a una accumulazione di capitale sotto forma di mezzi di produzione sempre maggiore, mediante il progressivo reinvestimento del plusvalore prodotto nel processo produttivo. Questo processo viene definito da Marx concentrazione del capitale. Tuttavia, accanto alla concentrazione mediante ingrandimento progressivo di uno stesso capitale, Marx evidenzia l’esistenza di un altro metodo per l’accrescimento del capitale investito, la centralizzazione. La centralizzazione è l’ingrandimento del capitale investito mediante acquisizione o fusione di capitali diversi. Quindi, a differenza della concentrazione, la centralizzazione permette l’ingrandimento mediante l’accorpamento di capitali/imprese già esistenti, e non mediante il processo di crescita (accumulazione) di un singolo capitale/impresa.
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Dipendenti pubblici di uno Stato privatizzato
di Federico Giusti e Ascanio Bernardeschi
Parallelamente al processo di privatizzazione dei pubblici servizi si è trasformato il rapporto di pubblico impiego e con le esternalizzazioni in campo ci sono lavoratori più divisi e con meno diritti
Alla fine del 1800 emerse la necessità di disciplinare il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, fino ad allora avente natura puramente privatistica, in maniera differenziata rispetto al privato.
Se alcune motivazioni erano ragionevoli (garantire al dipendente pubblico, figura di servitore dello Stato e garante dell’imparzialità della pubblica amministrazione una certa indipendenza dai politici), altre erano completamente negative (evitare la sindacalizzazione, la politicizzazione, il diritto di sciopero ecc). Per cui il rapporto di lavoro, sia collettivo che individuale veniva regolato esclusivamente dalla legge e da atti amministrativi, escludendo ogni forma di contrattazione. E anche il contenzioso fra dipendenti e PA venne demandato alla giustizia amministrativa e non a quella civile.
La Costituzione repubblicana confermò i principi di indipendenza del dipendente pubblico. L’art. 54 prevede che i “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, quindi sia dipendenti che politici, debbano “adempierle con disciplina ed onore”; l’art. 97 dispone che gli uffici pubblici siano organizzati in base alle leggi e che all’impiego pubblico si acceda mediante concorso; l’articolo 98 che “i pubblici impiegati siano al servizio esclusivo della Nazione”. Tuttavia la Carta, affermando il diritto di tutti i lavoratori alla sindacalizzazione e allo sciopero, senza dubbio ha indicato la strada di una equiparazione fra lavoratori dipendenti privati e pubblici per quanto concerne i diritti fondamentali.
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Nazionalizzare. Cui Prodest?
di Andrea Genovese e Mario Pansera
Il capitale multinazionale si muove come vuole, si sposta cercando di ridurre i costi di produzione (uniche variabili, ormai, sono i salari e le politiche fiscali nazionali), delocalizza, sfrutta territori e persone e se ne va.
Ma oltre a questa dinamica, ormai consaputa, rispetto alla quale gli Stati nazionali si comportano da servi (per debolezza o per convinzione ideologico-corruttiva), c’è anche la saturazione di mercato per alcune merci, mentre sorgono (a ritmo sempre più lento) nuovi bisogni indotti e merci in grado di soddisfarli.
La fuga del capitale multinazionale ha come unica risposta possibile la nazionalizzazione degli stabilimenti che vengono abbandonati, con terribili conseguenze sull’occupazione, specie in territori che non presentano particolare densità industriale.
Ma – è questo il merito della riflessione di Andrea Genovese e Mario Pansera – non tutti i settori produttivi sono uguali. Nazionalizzare uno stabilimento che produce merci “mature”, per cui esiste solo un mercato di sostituzione (peraltro rallentata dai bassi salari medi, che limitano i consumi) può avere un senso per tutelare l’occupazione, ma essere un fallimento nelle normali dinamiche “di mercato”.
Dunque si pone una domanda importante per chiunque non sia asservito ai desiderata del capitale: quali nazionalizzazioni sono strategiche e quali no? Una volta espropriata la fabbrica – senza indennizzo – bisogna sapere se quella produzione è ancora significativa (e in che misura) e cominciare a pensare a riconvertire su altri prodotti. Per cui in genere servono altri tipologie di stabilimento, ossia con nuovi investimenti
Insomma, salvaguardia dell’occupazione e utilità sociale della produzione debbono essere pensate come un tutto. Una volta era quasi normale chiedersi: cosa produrre e come, per soddisfare quali bisogni?
