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Economia della conoscenza, giovani generazioni e ruolo del sindacato

intervista a Enzo Rullani

Nel senso comune si descrive l’economia della conoscenza o il cosiddetto capitalismo cognitivo come fonte di grosse opportunità per le giovani generazioni. Ma allora perché la generazione più formata della storia italiana, è quella che più stenta a trovare spazio sia in termini di posti di lavoro che possibilità di esprimersi attraverso le proprie competenze? Perché le competenze di questa generazione sono in realtà così poco richieste e comunque così poco pagate, sia in termini di salario che di diritti e garanzie?

I giovani fanno fatica ad entrare per tante ragioni. Ma una sopra tutte: il paradigma che governa la società in cui dovrebbero farsi valere è diventato conservatore e come tale mette i bastoni tra le ruote al nuovo. Anche al nuovo nel senso del ricambio generazionale delle persone e degli stili di lavoro e di vita.

Tuttavia detto questo bisogna precisare che:

 

a)             c’è una differenza sempre più rilevante tra i giovani che si danno da fare, e scelgono strade pragmaticamente promettenti, e i giovani che non si danno abbastanza da fare o non sono abbastanza attenti al principio di prestazione (fare qualcosa di utile agli altri, non solo a sé stessi);

b)            il conservatorismo non riguarda tutto il sistema, ma soprattutto alcune istituzioni che non si sono rinnovate (in primis lo Stato e il welfare che sono ancorati a principi fordisti in un mondo diventato, per tutto il resto, postfordista). Le stesse strutture della rappresentanza sono diventate conservatrici, mirando a conservare la funzione che si sono conquistata in passato.


Non dimentichiamoci che – prima degli anni settanta – i giovani risentivano di una cultura dei padri e dei nonni ancorata alla memoria della miseria e della necessità di darsi molto da fare per non rimanere ai margini del mondo sociale e produttivo, anche accontentandosi di lavori duri o di scarsa soddisfazione. In seguito le famiglie hanno cercato di educare i figli al dovere/piacere di coltivare le loro inclinazioni e di provare a realizzare le proprie aspirazioni, spesso allentando il rapporto col principio di prestazione. E questo ha creato uno stato di disallineamento tra il “mondo del lavoro” praticato dagli adulti, e bloccato su regole di prestazione anche troppo dure, forse troppo tradizionali, e il “mondo giovanile”, in cui le prestazioni richieste ai ragazzi sono altre, lontane dal lavoro e ormai anche dalla scuola, che sta diventando sempre più un parcheggio antropologico, in cui si accampano i nomadi della nostra gioventù, nella loro eterna transizione verso il mondo reale in cui prima o poi atterreranno.

Certo, il resto del mondo non aiuta a uscire da questo loop, perché strumentalizza i giovani, usandoli come manovalanza a basso costo o come belletto che copre un rinnovamento che non c’è. Siamo diventati conservatori ho detto.

Forse le aziende sono le meno colpevoli di tutte in questa involuzione conservatrice che rischia di congelare buona parte della nostra intelligenza giovanile in mansioni inadeguate sia dal punto di vista delle esigenze soggettive, sia da quelle della competitività. Intanto, ci sono un sacco di giovani che, non essendo accolti da un sistema piuttosto pigro nel far loro posto, si “mettono in proprio” scommettendo su se stessi. Con un certo rischio, ma anche con una certa probabilità di successo. Sarebbe utile andare a vedere se i giovani più intraprendenti e coraggiosi, per caso, non sono andati a finire lì.

Poi ci sono le imprese leader, maggiormente strutturate che cercano giovani in gamba. Non sempre li trovano sul territorio e non sempre li trovano con la disponibilità ad imparare quello che serve, magari andando in giro per il mondo. Anche qui non partiamo affatto da zero: lontano da riflettori ci sono migliaia di giovani che stanno facendosi le ossa come tecnici, managers, intermediari, agenti di imprese che vivono nel mondo attraverso la loro rete di relazioni internazionali. Forse hanno contratti temporanei o sono partite Iva o lavoratori assunti per progetti che durano sei mesi o un anno. Crede che questo sia un fattore di scoraggiamento? Quello che conta per un ragazzo dotato di intelligenza e coraggio è avere la possibilità di imparare, formando quelle capacità esclusive che saranno il perno della sua futura occupabilità. Ho detto occupabilità (potenziale), non occupazione, non posto fisso.

