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effimera

Partitura per soggetti precari e pratiche politiche

di Andrea Fumagalli

Continuiamo il dibattito post 1 maggio. Stavolta ci soffermiamo sulle questioni aperte da quella giornata, in una prospettiva che non vuole analizzare i pro e i contro del 1 maggio ma piuttosto  sottolineare le questione aperte.

tagliPreludio

A più di una settimana dal primo maggio milanese, la discussione su ciò che è successo ha perso attualità. È tempo di spostarci dalle ragioni e dai torti di questo o di quel gruppo (discussione che non ci appassiona più di tanto) ai problemi e ai nodi che ci trasciniamo da tempo e che quella giornata ha posto ancor più in risalto.

La NoExpo-Mayday del primo maggio era organizzata da una rete (a cui poco può essere addebitato) e non da un singolo gruppo/collettivo che faceva da punto riferimento. E, in quanto rete, le relazioni di partecipazione – potremmo dire di cooperazione politica – che vengono attivate difficilmente riescono a convergere verso una gestione unitaria, su un unico obiettivo, con il risultato che prevalgono le forze centrifughe. L’autoreferenzialità, da sempre malattia del centrosocialismo nostrano, non è certo mancata in questa occasione, anzi. Possiamo parlare di una black (dark) side della cooperazione politica di movimento?

 

Adagio

D’altro lato, tutto ciò è esattamente specchio della “cooperazione sociale” agìta dalla condizione precaria. Le generazioni precarie sono infatti attivate dai processi di rete, si riconoscono dentro la pluralità del loro essere sociale, tuttavia stentano a ammettere che la propria evoluzione può darsi solo passando attraverso azioni non identitarie.

Come è stato sottolineato più volte, e da molti, la crisi ha impattato duramente sulla condizione precaria del lavoro vivo, acuendo quel processo di frammentazione e di individualizzazione dei comportamenti al punto tale da rendere la condizione precaria malleabile e sempre più socialmente indefinita. Se nei prima anni 2000, il sorgere di una coscienza precaria era l’esito del riconoscersi come precari, condizione di cui andare fieri perché in grado di sviluppare nuovi immaginari financo a illudersi di poter creare una soggettività comune e di prefigurare una chiara composizione sociale (più donna che uomo, più istruito che meno istruito, più lavoratore dei servizi che della manifattura, più nomade che stantio, ecc.), oggi la condizione precaria fatica a riconoscersi. Fatica sotto i colpi della crisi economica e della lotta per la sopravvivenza. Non è un caso che l’esperienza più alta dell’agitazione precaria (il percorso MayDay e gli Stati Generali della Precarietà) di fatto termina a fine 2011, nel momento stesso in cui i morsi della crisi si fanno ancor più dolorosi.

Faticosamente (vedi il convegno di Milano di fine novembre su Crisi e composizione sociale), si è cercato di riprendere in mano la matassa e di indagare l’evoluzione e le direttrici delle molteplici soggettività precarie.

Nuove forme di divisione del lavoro precario sono state attivate dalla crisi. E si tratta di divisioni del lavoro che assumono connotati nuovi, spesso difficili da indagare e arginare. Faccio velocemente riferimento al tema del merito e del riconoscimento. Sono due aspetti che tagliano trasversalmente una condizione precaria indebolita, messa sulla difensiva, che, da un lato, apre la strada a soluzioni individuali e quindi più corporative (mi creo il mio spazio e tale spazio è tanto più riconosciuto e meritevole quanto più mi distacco dalla “massa”), dall’altro, aumenta il grado di frustrazione e impotenza dei più, sino a sfociare in espressioni di rabbia che rischiano di essere eclatanti ma alla fine inconcludenti.

