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manifesto

Il dominio che rende felici

Cristina Morini

Il libro del filosofo ed economista francese Frédéric Lordon «Capitalismo, desiderio e servitù» è una trascinante incursione nelle nuove forme di gestione del rapporto di lavoro, dove ad essere mobilitati sono gli affetti e le passioni dei singoli

20clt1Un pano­rama nuovo ha comin­ciato a sta­gliarsi davanti ai nostri occhi nel momento in cui il sala­riato, per alcuni secoli obbli­gato al lavoro indu­striale e per altret­tanti secoli tena­ce­mente impe­gnato a lot­tare con­tro di esso per eman­ci­par­sene, si è pro­gres­si­va­mente tra­sfor­mato in un sog­getto che «desi­dera» il pro­prio impiego. La appa­rente mise­ria cogni­tiva della vita for­di­sta, den­tro la ripe­ti­ti­vità di un auto­ma­ti­smo di fab­brica che pre­ten­deva di sop­pri­mere ogni livello rifles­sivo, è stata sop­pian­tata da un nuovo ter­reno economico-produttivo che colo­nizza l’esistenza delle per­sone. Allo stesso tempo, con l’affermazione del capi­ta­li­smo finan­zia­rio il desi­de­rio invade il ter­ri­to­rio del mer­cato e il mer­cato quello del desi­de­rio. All’interno di que­sto pro­cesso, lavoro e auto­rea­liz­za­zione fini­scono per mesco­larsi, con l’effetto di una assenza di distin­zione tra tempo di vita e tempo di lavoro, vei­co­lando sim­boli e valori capaci di imporsi sulla sfera più intima dei sin­goli, così da con­di­zio­narne azioni ed esperienze.

Per deco­di­fi­care l’ingresso in quella che dif­fu­sa­mente viene defi­nita «eco­no­mia del desi­de­rio», nella tos­sica assenza di sepa­ra­zione incon­scia tra lavoro sala­riato e desi­de­rio che vice­versa aveva retto nel corso dei secoli pas­sati, negli ultimi tempi si è fatto ampio ricorso alle teo­rie psi­ca­na­li­ti­che. Il gio­vane eco­no­mi­sta e filo­sofo fran­cese Fré­dé­ric Lor­don nel suo libro Capi­ta­li­smo, desi­de­rio e ser­vitù. Antro­po­lo­gia delle pas­sioni nel lavoro con­tem­po­ra­neo (Deri­veAp­prodi, pp. 216, euro 16).

Da segna­lare l’intervista pub­bli­cata il 2 Aprile del 2015), tra­dotto da Ila­ria Bus­soni, facendo leva su una incli­na­zione costrut­ti­vi­sta e sulla filo­so­fia di Baruch Spi­noza, muove da una osser­va­zione: «Il capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo ci mostra un pae­sag­gio pas­sio­nale molto ricco e ben più con­tra­stato di quello del tempo di Marx». Per­ciò, secondo l’autore, è neces­sa­rio «com­bi­nare lo strut­tu­ra­li­smo dei rap­porti di pro­du­zione con un’antropologia delle pas­sioni. Marx insieme a Spi­noza». I quali pos­sono con­tri­buire a foca­liz­zare il «pro­blema della par­te­ci­pa­zione poli­tica all’organizzazione dei pro­cessi pro­dut­tivi col­let­tivi e dell’appropriazione dei pro­dotti dell’attività comune, in altri ter­mini quello della cat­tura del sog­getto da parte del desiderio-padrone».

 

Mono­liti a confronto

Resta da capire che cosa oggi possa accu­mu­nare il sala­riato for­di­sta, arruo­lato per poter avere accesso ai mezzi che con­sen­tono la sua ripro­du­zione, all’apparentemente «felice domi­nato» con­tem­po­ra­neo dispo­sto alla col­la­bo­ra­zione. Anche i più orto­dossi dovranno ammet­tere le com­pli­ca­zioni che ha assunto il rap­porto tra i «mono­liti capi­tale e lavoro», come li defi­ni­sce Lor­don, visi­bili nella dispo­ni­bi­lità a con­ce­dere sem­pre più tempo, atten­zione ed ener­gie al lavoro, tra­sfe­rendo «affe­zioni» dall’ambito ripro­dut­tivo a quello pro­dut­tivo. Come accade, insomma, che il lavoro accetti di andare a brac­cetto con il capi­tale?