Così va il mondo, e forse non è del tutto sbagliato, se dobbiamo – come nazione – rispondere ad una domanda determinante, che viene prima di tutto il resto: come facciamo ad insegnare alle persone – o almeno a quelle maggiormente disposte ad investire su se stesse e ad assumere rischi – a fare lavori che, in termini di valore, hanno una produttività due volte, tre, cinque volte superiore a quella di un lavoratore non qualificato che vive in un paese low cost (dalla Cina al Brasile)? Questo non si farà mettendo la gente a lavorare entro una routine da posto fisso, perché solo con investimenti a rischio sulle proprie capacità personali si ottiene un incremento di produttività tale da giustificare l’extra-costo del nostro lavoro rispetto a quello offerto dal cinese, che impara ad usare le nostre stesse macchine e a fare i nostri stessi prodotti.

Infine nel lavoro autonomo e nelle attività di servizio alle imprese ci sono altrettanti giovani che stanno imparando mestieri difficili, dal commercialista all’avvocato, dal designer al manutentore. Sono mestieri che nascono non solo fuori di un quadro normativo che li preveda come lavori intelligenti, da tutelare e incentivare, ma anche di un riconoscimento sociale del ruolo che dia senso a chi li svolge, a prescindere dal guadagno a fine mese. Siamo così abbandonando la parte più dinamica della nostra intelligenza giovanile inventando marchingegni infernali che solo menti contorte possono concepire, come Ad esempio lo stage o il tirocinio obbligatorio.

Rispetto a questi lavoratori intellettuali che vivono in trincea che servizi gli diamo? Che reti di apprendimento offriamo loro presso le università? Che reti aziendali costruiamo, anche attraverso il sindacato e la politica, perché le aziende più dinamiche insegnino loro che cosa serve loro e diano una mano ad impararlo?

Insomma, il nostro sistema produttivo è forse inerziale e distratto. Ma i giovani che si danno da fare ci sono lo stesso. E’ grave che nessuno li aiuti, nessuno li rappresenti e anzi ci sia chi tende trappole in cui possono/devono cadere.

In tutti questi casi, manca quasi sempre il posto fisso e garantito. D’altra parte, si tratta di una minoranza, me ne rendo conto. Ma quando si guarda al nuovo bisogna essere consapevoli che le novità sono sempre portate avanti, a proprio rischio e pericolo, da una minoranza.


Lei fa riferimento, nel suo libro “Economia della conoscenza”, ad un nuova forma di “sfruttamento” che emerge con l’ultima fase di sviluppo del capitalismo, la fase appunto detta cognitiva. Citandola, “Chi detiene le conoscenze core della filiera potrà acquistare a prezzi favorevoli le conoscenze complementari di cui ha bisogno per la propria produzione, pagandole ad un livello inferiore al loro rendimento reale”. Questa nuova forma di stratificazione sociale si articolerebbe tra chi detiene le conoscenze non accessorie di una filiera produttiva rispetto a chi ha conoscenze periferiche che, per quanto raffinate e specializzate, possono essere messe a lavoro con commesse temporanee. Farebbero parte di questo fenomeno sia i subfornitori sostanzialmente privi di potere contrattuale sia, spesse volte, figure di lavoro autonomo come le partite iva e le collaborazioni. Non le sembra che le giovani generazioni siano vittima un mercato che, spesso a dispetto delle proprie competenze, li condanna ad essere periferici?


La nuova struttura della distribuzione del reddito passa oggi per le filiere e dunque per le asimmetrie di potere contrattuale che separano grandi imprese e piccole, paesi emergenti e paesi ricchi, aziende che guidano il cammino, in un certo campo, e aziende che vanno a rimorchio. Il valore prodotto da una stessa conoscenza si distribuisce tra tutti questi attori che, in qualche misura hanno contribuito a produrre la conoscenza, a propagarla, ad utilizzarla nei diversi campi, fino al consumo finale. Il reddito del lavoro che viene pagato da queste aziende ai propri dipendenti è vincolato alla quota di valore che sono riuscite a far propria nella global supply chain a cui appartengono.

Da cosa dipende il potere contrattuale in questo riparto di un valore prodotto congiuntamente nella filiera? Sostanzialmente dal grado di sostituibilità che rende un certo apporto prezioso per gli altri attori della filiera, o, al contrario, del tutto superfluo nel senso che, in mancanza, si trova modo di farne a meno sostituendolo con altro.

Il costo di sostituzione è dunque la nuova guida che sostiene la distribuzione del reddito: vale nei rapporti tra le aziende, e vale, anche, nei rapporti tra azienda e lavoratori dipendenti, tra azienda e professionisti esterni, tra azienda e partite Iva.

