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Il falso paradosso del costo del lavoro

Stefano Perri*

1. È opinione comune, espressa in molti dibattiti nei media, che in Italia si verifichi un curioso paradosso per quanto riguarda il costo del lavoro. Infatti il livello dei salari e degli stipendi dei lavoratori italiani è basso rispetto agli altri paesi avanzati, ma si lamenta tuttavia che le imprese debbano sostenere un alto costo per ciascun lavoratore impiegato in rapporto al valore aggiunto per addetto. Lo stesso “successo delle imprese nel sistema competitivo” ne risulterebbe danneggiato[1]. In realtà si tratta di un falso paradosso e l’affermazione appena richiamata andrebbe fortemente qualificata e rettificata. Infatti molto spesso non si considera attentamente che cosa effettivamente indicano i dati statistici.


2. Recentemente è stato negato che nella maggioranza dei paesi sviluppati si sia verificata una diminuzione della quota dei salari sul reddito a partire dagli anni’80, come invece è ritenuto da molti economisti[2].

Posta uguale a 100 la quota del compenso del solo lavoro dipendente sul PIL nel 1980, si vede però che nel 2010 per tutti i paesi considerati la quota è diminuita, da un minimo di 4,24 punti in Giappone  ad un massimo di 11,83 punti in Italia.

 

 In un recente articolo su questa rivista Antonella Stirati ha mostrato che per giudicare dell’andamento della quota distributiva del salario sul prodotto interno lordo occorre guardare alla quota “corretta per tenere conto del lavoro autonomo ed evitare che la sua maggiore o minore incidenza crei una distorsione quando si confrontano diversi paesi o diversi periodi in uno stesso paese”[3].

Questa precisazione è opportuna per quanto riguarda l’andamento della distribuzione del reddito nel tempo. In realtà un’altra qualificazione dovrebbe essere chiara: quando si parla di distribuzione del reddito e di effetto della diminuzione della quota dei salari sulla domanda aggregata ci si riferisce al salario dei “lavoratori medi”. Un aumento della diseguaglianza nella distribuzione dei salari e degli stipendi a favore dei top manager, nonostante possa essere compatibile con una quota più o meno costante delle retribuzioni del lavoro sul PIL, ha come effetto una diminuzione della parte di reddito dei  “lavoratori medi”.

Occorre poi considerare che i salari, nelle nostre economie, hanno due differenti dimensioni: dal punto di vista della società sono un reddito, mentre dal punto di vista delle imprese che impiegano i lavoratori sono un costo. Si pongono allora problemi per quanto riguarda la stima del costo del lavoro: infatti, a livello dell’intera economia, il costo reale unitario del lavoro è definito come la quota dei redditi da lavoro corretta per il lavoro autonomo[4]. Nel caso del costo del lavoro, tuttavia, questa correzione può a sua volta avere effetti distorsivi, relativamente al confronto tra i livelli assunti da questa variabile nei vari paesi. Infatti la stima statistica presuppone che in media il compenso del lavoro autonomo sia uguale a quello dei lavoratori dipendenti. Tuttavia, in generale il lavoro autonomo si distribuisce in misura quasi esclusiva nelle micro e nelle piccole imprese, dove sia le retribuzioni che la produttività possono differire molto dai valori medi. Di conseguenza il confronto tra i diversi paesi può risultare distorto da questa circostanza quando la quota del lavoro autonomo sull’occupazione sia sensibilmente differente nei vari paesi.

3. Si ritiene generalmente che il costo per unità di lavoro in Italia sia alto a causa dell’alto peso degli oneri sociali e delle tasse sul compenso dei lavoratori. In effetti risulta che il saggio percentuale delle tasse ed oneri sociali sul reddito del lavoro è in generale relativamente alto in Italia. Ad esempio, secondo dati Eurostat, nel 2008 questo saggio è stato molto più alto non solo del Regno Unito, della Germania della Spagna e della Francia, ma anche, sia pure di poco, della stessa Svezia, paese scandinavo in cui tradizionalmente il peso delle tasse sul reddito è molto alto.