Oltre che ad una dinamica sociologica, siamo di fronte a una sfida politica. Perché la precarietà, in quanto condizione di lavoro e di vita, è intrinsecamente una condizione politica, anche se non è ancora capace di assumersi interamente questo piano. La capacità di cogliere tale politicità, è precisamente la sfida che abbiamo di fronte. Altrimenti, si corre il pericolo di negare la condizione precaria come condizione di sfruttamento. Mi pare che questo sia il rischio implicito nel vedere il possibile superamento della precarietà nella share economy e in alcune forme di cooperazione, gestite più o meno direttamente dalla parte più intelligente e innovativa del capitale.

Detto altrimenti, l’autonomia della condizione precaria (ovvero la capacità di autodeterminarsi, che ben era presente nel percorso MayDay) sta progressivamente contraendosi, per costrizione e imposizione.

 

Andante Mosso

Bertold Brecht diceva: “Che vuoi che sia la distruzione (pardon, la rapina) di una banca di fronte alla sua fondazione?”. Come non essere d’accordo? E come non essere d’accordo sul fatto che oggi lo stesso concetto di democrazia è diventato inutilizzabile?

E un dato di fatto che oggi le decisioni che contano (economiche,geopolitiche, tecnologiche, finanziarie, mediatiche, alimentari) vengono prese a un livello tale da non poter garantire il minimo livello di confronto, il minimo contraddittorio. Detto in altri termini, il nuovo potere dell’oligarchia tecno-finanziaria non solo ha spogliato la dialettica democratica ma ha asfaltato anche l’idea di un “contropotere”.

Negli anni Settanta, l’azione politica dei movimenti era volta alla costruzione di forme di “contropotere”. Un “contropotere” che si alimentava anche della “presa di parola”, della “proposta ragionevole” e soprattutto dell’idea che, una volta conquistato il potere, si sarebbe potuto cambiarlo. Indipendentemente dalle modalità con cui raggiungere tale obiettivo, la ragione dell’azione politica comunque ruotava intorno al concetto e alla forma del “potere”.

Forse a questo punto, bisognerebbe parlare di “anti-potere“, come processo di liberazioni di spazio e di tempo non solo del possibile ma qui e ora.

Un “anti-potere” che è già diffuso in molti comportamenti, in forme di infedeltà, di sottrazione, ma che non riesce a tradursi in pratica politica efficace e, soprattutto, “ricompositiva”.

Formalmente si può dire qualunque cosa, si può organizzare manifestazioni,vincere referendum, portare in piazza tre milioni di persone, ecc. ma ciò risulta del tutto inutile.

Cosa rimane, allora? Quale forma politica e di rappresentazione dell’alterità è oggi realisticamente possibile? Provo a fare degli esempi.

* La possibilità di costruire un anti-potere sul piano dei rapporti di forza? Non sono certo che se ne diano le condizioni.
* Un anti-potere sul piano della guerriglia e del riot? Se ci limitiamo a questo, si potrà ottenere forse un minimo di soddisfazione iniziale, ma nulla più.
* Un anti-potere fondato su forme di sottrazione costituente di alternative non immediatamente sussumibili? Può darsi. Ad esempio, sul piano finanziario, fino a che punto è possibile la creazione di un circuito finanziario alternativo basato sulla produzione dell’umanità per l’umanità che utilizza una “moneta del comune”?
* Un anti-potere fondato sull’auto produzione e auto-organizzazione, fondato sull’occupazione-riappropriazione (non affitto!) di spazi di organizzazione cooperativa in grado di produrre valore d’uso e non di scambio (fabbriche recuperate,luoghi di cooperazione sociale non competitiva, ecc.)? Forse, anche se si può correre il rischio di divenire, inconsapevolmente, strumento di governance del lavoro.

