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marx xxi

Art. 18 e dintorni

di Giuliano Cappellini*

LavoroA quali condizioni del lavoro si riferiscono le riforme di Renzi?

Se nel nostro paese gli imprenditori si fossero conformati da molto tempo ad una prassi di rispetto della dignità del lavoratore e, dunque, non usassero l’arbitrio nei licenziamenti individuali, si potrebbe pensare che l’articolo 18 è una norma obsoleta che potrebbe essere cancellata, non foss’altro che per rispetto ad una categoria (gli imprenditori) di cittadini coscienziosi. Ma la realtà è un’altra ed il degrado raggiunto nei rapporti reali di lavoro dovrebbe essere ormai monitorato da un’apposita indagine conoscitiva parlamentare, sia perché l’ultima1 si riferisce alle condizioni del lavoro subordinato di circa 50 anni fa, sia perché senza un’indagine conoscitiva, la riforma Renzi che cancella l’art. 18 sembra rispondere solo ad una paranoia ideologica.


Spunti per ricomporre un quadro da una lista largamente incompleta

Volendo, tuttavia, ricostruire il quadro delle condizioni di lavoro nel nostro paese, i molti ma dispersi dati su quelle odierne e anche le evidenze empiriche, per la grande varietà dei casi che presentano, suggeriscono che sarebbe meglio non cercare definizioni sintetiche, categorie tipologiche cui assegnare delle cifre statistiche.

Potrebbe anche essere sufficiente partire dalle situazioni estreme, se è vero che in Italia, oltre al massiccio ricorso a rapporti di lavoro precario e nero, compaiono “su larga scala – come riporta Luciano Canfora2 – forme di dipendenza schiavile e semischiavile. Un segnale in tal senso, sia pure espresso con disarmante ingenuità, si è avuto, in sede ufficiale, quando «da Oslo è partita una delegazione guidata da Ole Henning, allarmata dalle notizie sulla diffusione del caporalato nella raccolta del pomodoro nel Sud Italia» («Corriere della Sera», 23 ottobre 2013). Il riferimento è alla condizione semischiavile dei neri impiegati nelle campagne della Capitanata, di Villa Literno o di Nardò”. Vacilla il ritratto ufficiale di un ceto imprenditoriale di cittadini coscienziosi (ce ne sono anche di questi, naturalmente), i cui comportamenti con i subalterni non debbano essere normati dallo Stato quando si palesa l’arbitrio nei rapporti individuali e collettivi di lavoro. Al contrario, non sembra, azzardato sostenere che, oggi, un numero crescente di imprenditori è propenso a considerare l’arbitrio come parte inclusiva e fondante del diritto che discende dalla proprietà dei mezzi di produzione. Si dirà che quelli denunciati sopra sono eccezioni e che esistono leggi e provvedimenti repressivi dei fenomeni più allarmanti, sicché complessivamente, il buon nome della borghesia imprenditoriale italiana è salvo. Ma questa lettura è smentita dalla realtà del caporalato, strumento del quale si serve largamente l’industria edile e cantieristica anche a Milano. E dal brutale ricattato del sequestro dei passaporti a disposizione degli uffici del personale nei settori della logistica, dove è massiccia la presenza di lavoratori stranieri, magari non in regola col permesso di soggiorno, se mai dovesse passare nella mente di costoro l’idea di organizzarsi nei sindacati a tutela delle loro condizioni di lavoro. E la chiamata discrezionale giornaliera dei lavoratori e delle lavoratrici nell’agricoltura e nel settore alberghiero, 8 ore di lavoro pesante senza pausa pranzo, che non possono mai ammalarsi, o ad ore in quello della grande distribuzione, o il ricatto contro la maternità delle lavoratrici; tutto questo, non suggerisce, forse, una lettura più cruda della realtà delle condizioni di lavoro nel nostro paese delle cifre del lavoro genericamente classificato come “precario o in nero”? E, neppure le condizioni di lavoro nella grande industria si sottraggono a questo degrado, se è vero che quelle capestro imposte da Marchionne agli operai hanno portato nelle fabbriche FIAT a situazioni che assomigliano molto (o che preludono) a quelle denunciate con ironia da Charlie Chaplin in Tempi moderni. E non vogliamo parlare delle condizioni di lavoro dell’ILVA di Taranto?

La liquidazione delle tutele dello Statuto dei Lavoratori non umilia solo gli operai e gli impiegati, ma crea una situazione pesante anche per la forza lavoro intellettuale e manageriale di più alto grado. Per non parlare dei laureati impiegati nei call center, conosciamo casi di valenti giovani manager dai quali dipendono letteralmente le sorti di piccole-medie aziende industriali pagati con stipendi di 1500 euro al mese (gli imprenditori, invece fanno la raccolta di automobili di lusso…) e di aziende che intendono promuovere i loro prodotti in Estremo Oriente ma che fanno pagare di tasca propria ai giovani laureati i viaggi nei paesi dove si devono recare.