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I “pacchi” del governo Conte
di Marta Fana
I 29 punti del programma del nuovo esecutivo sono vaghi e contraddittori. La reale direzione politica tutta da verificare nella congiuntura economica europea. Ma c'è terreno per un'opposizione che riporti al centro gli interessi sociali
«Io con la crisi di governo, scarico pacchi. Io senza la crisi di governo, scarico pacchi. Io col governo tecnico M5S-Gap-Pd-Craxi, scarico pacchi. Io con nuove elezioni, scarico pacchi!». Ecco uno dei tanti meme nella solita ondata bulimica di notizie, tentati scoop, dichiarazioni, gallerie fotografiche, commenti, analisi preventive succedutisi durante l’appena conclusa crisi di governo. Può sembrare sprezzante o, al contrario, denigrante nei confronti dei lavoratori, dipinti come indolenti nei confronti della democrazia parlamentare e dei meccanismi istituzionali.
Niente di tutto questo. Mentre scorrevano le immagini dell’insediamento del nuovo governo, l’ufficio nazionale di statistica tedesco annunciava un calo congiunturale del 2,7% degli ordinativi alle aziende. Il giorno dopo, la brusca frenata della produzione industriale che registra un -4,2% sull’anno precedente. Non è un dettaglio: il nuovo esecutivo si muoverà sul filo del rasoio non soltanto per i numeri risicati al Senato, ma soprattutto per la capacità di incidere – dentro gli esigui margini di manovra – nella politica che conta, dove l’Italia ha da anni perso terreno, in un periodo di forte instabilità politica ed economica. A determinarne l’indirizzo politico saranno il pendolo degli interessi sociali e la capacità di imporre nelle trattative con Bruxelles un’agenda in radicale discontinuità coi decenni precedenti. In un contesto economico e geopolitico segnato da un’ormai strutturale instabilità, dall’avanzata della crisi economica in Germania e da una crisi globale che si intravede all’orizzonte dentro e oltre il perimetro della guerra dei dazi tra Stati uniti e Cina.
È guardando a questi fondamentali dell’economia che si può andare oltre le etichette «il governo che piace ai mercati» vs «il governo più a sinistra degli ultimi decenni». E da questi fondamentali dipenderanno in larga misura i margini di negoziazione con la Commissione Europea.
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Invenzione, centralità e fine del lavoro
di Michel Freyssenet*
Sebbene ci sembri inerente alla condizione umana, il lavoro appare essere non solo come una parola ed un concetto storicamente datato, ma anche come una realtà inventata, costruita nel 18° secolo europeo. Esso corrisponderebbe all'emergere sia del rapporto salariale che del lavoratore libero che vende la sua capacità di lavorare. La diffusione e l'egemonia progressiva di questo rapporto sociale, che si traduce nel fatto che è diventato la base ed il riferimento per percepire, pensare ed organizzare ogni altra attività, avrebbe avuto come conseguenza un'estensione del termine lavoro anche alle attività che non riguardano il rapporto salariale, come il «lavoro domestico», il «lavoro autonomo»... Ne sarebbe risultata una naturalizzazione del lavoro, da allora in poi percepito come una realtà universale esistente da sempre. Così come è avvenuto per l'economia, avremmo proiettato sul passato e sulle altre società questa realtà contemporanea, e che in origine era anche geograficamente circoscritta, che è il lavoro, anziché riconoscere quali sono state le condizioni storiche, e non necessarie, che lo hanno fatto emergere tre secoli fa. Non sarebbe stato nemmeno socialmente necessario fin dall'inizio, come è poi divenuto al giorno d'oggi in quanto condizione di accesso alle risorse necessarie alla vita nelle nostre società. Se la sua storicità implica un giorno in cui logicamente avverrà la sua scomparsa, ragionevolmente questo non può essere pronosticato in un avvenire immediato, in quanto ciò presuppone la marginalizzazione del rapporto sociale che lo ha fatto nascere.
Se da qualche tempo, nelle scienze sociali, viene usata volentieri l'espressione «invenzione di...», per indicare il carattere storico e localizzato del concetto di cui si parla, come per esempio il mercato o la disoccupazione, potrebbe apparire più azzardato utilizzarlo per il lavoro, poiché questo appare essere come consustanziale alla condizione umana. Eppure, tuttavia, la questione va esaminata.
Il lavoro ed il dominio economico a cui esso è collegato verrebbero definiti e delimitati , dopo l'eliminazione delle particolarità che essi rappresenterebbero in ciascuna delle società conosciute, per mezzo delle attività che contribuiscono alla riproduzione materiale della vita umana e sociale.
