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Lo specchio dell'imbarbarimento sociale

Lavoro autonomo e crisi economica, indagine su una realtà diffusa ma misconosciuta.

di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli

Verso il lavoro autonomo di terza generazione

Che il mercato del lavoro sia in continua ebollizione è oramai cosa nota. Non siamo più nei tempi in cui la stabilità del rapporto di lavoro rappresentava una delle poche certezze della vita quotidiana. Tuttavia, l'implosione della fabbrica fordista, con il suo carico di gerarchia, comando, subordinazione e alienazione, non ha liberato potenzialità e opportunità di vita migliori. Anzi. Venendo meno la differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, più che liberare la vita dal lavoro, ha fatto sì che la vita fosse sempre più sottomessa al ricatto del lavoro. Tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta, quando le prime strategie di delocalizzazione (outsourcing) e di snellimento della grande fabbrica (downsizing) hanno scomposto e frammentato l'organizzazione rigida dei siti industriali, prevalentemente situati nel Nord-ovest del paese. Nuove filiere produttive si sono evolute in direzione est e sud-est. L'asse pedemontano che da Milano arriva a Trieste, passando per Bergamo, Brescia, Verona, Treviso, Udine, è diventato uno dei centri della produzione manifatturiera italiana, soprattutto specializzato nei settori della minuteria metallica, dell'abbigliamento, delle calzature, ecc.

Parimenti, lungo la via Emilia, verso Bologna e lungo la dorsale adriatica, si è espanso un modello di industrializzazione diffusa, eminentemente metalmeccanico, incline a sviluppare rapporti di subfornitura con le grandi imprese europee e internazionali. Si è così consolidato il modello veneto, embrione dello sviluppo del Nord-est negli anni Ottanta e Novanta, e il modello adriatico della terza Italia.

Al di là delle analisi stereotipate e di comodo (dal "piccolo è bello!" alla propaganda della fine del conflitto capitale-lavoro) finalizzate all'oblio dei conflitti sociali degli anni Settanta, si definisce una nuova composizione sociale del lavoro. In uno dei primi libri che analizzava gli effetti delle trasformazioni tecno-produttive sul lavoro nell'epoca postfordista, Sergio Bologna aveva coniato la fortunata espressione di lavoro autonomo di seconda generazione. Con essa si intendeva l'emergere di nuove soggettività del lavoro che andavano oltre la figura tipica del lavoratore salariato di stampo fordista, per abbracciare nuovi tipologie contrattuali che rompevano la classica dicotomia lavoratore dipendente - indipendente. Nel periodo fordista, il lavoro autonomo (di prima generazione) era prevalentemente legato all'attività artigianale e/o di fornitura di servizi per il consumo, anima di quella piccola borghesia un po' corporativa, schiacciata dal conflitto di fabbrica. Si trattava piuttosto di analizzare e comprendere la nuova filiera del comando capitalista sul lavoro, nel momento stesso in cui la centralità della fabbrica, luogo produttivo omogeneo, si scomponeva e tracimava nel territorio. Il nuovo lavoro autonomo (appunto di seconda generazione) era adesso funzionale all'attività di impresa, al capitale, in un contesto dove la struttura reticolare di impresa diventava il nuovo modello organizzativo. In tal modo, si stemperava il conflitto capitale-lavoro e si avviava il processo di frammentazione del lavoro stesso e delle sue soggettività, in seguito alla ristrutturazione e informatizzazione dell'apparato produttivo. Dal lavoro subordinato, omogeneo, sindacalmente rappresentabile, si passa così al lavoro autonomo, formalmente indipendente ma eterodiretto, comandato, fuori da ogni regola e controllo sindacale.