 

 Tuttavia anche considerando il peso delle tasse e degli oneri sociali il costo del lavoro medio per occupato resta in Italia basso rispetto ai paesi concorrenti, solo poco più alto della media dell’Unione Europea (27 paesi) e decisamente più basso che in Gran Bretagna, Francia, Germania e Svezia.

 

 L’alta incidenza della tassazione e degli oneri sociali non significa quindi che il costo per lavoratore è più alto in Italia rispetto agli altri paesi europei, ma che il reddito medio disponibile dei lavoratori italiani è ancora più basso, inferiore anche alla media EU e alla Spagna come si può vedere calcolando il salario medio al netto delle tasse dalle due tabelle precedenti:

 

 4. La questione cambia radicalmente aspetto se passiamo ad esaminare la “quota del reddito del lavoro”, chiamata anche costo reale unitario del lavoro (real ULC), che stima i presunti redditi da lavoro degli autonomi. In questo caso utilizzeremo il database dell’OCSE. La quota del reddito del lavoro, che esclude dal PIL il valore dei servizi delle abitazioni, tende ad essere più alta in Italia che negli altri paesi.

  

Nella tabella 5 si sono confrontati i valori della quota dei redditi del lavoro dipendente sul PIL e del real ULC nel 2008. Come si vede l’Italia ha di gran lunga la più bassa quota del compenso del lavoro dipendente tra i paesi confrontati, ma il real ULC è inferiore solo a quello della Gran Bretagna.

Nella figura 1 vediamo l’andamento del real ULC per l’Italia e per la maggiore economia mondiale, gli USA e la maggiore economia europea, la Germania, dal 1970. In tutti i paesi la quota è decrescente. L’Italia all’inizio degli anni 70 mostra un real ULC superiore agli altri paesi. Fino al 2000, però, il trend è fortemente decrescente nel nostro Paese (con una caduta accentuata nella prima metà degli anni novanta) fino ad assumere un valore minore, nei primi anni del nuovo secolo, rispetto al dato registrato negli USA e in Germania. Successivamente il real ULC si riporta, sia pure di poco, al di sopra dei livelli delle altre due economie considerate.

  

  

5. Ma come è possibile che pur avendo salari particolarmente bassi – sia in valore assoluto sia come quota del Pil – quando passiamo ad esaminare il costo reale unitario del lavoro il valore salga al di sopra di quello degli altri paesi?

A ben vedere, la ragione dell’apparente paradosso è nel ruolo giocato dall’assenza in un caso e dalla presenza nell’altro della stima relativa al lavoro autonomo. Mentre tener conto del lavoro autonomo serve a dare una stima più attendibile delle tendenze, ha però effetti distorsivi quando si confrontano i livelli assoluti del costo del lavoro di differenti paesi.

Infatti, in Italia la percentuale di lavoratori autonomi sul totale della forza lavoro occupata è particolarmente elevata, ben più della media dei paesi industrializzati, come si evince dalla Figura 2. Poiché l’occupazione dei lavoratori autonomi tende a concentrarsi prevalentemente nelle micro e nelle piccole imprese, con produttività del lavoro e salari più bassi della media, la quota del reddito da lavoro aggregato risulta sopravvalutata rispetto agli altri paesi.

 

6. Attenzione dunque. Quando si dice che il costo del lavoro in Italia è relativamente alto non si intende che le imprese debbano sostenere un costo per impiegare un lavoratore più alto che negli altri paesi che si trovano in condizioni economiche comparabili alle nostre. La dinamica dell’alto costo del lavoro certo non dipende dai lavoratori e dunque da presunti fattori quali la propensione alla conflittualità o la scarsa disponibilità al lavoro, come qualcuno si è spinto a sostenere. Ad un esame serio, le ragioni della bassa produttività del lavoro in Italia dipendono piuttosto dal modello di specializzazione della nostra economia e, dunque, da fattori quali la bassa dotazione di capitale per addetto e la ridotta dimensione media delle imprese.