Lo schema tipico del fordismo dava forza contrattuale al lavoro rendendolo insostituibile mediante la creazione di un soggetto collettivo (il sindacato) che tratta per tutti. Se un’azienda può sostituire facilmente un lavoratore privo di particolari qualità professionali, non riesce praticamente a sostituirne cento o mille alla volta. Ecco la base del potere contrattuale del sindacato fordista, ed ecco la ragione per cui, nelle filiere di oggi, questo potere contrattuale è sempre più difficile da far valere.

Intanto, sono i dipendenti stessi che possono trovare inadeguata questa tutela che crea insostituibilità solo mediante la rappresentanza collettiva che massifica competenze e aspettative, e sposta la trattativa a forme di relazione impersonali, in cui il singolo fatica ad inserirsi con la sua specificità.

Poi ci sono gli artigiani subfornitori, le partite iva, i professionisti, i centri di servizio ad essere in difficoltà, nella trattativa di distribuzione del reddito, se ad esempio sono sostituibili con altri che sanno fare la stessa cosa o – peggio ancora – se sono sostituibili con operatori low cost, con cui l’impresa può trattare, o facendo outsourcing di quello che le serve o delocalizzando le proprie attività.

Per i dipendenti è facile dire che la loro insostituibilità dipende anche da quello che le aziende fanno fare loro, consentendo o no l’apprendimento di competenze rare e difficili. Ma se voi foste un’aziende investireste i vostri soldi per fare imparare tecniche nuove ad un vostro dipendente che, quando torna dal periodo di formazione fatto a vostre spese in giro per il mondo, può mettersi in proprio o vendersi al concorrente, valorizzando lui – nella sua busta paga – il costo che avete sostenuto?

Non prendiamoci in giro: se i dipendenti devono diventare insostituibili con l’aiuto delle aziende da cui dipendono, bisogna – almeno per una certa fascia di lavoratori dipendenti – cambiare il contratto di lavoro, trasformandolo da contratto di lavoro dipendente in contratto di partnership: l’azienda investe su di te, facendoti imparare a sue spese una professionalità che il cinese non avrà nei prossimi venti anni, e tu ti impegni a lavorare per quella azienda per un periodo congruo, salvo restituire, se vai via, l’investimento che è stato fatto su di te.

Anche queste sono cose si possono fare facilmente, ma non si fanno.

I giovani entrano in questo gioco essendo, in principio, massimamente sostituibili per il semplice fatto che sono delle “new entry” di cui l’azienda ha fatto a meno sino ad un certo momento. Difficile che pensi, ad un certo punto, di non potere fare senza. Ma questo non è veramente importante: quello che conta è che, anche con un ingresso soft, il giovane stabilisca presto la sua insostituibilità, per il fatto che fa o è disposto a fare cose che gli altri o non sanno o non vogliono fare (si pensi al viaggiare in lungo e largo per il mondo, al parlare inglese ecc.). C’è qualcuno che aiuta i giovani a diventare insostituibili? Basterebbe poco: un master di tre mesi sui vari mestieri, tenuto da chi i mestieri li fa già, o li usa, che fosse offerto ai giovani all’uscita dal curriculum scolastico, in accordo con le imprese che di questi mestieri hanno bisogno.

Insomma, i giovani sono preziosi se si vogliono rendere insostituibili nelle filiere, in uno dei tanti modi con cui questo può essere fatto (mettendosi in proprio o facendo il lavoratore dipendente, ma con una inclinazione per le abilità rare e richieste).

Il fatto è che nessuno li aiuta in questo processo, perché il modo con cui ragionano tutti esenta dalle responsabilità, e rimanda a vecchi fantasmi.


Nella mia generazione si ha spesso l’impressione che, nel capitalismo cognitivo, assai più ricercata delle competenze, sia la disponibilità nei confronti di chi ti offre lavoro (più che la disponibilità a volte sembra apprezzata la devozione). Nell’ Italia così malata di familismo e clientelismo questa tendenza a “soggettivarsi” nel lavoro offertoti si configura spesso come fedeltà a chi ti garantisce quella posizione lavorativa. In questo contesto spessissimo la valorizzazione delle persone avviene ovviamente in spregio ad una minimale valutazione delle reali competenze. Al danno dell’assenza di garanzie sociali si aggiunge la beffa di una società imbalsamata?

