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Le forze del lavoro

di Danilo Corradi

Recensione al libro Beverly J. Silver, Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870, Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 312*

wotwuLe forze del lavoro è un libro di straordinario interesse, frutto di un lavoro collettivo sulle trasformazioni del lavoro e sull’evoluzione del conflitto operaio letto da una prospettiva storico-mondiale.

È un tema cui da anni si interessa un’ampia letteratura, la quale muove dalla domanda cruciale sulle cause della crisi del movimento operaio degli ultimi 30 anni. Una domanda sul passato che interroga il futuro, che potremmo esporre così: è possibile considerare questa crisi come strutturale e dunque definitiva, o siamo di fronte a un’epoca di trasformazione e transizione che collocherà e rilancerà il conflitto operaio su una nuova dimensione?

Quello di Silver è uno di quei rari testi capace di segnare una discontinuità metodologica, prospettica e analitica di cui difficilmente si potrà non tenere conto in futuro.

La prima novità dello studio risiede nello stesso strumento empirico costruito appositamente per analizzare l’evoluzione dei conflitti del/sul lavoro: il World Labour Group. Il WLG è infatti una mappatura storica mondiale dei conflitti operai costruita sulla base della schedatura quantitativo-qualitativa sistematica delle “agitazioni operaie”, costruita attraverso gli articoli apparsi sul «New York Times» e sul «Times» di Londra dal 1870 a oggi.

Questo incredibile lavoro collettivo iniziato nel 1986 si è reso necessario per l’assenza di dati sulle sequenze annuali delle ore sciopero a livello mondiale, ma anche per la marcata parzialità e disomogeneità di altre fonti. La scelta dei due giornali è motivata dal loro essere i principali quotidiani dei due paesi che hanno svolto, in periodi diversi, un ruolo egemonico a livello mondiale nello sviluppo capitalistico, e quindi “portatori” di uno sguardo più attento e profondo sul mondo.

D’altro canto, il WLG non è stato assolutamente concepito come un censimento omnicomprensivo delle agitazioni operaie, ma come un termometro attendibile capace di descrivere le variazioni geografiche e d’intensità del conflitto operaio. Il libro contiene tre appendici che documentano l’affidabilità e le costruzione del WLG medesimo. Uno strumento concepito da Silver come riduttore parziale della complessità, uno strumento per forza di cose non completo, ma unico nel suo genere. La sfida della complessità e dell’ ”eccesso di fonti” può essere dunque affrontata attraverso una ricerca necessariamente collettiva, nuovi strumenti empirici e un’ipotesi forte di analisi generale e di parte (più che interdisciplinare) lontana da qualsiasi illusione “enciclopedica e oggettivistica” di stampo neo-positivista.

L’obiettivo è esplicitamente quello di “distinguere, da vari punti di vista, per le agitazioni operaie mondiali, i meccanismi ricorrenti da quelli fondamentalmente nuovi e senza precedenti” utilizzando, con questa finalità, il metodo del “paragone incorporante” di P. Mcmichael1 che concentra l’analisi sulla “concettualizzazione  delle interrelazioni più che sui singoli momenti del fenomeno esaminato”. E’ dentro questo contesto metodologico che il testo prende forma dialogando con gli autori e le ricerche più significative di questo campo di studi.

Silver descrive (capitolo II) il ciclo di lotte nel settore dell’auto evidenziando come l’intensità del conflitto segua geograficamente la progressiva periferizzazione della produzione dai paesi “innovatori” ai paesi a basso costo del lavoro. La studiosa delinea una vera e propria fuga del capitale dalle crisi di redditività prodotte dalle lotte operaie e dal progressivo aumento della concorrenza. Questa prima tendenza viene confrontata con il precedente ciclo relativo allo sviluppo dell’industria tessile (capitolo 3), il quale presenta straordinarie analogie. La delocalizzazione, in altri termini, assume le vesti di una strategia capitalistica congenita  sottostante ai cicli del prodotto, mutevole certo nella forma e nella velocità, ma non nella sostanza del fenomeno.

Il secondo elemento affrontato è il rapporto tra ciclo del prodotto (tessile-auto), organizzazione produttiva (ascesa del fordismo) e forza del conflitto operaio. È su questo piano che emergono le differenze tra i due cicli. Il ciclo del tessile è infatti caratterizzato dall’assenza della catena di montaggio e dalle relative ridotte dimensioni delle unità produttive. Le lotte nel tessile sono dunque caratterizzate da un forte potere “associativo” della classe operaia e dal protagonismo degli operai specializzati capaci di utilizzare maggiormente il loro potere contrattuale nel mercato della forza lavoro. Un potere associativo legato alle nascenti organizzazioni solidaristico-sindacali, ma anche al forte legame sociale che si andava definendo nei quartieri operai, nei luoghi di ritrovo, nelle culture contadine restie ad accettare la totale mercificazione del rapporto di lavoro.