E che dire della piaga degli infortuni sul lavoro, che se pure in diminuzione perché le attività industriali sono in crisi (quando non chiudono), non mostrano certo il proposito dell’industria italiana di eliminare i lavori pericolosi. Anzi, questi aumentano così come il tasso di sfruttamento fisico dei lavoratori che li espone sempre più a rischio di gravi infortuni.

 

Sacrifici per superare la recessione economica o per sempre?

Ma, si dice, bisogna prendere atto delle condizioni economiche in cui si trova il paese dentro una recessione economica e si deve accettare il fatto che, per superare queste contingenze, i lavoratori devono necessariamente subire una pressione incredibile fino a qualche decennio fa. E si dice anche che col sacrificio delle tutele, peraltro non generalizzate, dei lavoratori e con la repressione sindacale sarà possibile attirare in Italia investimenti stranieri o invogliare investimenti autoctoni. Tesi questa, degna della demagogia di un millantatore come Renzi, che se vi fosse in essa una traccia di verità scientifica, le tutele del lavoro dovrebbero, al massimo, essere solo sospese come misura temporanea fintantoché non si fossero verificati gli obiettivi economici sperati, salvo ripristinarli, se l’evidenza mostrasse che tali obiettivi non si ottengono in questo modo. Scherzi del fanatismo ideologico, si preferisce invece cancellarle per sempre con “riforme” che ci riportano al medioevo.

 

Parliamo pure di economia

Ma se di economia si deve parlare, parliamone pure. A partire, ad esempio, dal fatto «che il profitto si centuplica se il lavoratore è schiavo (schiavo di fatto, se non proprio formalmente)» come nota L. Canfora nell’articolo sopra citato, dove l’autore nota che, ‘il profitto è più sacro del Santo Graal nell'etica del «mondo libero»’. Oppure che i salari italiani, i più bassi dell’area OCSE (Grecia e Spagna comprese), non hanno evitato il disastro economico attuale e non attirano nuovi investimenti. Invece è un fatto, di cui molti economisti, anche premi Nobel, hanno (nuovamente) scoperto le relazioni causali, che negli anni delle vacche grasse per i profitti, aumentati a scapito dei salari, si sono poste le basi per la crisi economica.

Comunque sia, si riflette sull’economia non solo per giudicare le azioni atte a fronteggiare le emergenze, ma per ragionare sul futuro di donne, uomini, giovani. E allora non può sfuggire quanto ha recentemente detto il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, al Forum 2014 IEA-ISI, a proposito del progresso tecnologico ed il mercato del lavoro: “C’è una larga tendenza nei paesi più avanzati alla decrescita dell’occupazione [….] Tra il 2007 ed il 2013 l’occupazione negli Stati Uniti è passata dal 72 al 67% della popolazione in età da lavoro; in Italia dal 59 al 56% (dal 25 al 16% tra i giovani). […] Basandosi su uno studio degli economisti dell’Università di Oxford del 2013, frequentemente citato, Carl Frey e Michael Osborne, stimano che il 47% del lavoro negli Stati Uniti potrebbe essere a rischio a causa dell’automatizzazione nei prossimi 10 o 20 anni. [Recentemente altri studiosi hanno] applicato il [citato] metodo di analisi computazionale del rischio per l’occupazione […] nei paesi europei. Con tutte le precauzioni che richiedono questi suggestivi esercizi di previsione, l’Italia si troverebbe tra i paesi in cui l’automazione rende il lavoro più vulnerabile: il 56%, mentre per la Germania la stima è del 51%, del 50% per la Francia, del 47% per il Regno Unito.”

Le conclusioni che se ne tirano sembrano ad “usum Delphini” (Renzi e le sue riforme del lavoro) e sostanzialmente ci dicono che bisogna rassegnarci di fronte agli inevitabili sviluppi dell’automazione del lavoro, e che sarà necessario arrendersi alla necessità delle aziende di sbarazzarsi di ogni vincolo nei rapporti di lavoro onde facilitare i licenziamenti individuali (via l’articolo 18) ed eliminare quelli collettivi (con la repressione sindacale). Conclusioni parziali che, tuttavia, chiariscono abbastanza bene il futuro che aspetta giovani e meno giovani e ciò che si chiede loro: sacrifici oggi per conquistare … un domani peggiore!