La realtà è che  produttività del lavoro non cresce più in Italia dall’inizio del nuovo secolo, in dipendenza della struttura dell’occupazione e di conseguenza, pur in presenza di bassi salari, il costo reale unitario del lavoro resta stabile o ha una leggera tendenza a crescere. Si badi che questo declino del modello di sviluppo italiano è precedente alla crisi attuale. Non si può quindi semplicemente aspettare che “passi la nottata”, anche se questo sarebbe del tutto irragionevole in ogni caso, ma, compresa la natura del paradosso della quota dei salari e del reddito da lavoro a livello aggregato nei suoi termini reali, la questione diviene quella di prospettare una politica industriale all’altezza dei problemi posti dalle esigenze di rilanciare la competitività del paese.

 

*Professore ordinario nell’Università di Macerata.

 

[1] Cfr Istat, Noi Italia, 100 statistiche per capire il paese in cui viviamo,  p. 132. L’indice del successo delle imprese nel sistema competitivo è secondo l’Istat rappresentato dall’inverso di quello che di seguito è indicato come costo reale unitario del lavoro. In quanto segue non terremo conto, per evidenti ragioni di spazio, di un altro indice statistico, il CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto), che mette in relazione l’andamento del salario unitario monetario e della produttività del lavoro. Quando questo indice è più alto in un paese rispetto ad un altro si creano problemi di competitività legati alla dinamica dei prezzi.
[2] Si veda G. Zanella, Gli economisti e i fatti, 28 giugno 2010.
[3] A. Stirati, La riduzione del prodotto che va al lavoro, in questa rivista, 16 novembre 2010.
[4] La formula è [compenso dei lavoratori dipendenti/lavoratori dipendenti]/[PIL/totale occupazione], ovvero [compenso dei lavoratori dipendenti/PIL][totale occupazione/lavoratori dipendenti]

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Commenti

   1. 3 Gennaio 2011 alle 4:11 pm
      Francesco Macheda scrive:


      Complimenti per l’articolo, incisivo nel controbattere punto su punto alla vulgata ‘liberal’ corrente.
      Solo una domanda: se i bassi salari non sono causa della crisi - come si evince dall’articolo - come può un aumento salariale farci uscire dalla crisi (tesi sostenuta da una parte consistente della sinistra italiana)?
      Saluti
      Francesco Macheda, Università politecnica della Marche
  

2. 3 Gennaio 2011 alle 7:07 pm
      romano calvo scrive:


      Occorrono chiarimenti:
      I dati delle tabelle 3, 4 e 5 sono sempre del 2008?
      La tabella 2 si riferisce - come dice la legenda - a tutti gli occupati, oppure soltanto agli occupati dipendenti?
      I dati della tabella 1 riguardano redditi nominali su PIL nominale? Quindi, chiedo, sono al netto di inflazione?
      Grazie per l’utile articolo.
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3. 4 Gennaio 2011 alle 6:41 pm
      Stefano Perri scrive:


      Grazie per i commenti.
     
Per quanto riguarda le precisazioni richieste da Romano Calvo:
      1. Le tabelle, quando non altrimenti specificato, si riferiscono tutte per omogeneità al 2008.
      2. per quanto riguarda la tabella 2 nel suo titolo, che si trova nel sito Eurostat, si usa la parola employed e non employees. Tuttavia le modalità di calcolo mostrano che si riferisce al lavoro dipendente.
      3 I dati della tabella 1 si riferiscono al PIL e ai redditi da lavoro dipendente nominali. Allo stesso modo del real ULC si può dire che la quota sia deflazionata.
     
Per Francesco Macheda:
      L’articolo guarda al lato della struttura dell’occupazione, del costo del lavoro e della distribuzione del reddito in Italia e nel confronto con gli altri paesi. Come tale non affronta la domanda aggregata. Tuttavia, a mio parere, non è necessariamente in contraddizione con la tesi che la caduta delle quote dei salari sul reddito abbiano innescato una tendenziale insufficienza della domanda aggregata, soprattutto se l’analisi riguarda non un solo paese, ma aree economiche o l’insieme delle economie sviluppate. L’articolo vuole però, questo sì, mettere in evidenza debolezze strutturali dell’economia italiana che non possono essere risolte agendo unicamente dal lato della domanda aggregata.

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