Negli ultimi dieci anni, dopo una crescita quantitativa negli anni Settanta e Ottanta, le statistiche ufficiali ci dicono che formalmente il numero dei lavoratori autonomi si è ridotto, quasi a significarne la decadenza. In realtà, se svolgiamo un'analisi rigorosa, ci accorgiamo che è fortemente aumentato il numero delle piccolissime imprese con meno di tre addetti. L'istat considera tali imprese alla stregua di attività imprenditoriali vere e proprie. Il 37,4 per cento degli occupati nell'economia di mercato, pari a circa 5,5 milioni di persone, lavora in cosiddette "imprese" la cui dimensione media non supera i 2,7 addetti. Il numero di tali microimprese, in costante aumento negli ultimi anni, fanno sì che, secondo i dati Eurostat, l'Italia si collochi al primo posto per la percentuale di addetti in microimprese (47 per cento del totale), davanti alla Polonia (41 per cento), al Portogallo (40 per cento) e alla Spagna (39 per cento). Ora, l'impresa capitalistica si definisce per tre gradi di libertà: di decidere come produrre, quanto produrre e il prezzo a cui produrre. La stessa istat calcola che gli imprenditori con tali caratteristiche non siano più di 440 mila unità. Ne consegue che la stragrande maggioranza delle microimprese non appartengono alla sfera del capitale, bensì a quella del lavoro. In altre parole, il mondo del lavoro è oggi costituito da una moltitudine di soggetti: lavoro dipendente, lavoro formalmente autonomo ma eterodiretto, realtà di microimprese incatenate alla filiera di subfornitura. Iniziare a ragionare in questi termini, ci consentirebbe di eliminare alcuni equivoci (oggi presenti nell'ambito sindacale e della stessa sinistra) e avviare una riflessione intorno alla ricomposizione sociale e politica a partire dal tema di un'unica ed omogenea protezione sociale e tassazione (welfare metropolitano).

Nel corso degli anni Novanta e del nuovo decennio Duemila, la fase postfordista ha termine per lasciare spazio all'avvio vero e proprio del cosiddetto capitalismo cognitivo. Il nuovo paradigma socio-economico, basato sullo sfruttamento delle economie dinamiche di apprendimento (generazione di knowledge) e di rete (sua diffusione), si caratterizza per una prevalente specializzazione verso le produzioni immateriali, in un contesto di organizzazione del lavoro che fa perno sul rapporto contraddittorio tra cooperazione e gerarchia: la prima nasce dalla natura sociale insita nei processi di rete e di apprendimento, la seconda deriva dalla crescente precarietà del lavoro come condizione, anche esistenziale, di subalternità e ricattabilità. In questo contesto, il lavoro autonomo di seconda generazione inizia a cambiare fisionomia. Nuove soggettività si sviluppano e la composizione sociale tende a modificarsi. La classica figura del lavoratore autonomo inserito nella filiera della produzione dei servizi materiali alle imprese, legata alla logistica delle merci, si compenetra con la crescita, non sempre lineare, di un terziario immateriale legato alla creazione e alla circolazione degli immaginari, dei linguaggi e dei simboli (editoria, media, software, design, servizi finanziari e immobiliari, ecc.).

Quindi è soprattutto nel terziario immateriale che si definisce una nuova figura di lavoro autonomo, che possiamo definire di terza generazione. Essa è costituita da soggetti relativamente giovani, prevalentemente di genere femminile. A differenza del lavoro autonomo di seconda generazione, questa nuova generazione non ha alle spalle una tradizione di lavoro subordinato-stabile, poi entrato in crisi: essa entra nel mercato del lavoro direttamente in una posizione che è immediatamente di precarietà e incertezza. Si caratterizza per una maggior fragilità e dipendenza culturale e immaginifica. Non ha alle spalle una tradizione di lotte per la conquista di diritti sociali e di cittadinanza. Le tipologie contrattuali prevalenti, non a caso, sono sempre più un misto tra subordinazione effettiva e indipendenza formale, sul crinale della parasubordinazione (collaborazioni), della partita iva, dello stage. In un contesto di lavoro cognitivo-relazionale, inoltre, la separazione tra vita e lavoro, tra lavoro vivo e lavoro morto, tra capitale fisso e capitale variabile diventa sempre più flebile. Ed è su questo crinale che si gioca da un lato la ricattabilità del lavoro e dall'altro l'illusione e l'immaginario del successo. È su questo crinale che è necessario fondare una nuova politica di welfare, che sulla garanzia di accesso ai beni comuni e alla continuità di reddito fondi i suoi cardini principali.