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Vento d’estate
di Giacomo Gabbuti
Mentre il tormentone della crisi di governo prefigura una musica ancora peggiore, inediti scioperi estivi nei trasporti portano un po’ di fresco, indicando da dove può sorgere l’opposizione alla Lega
Il 5 agosto, introducendo un incontro con le parti sociali, l’attuale traballante Primo ministro del fu Governo del Cambiamento ha affermato l’urgenza di «affrontare l’emergenza salariale». Il monito di Giuseppe Conte era forse un ultimo tentativo di bilanciare la maggioranza, tra la proposta del M5S di introdurre un salario minimo legale e le resistenze della Lega, strenuo difensore di imprese e profitti. Ma al di là dell’equilibrismo di Conte, l’ovvia realtà per qualsiasi persona si sia trovata a campare di salario nell’Italia degli ultimi trent’anni è diventata così evidente da vincere persino le ultime difficoltà statistiche.
Nonostante la stagnazione delle retribuzioni imposta dagli accordi del 1992-1993, dall’esplosione di contratti che definire precari è oramai eufemistico, dalle esternalizzazioni, dall’aumento della disoccupazione, e via discorrendo, l’Italia viveva infatti il paradosso di rappresentare una grande eccezione nel crollo della quota salario. Questa misura, elemento tradizionale dell’analisi marxista della distribuzione economica, altro non è che la parte di reddito nazionale di cui si appropriano i lavoratori, contrapposta a quella spettante al capitale. Dopo essere cresciuta nei cosiddetti “trenta gloriosi” anni del compromesso keynesiano, nei decenni successivi alla svolta neoliberale avviata da Thatcher e Reagan, la quota salario è andata riducendosi in tutte le economie avanzate – con parziale eccezione, appunto, dell’Italia.
Certo, anche da noi la “fetta” dei lavoratori si era ridotta sin dai primi anni Ottanta con l’avvio delle “riforme” che – silenziosamente come nel caso del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia o più platealmente come nel caso della scala mobile e del Patto sui salari del 1992 – smantellarono quelle politiche che avevano permesso la riduzione delle disuguaglianze e una distribuzione più equa (in termini di classe ma anche geografici) dei frutti del Miracolo economico. L’estate stava finendo, e le conquiste dei lavoratori se ne andavano. Secondo le stime più autorevoli (che ho riassunto qui), il risultato fu portare questa misura a livelli addirittura inferiori a quelli degli anni Cinquanta. Tale declino sembrava essersi però fermato all’alba del nuovo millennio: soprattutto dalla crisi del 2008, la quota salario italiana addirittura aumentava, e non solo per le normali fluttuazioni tipiche delle recessioni (in cui, almeno finché esisteranno forme di tutela dei lavoratori, i profitti crollano prima dei salari).
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Ancora sul salario cosiddetto minimo
di Carla Filosa
La necessaria riduzione dei costi dei capitali pagata dai lavoratori
Al momento attuale non si capisce più se il progetto di legge sul “salario minimo” sia diventato merce di scambio politico, o se proseguirà effettivamente nell’originario proposito di aggiornamento del controllo statale del lavoro e del non lavoro. Per quanto emerge dalla stampa su cui apprendere le più recenti proposte del PD di marzo – a firma di Tommaso Nannicini – e dei 5S – a firma di Marco Palladino e Alessandro Zona – si punterebbe a una regolamentazione nazionale della contrattazione. Una delega ad una Commissione presso il Cnel dovrebbe poi stabilire i criteri di misurazione e certificazione della rappresentatività di sindacati e datori di lavoro, per i contratti collettivi di riferimento, separatamente per categoria. Naturalmente quando si nominano i sindacati è da intendere che questi partiti considerano solo “quelli più rappresentativi”, o confederali, cioè con esclusione di quelli minori che avrebbero stipulato “contratti pirata” con un salario minimo più basso.
Se qui non possiamo riportare tutta la storia che ha condotto alla formazione dei sindacati di minor rilievo – per questioni di spazio e di specificità tematica – possiamo però attestare l’ambiguità dei confederali nella loro istituzionalizzazione e accettazione di una pace sociale da salvaguardare, lasciando ignorata la generale iniquità predisposta per i lavoratori. Se l’obiettivo che il Pd cerca di perseguire è quello di dare valore legale ai minimi contrattuali, per cui bisogna ipotizzare più salari minimi che riguardino anche quelli che – come i rider – non hanno un rapporto subordinato, bisognerebbe che riconsiderasse anche il perché di un mercato del lavoro frantumato in uno sventagliamento di competenze diversamente remunerate, mansioni, tempi, contrattualità, false autonomie lavorative, ecc. pur di precarizzare e poter ricattare ogni settore lavorativo a favore dei capitali investiti e da investire ulteriormente, attrattivamente!