Quando un paradigma produttivo invecchia diventa conservatore, come abbiamo visto. Tutte le sue parti mirano più a tenere fermo l’insieme, che garantisce loro una posizione e un riconoscimento, piuttosto che destabilizzare il sistema di cui fanno parte, tagliandosi, per così dire, l’erba sotto i piedi.

Il nostro è un paradigma invecchiato, in almeno due sensi.

Prima di tutto perché ci sono ancora, nella nostra organizzazione produttiva e istituzionale, robuste sopravvivenze della cultura fordista, nonostante siano passati ormai 40 anni dalla crisi dei modelli di produzione e organizzazione fordista (anni settanta) e dall’avvento di nuovi modi di produrre (toyotismo in Giappone, extended enterprise negli USA, distretti industriali e capitalismo personale in Italia), che innovavano diversi aspetti del precedente modello.

In secondo luogo perché non vengono “premiati” e incoraggiati coloro che investono sulle proprie capacità e che si prendono il rischi di una costruzione del futuro che è sempre più incerta e complessa. Ma non si tratta qui di fare l’astratto richiamo al “merito” contro il familismo amorale all’italiana, quasi che il merito di potesse misurare con indici oggettivi, invece di richiedere una incertissima proiezione sul futuro. Si tratta invece di dire che, merito o non merito (si vedrà alla fine, tra qualche anno, chi oggi sceglie bene e chi no), ciò che conta è la disponibilità di ciascuno di noi a credere nelle proprie capacità e investirci su, avviando un viaggio verso una meta e cercandosi i compagni di viaggio giusti.

Molte imprese non sono pronte ad adottare questo modo di ragionare. Altre sì, invece, lo hanno fatto proprio e lo potrebbero perfezionare se i contratti di lavoro, il welfare e le regole incentivassero tali comportamenti.

Ma credo che non si possa liquidare il problema dando la colpa alle imprese. E’ il nostro mondo nel complesso che sta invecchiando, e che non ha voglia di accettare le sfide che arrivano dai paesi low cost e dal cambiamento delle generazioni.

Pensiamo che il sindacato sia senza colpa, in questo?

Anche il sistema delle tutele non lascia grande spazio a chi vorrebbe darsi da fare, visto che, tutelando le posizioni già acquisite, di fatto si finisce per scaricare i costi e i rischi dell’aggiustamento sulla fascia marginale della popolazione (partite iva, lavori precari, immigrati clandestini o in nero ecc.).

Per uscirne, bisogna realizzare la coalizione degli innovatori, che sono minoranza in ciascuna organizzazione e categoria, ma che hanno un interesse simile a mandare avanti i processi di trasformazione verso la nuova logica della valorizzazione delle capacità e dell’auto-organizzazione responsabile.

Invece di ragionare per categorie (le aziende, il sindacato, i lavoratori, la politica ecc.) sarebbe meglio dire chi sono gli innovatori in ciascuna di queste categorie e che cosa vogliono. Forse se guardassimo bene i loro interessi sono convergenti e possono dunque sommarsi, fino a fare la massa critica necessaria.

Ma c’è bisogno di una rottura linguistica delle convenzioni.


Esiste un ruolo del collettivo nel tutelare il lavoro cognitivo? Esiste cioè la possibilità per un sindacato di attivare contrattazioni per tutelare le condizioni di lavoro di questi lavoratori oppure, a suo avviso, il sindacato non potrà essere più in grado di interpretare esigenze così individualizzate e articolate?

Si va sempre di più, come ho detto, verso una situazione in cui il lavoratore diventa “imprenditore di sé stesso”, perché a) deve investire tempo, denaro e attenzione sulla sua capacità, accettando un rischio che differenzia strutturalmente la posizione di ciascuno da quella di tutti gli altri; b) usare l’autonomia nel lavoro, con un certo margine di discrezionalità, per gestire la complessità che gli tocca nel suo campo; c) sviluppare una intelligenza delle cose che non può limitarsi all’esecuzione di un compito specializzato ma implica capacità di giudizio e di integrazione di competenze polivalenti.

Questa ri-personalizzazione del lavoro, dopo gli anni della sua massificazione, è un processo positivo perché rimette in gioco l’intelligenza delle singole persone, ma certo pone problemi gravi al sindacato che finora ha pensato a rappresentare il lavoro-massa, e non ha granché sperimentato la rappresentanza del lavoro-persona.