 

La sfida della caduta del saggio di profitto

Mette, però, il caso di ricordare che l’automazione dei processi di produzione ai quali, nella continua competizione economica, l’industria capitalista non può sottrarsi, è alla base del noto fenomeno della caduta del saggio di profitto, giacché se “libera” la produzione dalla forza lavoro umana per diminuire il valore di scambio delle merci, il profitto dipende pur sempre dalla quantità di lavoro non pagato ai lavoratori, ed è, quindi, destinato a decrescere quando il loro numero decresce. Il capitalismo contrasta il fenomeno in diversi modi, generalmente non decisivi. Naturalmente si serve della stretta sui salari e sulle condizioni di sfruttamento del lavoro umano, ma tenta anche la strategia di più largo respiro centrata sull’intenzione di diminuire i suoi impegni sul versante delle produzioni di massain cui più massiccio è stato il ricorso all’innovazione tecnologica e che, dunque, impiegano un numero calante di addetti per unità di prodotto. Nel più classico dei modi (cfr. “Salario prezzo e profitto”, Marx, 1865), spostando cioè, gli investimenti dalla produzione di merci “popolari” a quelli di qualità maggiore, se non del lusso.

Così si dovrebbe leggere la vicenda FIAT, con Marchionne che, mentre riduce gli impegni della multinazionale in Italia nel settore delle auto “popolari”, assume la carica di amministratore delegato della Ferrari e rilancia la Maserati e l’Alfa Romeo: meno automobili ma di gamma superiore, che richiedono un impiego di lavoro umano per unità di prodotto superiore a quello delle auto di gamma inferiore. Auto di lusso, da esportare all’estero se il mercato nazionale non è in grado di assorbirle. Così si stima di rilanciare la base del profitto capitalistico in crisi. Il modello è quello tedesco. Da sempre la Germania produce auto (e merci) di qualità superiore e, naturalmente, più costose di quelle che si producono in Europa. In Germania non esiste ancora un problema occupazionale così pressante come in Italia. Le industrie automobilistiche francesi, invece, che producono più auto di tutti in Europa, ma di classe inferiore, sono già in crisi3. Apparente paradosso, che più si produce, più si consolida una presenza forte e radicata nel mercato europeo, minore è il profitto, maggiore è l’indebitamento e la difficoltà di trovare investimenti per le costose trasformazioni tecnologiche necessarie per mantenere qualche primato. Così si capisce anche qualche importante aspetto della politica europea della Francia!

 

Il modello tedesco

Cosa significa, per l’Italia, sposare il modello tedesco è evidente. Minor richiesta di acciaio, ad esempio e di altri prodotti semifiniti, crisi profonda delle aziende dell’indotto, un orizzonte nero per l’occupazione anche quando e se i profitti cominciassero a crescere (ed il Renzi di turno annunciasse la fine della recessione). Significa spostare la competizione sui mercati dei paesi emergenti, giocare una carta molto azzardata visti i tempi che corrono e le crescenti tensioni internazionali, a scoprire che l’eldorado di mercati senza fine non esiste. Ma osservando nel dettaglio i fenomeni economici si scopre che la fortuna dell’industria tedesca è stata favorita dalla capacità delle classi dirigenti di quel paese di assegnare un ruolo alle omologhe industrie di Francia ed Italia, fingendo di lasciar loro delle importanti posizioni di mercato, in realtà invischiandole in una situazione in cui i margini di profitto si riducono sempre più. A noi tedeschi le produzioni di qualità, agli altri quelle di massa. Ma ormai “gli altri” hanno crescenti difficoltà a sostenere quel ruolo.

L’industria tessile italiana ha già ultimato i processi di riconversione dalla grande produzione di massa a quella ristretta di qualità. Il costo sociale di tali processi si può misurare nella grande quantità di aziende che hanno dovuto chiudere, nel considerevole numero di disoccupati che ha prodotto e nella stretta sui salari degli occupati. Forse gli imprenditori che sono riusciti nella riconversione, o che erano già ben affermati nella “nicchia” dei prodotti di lusso, hanno mantenuto i loro standard di profitto contando sulle esportazioni, ma non eludono la minaccia incombente della caduta del saggio di profitto che, sotto una certa soglia rende più difficile trovare gli investimenti necessari per quelle trasformazioni tecnologiche, nella ricerca e nella produzione, che sono necessarie per mantenersi al passo della competizione nel settore del lusso e della “moda”. E resta il dubbio che, facendo perno sulle avanzate caratteristiche della meccanizzazione del tessile italiano, non sarebbe stato possibile far fronte alla sfida della globalizzazione anche sul versante delle produzioni di massa, riducendo i profitti e concertando le produzioni.

 

Come la borghesia riesce a superare la crisi?