Se questo banalissimo retroscena sotto gli occhi di tutti interessasse chi ancora si autodefinisce di sinistra (partiti o sindacati, per non citare economisti, intellettuali, giornalisti che confondono salario con reddito!) si scoprirebbe la banalissima realtà già individuata da Marx due secoli fa, per cui ai capitali, prevalentemente in periodi di crisi, occorre soprattutto ridurre i costi del lavoro per riappropriarsi di profitti in deficit di accumulazione, altrimenti insufficienti a sostenere la concorrenza internazionale.
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Lo scambio di plusvalore nel Capitalismo delle Piattaforme
di Massimo De Minicis
Pluslavoro - Il rapporto OECD fornisce una analisi qualitative e quantitative concernenti i lavoratori delle piattaforme digitali
Premessa
Molti studi ormai da tempo hanno affrontato il tema delle piattaforme di lavoro dell’economia collaborativa digitalizzata[1]. Sono stati così approfonditi numerosi aspetti sulla natura e sull’organizzazione produttiva di questa ultima evoluzione della tecnologiaimpiegata nei processi di produzione. Ma alcune questioni, al di là delle numerose concettualizzazioni realizzate, rimangono contrastate, provocando tensioni di carattere giuridico e sociale. In particolare, nell’economia collaborativa digitalizzata rimane ancora profondamente irrisolta una comune classificazione della relazione lavorativa tra la piattaforma digitale e il lavoratore. Così obiettivo del paper, è cercare di comprendere meglio questo rapporto, esaminando il ciclo di produzione delle piattaforme di lavoro alla luce, anche, di alcune considerazioni teoriche dell’analisi marxiana sulla relazione tra automazione e produzione industriale. Nuova rilevanza sembrano, infatti, acquisire oggi, le analisi presenti nel Libro I del capitale e nei Gundrisse sull’utilizzo dei macchinari nella grande industria per la determinazione di maggiori quote di produttività e profitto (pluslavoro e plusvalore). In particolare, quando parla di automazione, Marx introduce una articolata classificazione di concetti teorici, che ancora oggi può essere utilizzata per comprendere meglio l’effetto della tecnologia sulla produzione e sul lavoro, a dispetto dei sorprendenti avanzamenti tecnologici intercorsi.
Il ciclo produttivo delle Labour Platform
Il rapporto OECD Measuring Platform Mediated Workers (aprile 2019) fornisce una analisi sulle diverse indagini qualitative e quantitative concernenti i lavoratori delle piattaforme digitali in Europa. Definendoli come coloro che utilizzano una app o un sito Web per incontrarsi con i clienti al fine di fornire un servizio (piuttosto che una merce) in cambio di denaro. Dalle analisi descritte le labour platform si confermano come soggetti protagonisti della Gig economy, coinvolgendo sempre più lavoratori (Figura 1).
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Non è lavoro, è sfruttamento: il lavoro all’epoca della gig economy
di Sabato Danzilli
Il libro di Marta Fana Non è lavoro, è sfruttamento unisce il rigore dell’analisi all’efficacia polemica, ed è uno strumento molto utile sia per un ragionamento sul mondo del lavoro attuale sia per la militanza politica. Fana ricostruisce in maniera rigorosa la storia impietosa dell’attacco ai diritti sociali, avvenuto con violenza sempre maggiore negli ultimi decenni. Nel testo si prende in esame il vasto mondo del precariato perché, come dimostrato con notevole forza nel testo, studiare quanto avvenuto al lavoro precario significa studiare l’“avanguardia” dello sfruttamento. La cronologia dei colpi sferrati negli ultimi decenni ai diritti sociali duramente conquistati è, infatti, la piena dimostrazione di una tendenza graduale verso la degradazione sostanziale del lavoro. Studiare il lavoro precario significa quindi studiare quello che rischia di diventare il mondo del lavoro nel suo complesso.
Spesso persino nella sinistra “radicale” il tema assume, invece, un’impostazione caricaturale, differente solo nella fraseologia da quella “pietistica” che si può trovare nei liberal, se mai si occupano del problema. Per quest’ultimi basta infatti limitarsi a denunce di carattere moralistico quando avvengono tragedie sui luoghi di lavoro.