Al contrario, il ciclo dell’auto è caratterizzato da un maggior potere derivante dal luogo di lavoro, nonchè dall’emergere della nuova figura dell’operaio semi-qualificato che lavora a una catena di montaggio dove il blocco di un singolo reparto può costringere a fermare la produzione dell’intero sito produttivo.

Suggestiva è l’annotazione storica sottolineata da Silver: con l’emergere del fordismo-taylorismo, e la maggiore dequalificazione del lavoro ad essa conseguente, si diffusero varie teorie sulla imminente fine del conflitto operaio dovuta alla maggiore facilità di sostituzione della manodopera e alla rottura dello specifico potere contrattuale dei lavoratori specializzati. Effettivamente il fordismo definì il declino della vecchia strutturazione del movimento operaio, ma provocò contemporaneamente una nuova configurazione del conflitto di classe che emerse in forme “spontanee” e dirompenti.

Alla delocalizzazione progressiva della produzione corrisponde infatti l’emergere di nuove classi operaie nei paesi periferici, cosi come il ciclo del prodotto definisce nuovi conflitti nei paesi innovatori. Questa descrizione corrisponde anche a una definizione della classe operaia come risultante dialettica tra rapporto sociale oggettivo ed espressione di soggettività conflittuale.

La classe non è per Silver un semplice dato sociologico, ma una categoria inscindibile dal conflitto e dall’organizzazione che esso definisce.

Dunque per Silver la delocalizzazione è una strategia antica che oggi trova nuove forme per svilupparsi, e tuttavia il passato ci insegna che questa strategia ha un’efficacia limitata nel tempo e di per sé non può spiegare la crisi del movimento operaio. Allo steso tempo i cicli del prodotto sono in grado di ridefinire sovraprofitti per le aziende dei paesi innovatori, ma questi vengono a loro volta rimessi in discussione da nuove cicliche crisi di redditività prodotte dal duplice effetto della riemersione del conflitto operaio e dalla progressiva estensione della concorrenza. Le stesse innovazioni del processo produttivo hanno storicamente distrutto un particolare assetto del conflitto operaio, ma per farlo risorgere con nuovi protagonisti e nuove configurazioni sociali. Il toyotismo (nelle sue varie versioni descritte nel testo) e il sistema di accumulazione flessibile sono sul piano teorico più esposti al conflitto rispetto al fordismo. Se il nuovo sistema è riuscito a ridurre le dimensioni dei siti produttivi (esternalizzazioni, just in time, ecc.), riducendo così il potere contrattuale legato al posto di lavoro, è pur vero che questi meccanismi sono stati costruiti su “ingranaggi” più delicati che devono fare affidamento su una totale collaborazione dei lavoratori stessi.

La stessa analisi dei nuovi potenziali settori trainanti dell’economia (formazione, semiconduttori, servizi all’impresa ecc) fa prefigurare all’autrice l’idea che il nuovo conflitto operaio sarà più simile a quello ottocentesco che a quello novecentesco, ovvero più legato alla ricostruzione di un nuovo potere associativo dei lavoratori. Contemporaneamente è prevedibile che in paesi come la Cina e l’India si producano nuove ondate di lotte di tipo “novecentesco”. In questo senso appare evidente come Silver giudichi determinante il fattore politico nella spiegazione della crisi del movimento operaio progressivamente manifestatasi nell’ultima parte del novecento. Il fallimento del socialismo reale e le strategie più sofisticate di controllo del conflitto sociale da parte capitalistica (prima con patti sociali avanzati, poi con la rottura degli stessi) hanno progressivamente indebolito proprio gli strumenti del potere associativo dei lavoratori: una crisi strategica e sindacale, dunque. Sarà decisiva nel prossimo futuro la capacità di ricostruire un potere associativo dei lavoratori legato all’emergere di nuovi movimenti, da quelli antirazzisti a quelli ambientali, da quelli per i diritti civili a quelli femministi. Solo una nuova alleanza permetterà nuove insorgenze basate su un forte potere associativo. Di particolare rilievo sarà la capacità di costruire soggettività internazionaliste. Oggi, così come nel tardo ottocento – inizio novecento, al boom del commercio internazionale e alle sue crisi è corrisposta un’ondata razzista e xenofoba costruita sulla disperata ricerca di protezione dei lavoratori dalla concorrenza. Contemporaneamente la guerra tecnologica combattuta con eserciti professionali, dà al capitalismo un’arma più forte per evitare il meccanismo guerra-rivoluzione che emerse dai due conflitti mondiali (capitolo 4).

Dentro queste nuove coordinate analitiche, la ricerca non può che proseguire.

 

* Mario Boyer (IRES) | Sintesi di Beverly J. Silver, Le forze del lavoro, Movimenti operai e globalizzazione dal 1870 ai nostri giorni

 

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