Gli effetti della crisi sul lavoro autonomo


La crisi ha colpito in maniera differenziata la galassia del lavoro indipendente. Sono cinque milioni e 748 mila gli occupati in Italia che l’ISTAT classifica come “indipendenti” (dati media anno 2009). In questo universo ci sono le professioni liberali e le professioni non tutelate da ordini, che rappresentano di per sé una quota consistente del cosiddetto “lavoro di conoscenza”; ci sono gli artigiani, che sono stati e sono in parte ancora la struttura portante dei distretti industriali e dell’organizzazione flessibile “all’italiana”; ci sono i commercianti al dettaglio, i coltivatori diretti e gli occupati nei mille mestieri della società moderna, dal falegname all’edicolante. 30 per cento circa sono donne, 300 mila hanno più di 65 anni. A questo universo va aggiunto l’esercito dei collaboratori a progetto, figure che svolgono di fatto un’attività dipendente con forme di retribuzione simili a quelle del freelance. È un universo, quello del lavoro autonomo, per sua natura intrinseca esposto ai rischi di mercato e che non gode, nel nostro paese, di alcuna forma di ammortizzatore sociale. Quindi, nel momento in cui il mercato subisce una contrazione, chi ne fa parte risente immediatamente i contraccolpi nel suo tenore di vita.

L’informazione sul lavoro autonomo è molto carente: ciò è dovuto in particolare al fatto che la lente interpretativa più diffusa è quella del lavoro salariato, per cui si considera impresa, o qualcosa di indefinito e comunque di scarsamente interessante, tutto ciò che non è lavoro.

Sono, secondo i dati ISTAT, un milione e 400 mila gli occupati indipendenti nell’industria, il 52 per cento dei quali è attivo nel settore delle costruzioni. Rispetto a dieci anni fa, quando l’incidenza dell’occupazione nell’edilizia era del 40 per cento, la crisi strutturale dell’artigiano di subfornitura, in seguito alla crisi del modello distrettuale, risulta evidente, anche se andrebbe datata agli inizi degli anni Novanta con l’ondata di delocalizzazioni. Nello stesso periodo cresceva in maniera anomala il settore delle costruzioni, come riflesso dell’ondata speculativa mondiale e come conseguenza di una gestione sempre più selvaggia del territorio e del suolo urbano. In tempi di crisi e grazie al sistema italiano della CIG, molte piccolo-medie industrie hanno potuto mettere una parte della forza lavoro a carico del pubblico e sostituirla parzialmente per un certo periodo con lavoro esterno, affidato ad artigiani indipendenti o a ex impiegati e prepensionati con partita IVA. Ma a questo aumento della domanda di lavoro l’artigiano o il professionista indipendente hanno dovuto rispondere accettando scadenze di consegna più pesanti e soprattutto tempi di pagamento molto dilazionati nel tempo.