 

Andante con brio

Il problema è come uscire dal vicolo cieco, chiuso, da un lato, dall’illusione che le richieste di ascolto e le proposte politiche, nate sulla base dello sviluppo di un movimento di massa condiviso (come poteva essere il movimento degli indignados o di occupy), tramite la partecipazione all’agorà politica (modello Tsipras o Podemos, per intenderci), possa innescare un processo di cambiamento dell’attuale stato di cose a partire dal piano istituzionale. Dall’altro, dal ricorso sistematico a pratiche di azione e di riappropriazione diretta, esclusivamente movimentiste, sino a essere in grado, nelle grandi occasioni, di sviluppare riot e non semplici tafferugli, nell’illusione che prima o poi scatti una scintilla, un’ora X, in grado di rovesciare l’attuale assetto di potere.

Staremo a vedere come va a finire in Grecia e in Spagna e ci auguriamo con tutto il cuore che il tentativo di invertire la tragica rotta dell’austerity liberista possa essere vincente all’interno delle istituzioni. Comunque consci, che una vittoria elettorale non conta nulla di fronte all’attuale struttura decisionale tecno-finanziaria a livello europeo.

In Italia, la situazione è assai differente. Gramscianamente parlando, il post-berlusconismo sta lasciando in eredità la creazione di un neo blocco storico – sociale (il futuro partito della Nazione di Renzi, di cui la buona – ipocrita – borghesia Mastrolindo che pulisce Milano può essere un precursore) che potrà dispiegarsi in pieno una volta distrutta qualsiasi forma di opposizione istituzionale (Italicum) e qualsiasi conflitto sul lavoro (Job Act) in nome del modello della precarizzazione totale di Expo. In tale contesto, pensare che un movimento (debole e frammentato) sia in grado di esprimere una forza istituzionale tale da mettere in difficoltà l’attuale assetto di potere, ci sembra velleitario e per il momento poco credibile (visto anche il ruolo di tappo svolto dal Movimento 5S).

Non si tratta di essere pessimisti, ma realisti, proprio a partire dalla constatazione di quanto sia oggi difficile organizzare la nuova composizione del lavoro vivo precario, nelle sue diverse e spesso contraddittorie sfaccettature soggettive.

Queste due linee contrapposte si irrigidiscono a vicenda, alimentando incrostazioni politiche che si sono sedimentate nell’ultimo ventennio di (micro) conflittualità sociale più o meno elevata e ripropongono il vecchio ritornello tra prassi rivoluzionaria e prassi riformista, ovvero la dialettica tra un cambiamento che muove dall’interno delle istituzioni in contrapposizione con un cambiamento che viene dall’esterno, autonomo dalle istituzioni. Nulla a che fare con l’obsoleta e stantia dialettica: violenza-non violenza, perché oggi nella violenza siamo immersi quotidianamente e noi ne siamo le principali vittime.

Oggi, siamo in una fase ancor più primitiva: lo spazio dell’interlocuzione, la possibilità di farsi ascoltare è venuto sempre meno sino a scomparire del tutto. Tre lustri di Mayday stanno lì a dimostrarlo. Ciò si traduce nel venir meno della base necessaria (anche se non sufficiente) per attivare o una pratica rivoluzionaria o riformista. A partire da Genova 2001, lo spazio politico è stato costantemente eroso. D’altro lato, anche lo scontro sembra appiattirsi su un aspetto formale: si rischia di scivolare verso un’estetica del riot, in contrasto con l’estetica di una supposta post-rappresentanza, dentro e fuori le istituzioni. Entrambe insufficienti, entrambe castranti.

È possibile una contaminazione reciproca? Ovvero, detto in altri termini, è possibile passare dall’estetica del riot alla politicizzazione del riot?

È solo ragionando su questo interrogativo che è possibile apprendere la lezione del 1 maggio milanese ed è solo capovolgendo la discussione di questi giorni che vi è la possibilità perché un movimento autonomo sia concretamente in grado di essere soggetto politico. Accantonando, per il momento, la dialettica di quale pratica sia più efficace o abbia il miglior risultato in termini di analisi costi-benefici, ma concentrandosi su quali contenuti e progettualità alternative vogliamo perseguire. Solo avendo idea del “che fare”si potrà discutere del “come fare”.

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