Se ci soffermiamo solo sul lavoro a chiamata e sui voucher rileviamo che essi hanno origine con la riforma Biagi- Maroni del 2003, approvata con la giustificazione di dover regolare prestazioni lavorative di carattere discontinuo o intermittente. In pochi anni i requisiti di disoccupazione o mobilità e i pochi limiti e obblighi per i datori di lavoro al loro utilizzo vengono meno e il lavoro a chiamata viene esteso come possibilità per tutti i lavoratori. Gli ultimi anni hanno visto l’esplosione dei voucher, liberalizzati completamente dal governo Monti nel 2012. Il Jobs Act ha poi ulteriormente aumentato il tetto massimo di reddito annuo percepibile in questo modo. Ricordiamo la grande campagna referendaria della CGIL nel 2017 per l’abolizione dello strumento e come essa fu bloccata con un decreto d’urgenza, che eliminava i voucher per far annullare i referendum, ma poi li reintroduceva dopo un mese, attraverso un mero cambio di denominazione.
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Boeri e le gabbie salariali: l’incubo che ritorna
di coniarerivolta
In un articolo pubblicato su Repubblica, Tito Boeri, ex presidente dell’INPS, propone una delle sue tante ricette, rigorosamente in salsa neoliberista, per far tornare a crescere l’economia italiana e ridurre la disoccupazione: la reintroduzione delle cosiddette “gabbie salariali”, cioè differenziali tra le retribuzioni dei lavoratori in base al luogo di residenza, ipocritamente giustificati sulla base di differenze nel costo della vita nelle varie regioni d’Italia. Prima di addentrarci nei dettagli della proposta, vediamo da cosa scaturisce questa nuova (nuova si fa per dire, i neoliberisti sono persone molto banali) idea del Prof. Boeri.
Il predecessore di Tridico ci informa, preoccupato, che il Nord del Paese si sente tradito dalla Lega, che avrebbe lasciato troppo spazio alle ricette economiche del Movimento 5 Stelle e avrebbe rinunciato, in tutto o in parte, alle proprie. “L’agenda di Governo” – scrive Boeri – “ha del tutto ignorato le istanze del blocco sociale settentrionale”. Immediatamente, Boeri mette le cose in chiaro sulla sua visione del Paese, riferendosi a un Nord di lavoratori e pensionati che speravano nelle promesse della Lega – quota 100 e la flat tax, ad esempio – e a un Sud di disoccupati che avevano votato in massa Movimento 5 Stelle per ricevere il reddito di cittadinanza. Solo questi ultimi sarebbero stati davvero accontentati. Il produttivo Nord sarebbe stato fregato dalla Lega attraverso una quota 100 molto limitata, nella sua portata, rispetto alle aspettative dei lavoratori settentrionali prossimi alla pensione e una flat tax che, fino ad ora, non si è vista (se non attraverso una ben misera “flataxina”).
Secondo Boeri, un partito interessato ad affrontare i veri problemi del Paese dovrebbe partire dalla questione settentrionale, prendendo di petto quella che secondo lui è la vera grande ingiustizia territoriale: i salari reali (ovvero il rapporto tra i salari in termini monetari e i prezzi, che ci dice, in pratica, quante cose un lavoratore può comprare con il proprio stipendio) sono più alti al Sud che al Nord, a causa di prezzi molto più bassi nelle regioni meridionali rispetto a quelli nelle regioni del Settentrione.
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Giorgio Agamben: I media e la menzogna senza verità
Nico Maccentelli: Riflessioni su una sinistra di classe che sbaglia
Emmanuel Todd: «Stiamo assistendo alla caduta finale dell'Occidente»
Alessandro Bartoloni Saint Omer: Oltre "destra" e "sinistra" di Andrea Zhok
Alberto Fazolo: Il 24 giugno a sgretolarsi è stata la propaganda sul conflitto in Ucraina
Andrea Zhok: Le liberaldemocrazie bruciano nei cassonetti
Fabio Mini: Zelensky è finito intrappolato
Andrea Zhok: Contro le letture di "destra" e di "sinistra" delle rivolte in Francia
Alessandro Avvisato: Prigozhin in esilio. Il “golpe” finisce in “volemose bene”
Fabio Mini: Quante favole in tv su cause, azioni ed effetti del “golpe”
Emiliano Brancaccio: Un Esecutivo nemico del lavoro. Il fine ultimo è il precariato
Guido Salerno Aletta: La Germania si ritrova sola di fronte ai prezzi impazziti
Fabrizio Casari: Guerra e pace, lo strabismo europeo
Mario Lombardo: Ucraina, i droni e la controffensiva
Andrew Korybko: Cosa viene dopo la vittoria della Russia nella battaglia di Artyomovsk?
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Qui una presentazione del libro