Spostare gli investimenti verso l’industria dei consumi di lusso a scapito dei consumi di massa rimette in gioco non solo l’asse dello stato assistenziale o di quel che ne resta, ma anche la condizione di vita delle grandi masse che sono costrette a fruire di certe “comodità” per vivere e lavorare. L’automobile per esempio. Ma l’obiettivo potrebbe essere ancora più ambizioso tale cioè da colpire altri settori vitali. Se si cerca di rimettere in moto il profitto e questo richiede 1) di concentrarsi sulle produzioni di lusso e, 2) di ridurre l’occupazione per favorire la crescita di un esercito strutturale della manodopera di riserva per impedire ai salari degli occupati di aumentare, allora l’intervento deve essere a tutto campo e colpire a fondo anche i settori che magari hanno beneficiato della tecnologia per aumentare la qualità, l’agroalimentare e le sue industrie di trasformazione, ad esempio. Un modo, anche questo di distruggere una certa quantità di quelle forze produttive il cui sviluppo ad un certo punto si ritorce contro la società borghese. “Con quale mezzo, scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto, riesce la borghesia a superare le crisi? Per un certo verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive …”

 

USA - Cina

La sfida di fondo che gli USA lanciano alla Cina è quello di provare ad incrinare l’economia di un paese la cui risorsa principale è l’abbondanza di manodopera, non intensamente sfruttata in processi industriali a relativamente basso impiego di tecnologie. Questa condizione favorisce i profitti delle aziende private (anche straniere) e, soprattutto dello Stato cinese. Di contro il capitalismo monopolistico americano intende vincere la sfida procedendo ad una maggior automazione dei processi industriali, pur conscio dei pericoli cui va incontro il sistema economico (l’imperialismo americano, invece, si concentra sul controllo delle materie prime, delle fonti energetiche, nonché su quello finanziario e militare su scala globale, per creare ulteriori intoppi allo sviluppo economico della Cina). Fatto si è che la Cina non meccanizza l’agricoltura, anche per non incentivare la fuga dalle campagne, ciò nonostante l’agricoltura cinese copre alla grande il fabbisogno alimentare di 1,4 miliardi di cinesi!

 

La ripresa della lotta

Il governo Renzi taglia le tasse alle imprese con un’ulteriore stretta sullo stato assistenziale al quale sottrae risorse in modo indiscriminato. Del grazioso regalo di un governo la cui forza principale è il PD, Confindustria ringrazia e, con i risparmi sulle tasse, il grande capitalismo conta di procedere ancora più celermente a quelle trasformazioni che abbiamo sopra delineato. Le riforme di Renzi non produrranno nessun nuovo posto di lavoro, e questo lo hanno capito tutti, ma non contrastano in alcun modo il disegno strategico di trasferire ogni risorsa nelle produzioni di lusso, per soddisfare il mercato dei ricchi. Tali riforme, incentivano, dunque, nel medio temine la disoccupazione e la formazione di un esercito della manodopera di riserva con inedite caratteristiche strutturali. Per la classe operaia la questione dell’articolo 18 non è solo una questione di difesa della dignità di lavoratori nei rapporti di lavoro, ma un indicatore dell’asprezza di uno scontro la cui posta sono il lavoro e le condizioni di vita delle masse lavoratrici. Di questa realtà si sono dovuti convincere i settori decisivi del movimento operaio, CGIL in testa. L’ineluttabile crisi dei rapporti tra il movimento sindacale ed il PD, un partito in cui le crepe sono sempre più evidenti, libera forze importanti per la ripresa della lotta del proletariato, di qualche importante settore dei ceti medi (insegnanti, pubblico impiego, ecc.), dei giovani e dei disoccupati. Naturalmente il movimento sociale sconta trent’anni di inerzia e di codismo del movimento operaio, che ha coperto le politiche di destra del PD, ciò non toglie, tuttavia, il valore eccezionale del suo risveglio ad una lotta che sarà inarrestabile, anche se ci vorranno tempo e tanta determinazione per portare a casa dei risultati.

Buon giorno FIOM, ben ritrovata CGIL, ora la sinistra di classe deve giocare le sue carte, in primo luogo chiarendo al proletariato le vere cause della crisi economica e gli immondi giochi che si sviluppano alle sue spalle.

* Redazione di Gramsci oggi

NOTE
1 Presieduta dal sen. Rubinacci
2 L. Canfora “Nuovo capitalismo e nuovi schiavi - Mondializzazione dell'economia. Il ritorno in grande stile di forme estreme di dipendenza”. Letto su Sinistrainrete dello 07/05/2014
3 Ritornando alla Germania, la casa automobilistica più in difficoltà è l’Opel, che produce le auto più popolari, meno tedesche, più europee.

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