Un po’ diverso l’impatto della crisi sul lavoro professionale, sia esso appartenente alle libere professioni regolamentate da ordini sia esso classificabile come “nuove professioni”. All’interno di questo vasto e complesso gruppo sociale, che in parte forma “lo zoccolo duro” della middle class, si avvertono oggi le crepe più profonde che la crisi sta provocando nell’edificio del tessuto sociale. Mentre la classe operaia ormai da più di dieci anni è scomparsa dalla scena politica del paese e ne appare il fantasma in occasione di qualche manifestazione sindacale, questo settore della middle class, che spesso in termini di sicurezza del reddito e di titolarità di diritti assistenziali e previdenziali, vive peggio dell’operaio medio, è uscito dal silenzio e mostra visibili segni di volersi liberare da un atteggiamento culturale e comportamentale che ne avevano fatto un soggetto passivo dell’ideologia del consumo individualista. Se si guardano i dati del settore “servizi alle imprese”, in termini quantitativi, là dove questo gruppo di professionisti è maggiormente concentrato, cioè nelle grandi città, esso non sembra dare segni di regressione malgrado la crisi. In termini di onorari per prestazioni professionali, il suo degrado segue l’andamento di quello delle retribuzioni salariali, ma in alcuni settori è talmente accentuato da mettere in discussione le possibilità di sopravvivenza. Generalizzato è invece il problema creato dai ritardi nei tempi di pagamento, ed è questo un aspetto specifico del lavoro autonomo che richiede il corrispettivo con fattura, perché è tenuto al versamento dell’IVA indipendentemente dal pagamento avvenuto. Ciò è bastato a rendere la vita molto più difficile ai giovani che stavano iniziando un’attività autonoma. La data di scadenza di pagamento dell’IVA rappresenta un incubo per molti di loro, ma anche per quanti hanno una certa anzianità di servizio. Eppure nel senso comune queste difficoltà non sono percepite come più gravi di quelle che affronta un operaio in Cassa integrazione. La visione del disagio sociale è ancora legata a schemi rimasti immutati dagli anni Settanta.

Oltre ai tempi di pagamento, l’altro fattore che ha modificato sensibilmente le condizioni di vita e di lavoro dei professionisti soggetti al regime della Gestione separata INPS è il continuo aumento dei contributi, che oggi superano il 26 per cento, in assenza di un allargamento delle prestazioni, lasciate spesso alla discrezione dei diversi uffici INPS (in caso di maternità, per esempio). Il fondo INPS della Gestione separata è uno dei tanti scandali del sistema pubblico italiano difesi dai sindacati. Largamente in attivo, indispensabile all’erogazione dei sostegni al lavoro salariato, non offre alcuna trasparenza ai contribuenti e in futuro offrirà loro delle pensioni da fame. Eppure sindacati e forze politiche che non appartengono all’attuale maggioranza sarebbero favorevoli a un innalzamento dei contributi sino al 33 per cento.

Ciò dà la misura del solco che divide ancora una certa mentalità e cultura politica della Sinistra da un universo che bene o male rappresenta un quinto degli occupati. Fortunatamente questa mentalità esercita un’influenza sempre più debole sulla società e sui media, ed esiste ormai un senso comune nel paese che si è formato al di là delle culture e delle tradizioni storiche, senza per questo essere indifferente ai problemi della società civile. Anzi, certe volte l’impegno nasce proprio dall’azzeramento del retaggio storico. Proprio da questa condizione deriva la consapevolezza del problema più grave con cui il lavoro professionale indipendente deve oggi confrontarsi: la progressiva svalutazione della competenza. È lo stesso fenomeno che induce molti giovani ad abbandonare l’Italia, quella che erroneamente viene classificata come “fuga dei cervelli”. L’Italia sta diventando un paese dove il capitale umano è un ostacolo alla disponibilità, all’umiliazione e alla sottomissione, quindi un fattore negativo per il riconoscimento sociale di una persona. Finché questa perversione resta nell’ambito dei rapporti di lavoro può essere sopportata con altre forme di compensazione. Tuttavia essa sta diventando un amalgama di tutti i rapporti quotidiani e rende l’atmosfera insopportabile a chi si trova indifeso perché è mosso unicamente da una prospettiva individuale (come la maggioranza dei giovani). Non ci sono statistiche per dimostrarlo: è un fenomeno che si verifica nella sfera dei valori “intangibili”. Ora, nel lavoro professionale indipendente, nel cosiddetto expert labour, la competenza tecnica specifica è l’unica merce monetizzabile; se essa viene percepita come un difetto e non come una risorsa, il lavoratore è consegnato all’emarginazione dal mercato o alla “conversione” a un tipo di comportamento che mette in conto la violazione delle regole non scritte della deontologia professionale.

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