C’è uno spazio per la rappresentanza collettiva del lavoro su due questioni chiave della produzione di oggi:


- le regole che disciplinano la distribuzione dei rischi e del valore nelle filiere, con contratti e comportamenti che dovrebbero rendere i rischi (in negativo e in positivo) un fattore condiviso, non concentrato su alcuni che straguadagnano quando le cose vanno bene e su altri che invece stra-perdono quando vanno male;

- i beni comuni che costituiscono la premessa e il risultato della professionalità dei lavoratori individuali che usano il welfare comune, la scuola, la scienza, il sistema sociale delle garanzie e dei contratti per fare il proprio investimento e utilizzarlo.

Ce la farà il sindacato a ripensare il proprio ruolo di fronte a queste nuove dimensioni collettive del lavoro (regole, beni comuni), mentre l’investimento professionale si individualizza e dunque si individualizzano anche i contratti che stabiliscono compiti, metodi, compenso ed eventuale partecipazione al rischio?

Non lo sappiamo. Certo, possiamo scommettere sul fatto che il sindacato tra venti o trenta anni assomiglierà poco a quello che abbiamo oggi, e che ha ereditato i riti e i miti del lavoro-massa e della contrattazione sindacale che ridistribuisce il reddito.


Ma il problema non è difendere il sindacato come organizzazione, il problema è di rappresentare al meglio gli interessi di progresso e di auto-realizzazione del lavoratore-persona, che oggi sta recuperando importanti spazi, anche se a prima vista li sta recuperando considerando il lavoratore come individuo, slegato dagli altri lavoratori.

In realtà, una dimensione sociale del lavoro continua ad esistere: regole e beni comuni sono l’altra faccia della ri-personalizzazione del lavoro, proprio perché questo diventa sempre meno massificato e sempre più differenziato individualmente. Queste differenze vanno rappresentate, non condannate, ostacolate, o anche – in qualche caso -ignorate.

La sfida per difendere il reddito del lavoro contro la concorrenza dei lavori low cost nei paesi emergenti passa per un cammino in salita, in cui i lavoratori dovranno investire nella propria professionalità e dunque differenziarsi l’uno dall’altro, seguendo rischi e idee che raramente sono uguali.

Sarà dunque difficile continuare a mantenere il vecchio insediamento fordista che dava al sindacato un ruolo nella massificazione del lavoro (passaggio al lavoro collettivo) e nel potere contrattuale che questa rappresentanza collettiva forniva ai “tavoli” della negoziazione sociale.

Il sindacato ha avuto finora un ruolo re-distributivo (del reddito generato dalla fabbrica e dall’azienda): oggi questo ruolo è diventato debole sia perché il lavoro a cui redistribuire si è molto differenziato, sia perché la premessa della distribuzione è che le aziende siano in grado di produrre un surplus e quindi di creare la premessa del “tavolo” della redistribuzione. Ma oggi i lavoratori e i sindacati sono chiamati ad una sfida molto più difficile che la semplice redistribuzione collettiva del surplusgenerato dalla fabbrica fordista, ossia dalla tecnologia e dal management. I lavoratori e i sindacati sono chiamati non a redistribuire ma a produrre, ossia a contribuire attivamente a generare un surplus che l’azienda e il mercato da soli non sono più in grado di garantire.

La stessa sgranatura del sistema italiano in poche aziende capofiliera che passano gli ordini ad una batteria di artigiani e subfornitori che a loro volta mettono in movimento il lavoro ci dice quanto questi uomini non possano limitarsi ad eseguire: debbano invece intervenire attivamente nell’invenzione della produzione, giorno per giorno. Molti lavoratori dipendenti sono diventati piccoli imprenditori, professionisti o partite iva. A loro volta questa imprenditorialità diffusa mette in movimento lavoratori con cui, spesso, l’impresa non ha un rapporto di programmazione dei tempi e dei metodi, ma di collaborazione complessa, capace di re-inventare l’organizzazione del lavoro ogni volta che serve.

Il sistema produttivo italiano è andato molto in là nel rompere le barriere della massificazione del lavoro. Può andare ancora avanti molto in questa direzione, perché è quello che si richiede nella nuova divisione internazionale dei compiti, tra paesi low cost e paesi high cost. Bisogna però che investa di più: ci sono ancora pochi investimenti nelle famiglie (in formazione superiore dei figli), pochi investimenti nelle aziende (in formazione dei dipendenti), pochi investimenti nei territori (nel circuito della open innovation: infrastrutture, media, cultura), pochi investimenti nelle reti tra imprese (ruoli relazionali). Lavoratori e aziende, insieme, potrebbero fare di più, se la scommessa comune sullo sviluppo futuro, da realizzare con reciproci impegni e comuni costi/benefici, fosse presa sul serio.

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