Una prima spie­ga­zione sta in que­sto: lo schema bina­rio delle classi, dice l’autore, ha risen­tito dell’emergere nel pro­cesso pro­dut­tivo dei «qua­dri», «strani lavo­ra­tori sala­riati col­lo­cati mate­rial­mente sul fronte del lavoro e sim­bo­li­ca­mente su quello del capi­tale, nello stesso momento».

Si potrebbe, allora, notare la per­dita di cen­tra­lità del lavoro sala­riato e la rile­vanza della figura del «precario-impresa», quel «lavo­ra­tore auto­nomo» ete­ro­di­retto, ibrido eti­mo­lo­gico ed esi­sten­ziale che si situa a cavallo tra il ricatto della con­di­zione pre­ca­ria e il con­senso all’autoimpiego e all’autosfruttamento. A que­sto andrebbe aggiunta la sto­rica ambi­guità del lavoro «intel­let­tuale» che fatica da sem­pre a cogliersi come momento del pro­cesso pro­dut­tivo, anche se è costretto, per tro­vare con­ferme alla pro­pria spe­ci­fi­cità, a immer­gersi nell’ideologia domi­nante dei «talenti» e del «merito», che legit­tima dise­gua­glianze e genera una welt­an­sauung dolente e a tratti auto­com­pia­ciuta del dono dell’individualizzazione che l’inflessibile fles­si­bi­lità fini­sce per rega­lare. Per motivi diversi, que­ste sog­get­ti­vità si pre­stano a essere il pro­to­tipo di quel «domi­nato felice» che il capi­ta­li­smo si sforza di edi­fi­care. Ma felici lo sono davvero?

 

Un pro­blema di servitù

L’antropologia delle pas­sioni di matrice spi­no­ziana deve dun­que inter­se­care la teo­ria mar­xi­sta del lavoro sala­riato, «offrendo l’occasione di pen­sare d’accapo cosa siano lo sfrut­ta­mento e l’alienazione, ovvero di met­tere di nuovo in discus­sione il capi­ta­li­smo, nel duplice senso della sua cri­tica e della sua ana­lisi».

Ci si sba­razza in fretta dell’idea della «ser­vitù volon­ta­ria» di Etienne La Boé­tie, «ossi­moro del quale l’epoca attuale vor­rebbe fare la chiave di let­tura del rap­porto sala­riale e dei suoi recenti svi­luppi mani­po­la­tori»: resta infatti inspie­ga­bile il per­ché si dovrebbe auto­no­ma­mente volere una con­di­zione inde­si­de­ra­bile senza ricor­rere alla «descri­zione dei rap­porti di pro­du­zione capi­ta­li­stici, nella fat­ti­spe­cie sala­riali, che con­fi­gu­rano i desi­deri e le stra­te­gie attra­verso i quali rag­giun­gerli». Effet­ti­va­mente anche il testo di La Boé­tie rivela la strut­tura gerar­chica della ser­vitù, dun­que catene di dipen­denza, men­tre resta aperto il tema della auto­de­ter­mi­na­zione e della respon­sa­bi­lità dell’individuo. Vice­versa, il con­cetto spi­no­ziano di cona­tus, «forza desi­de­rante al prin­ci­pio di qua­lun­que inte­resse, desiderio-interesse al prin­ci­pio di qua­lun­que ser­vitù», può essere usato per descri­vere il mec­ca­ni­smo che porta all’alienazione. Le pas­sioni pos­sono dive­nire un giogo. Ci si farà legare se la corda è quella giusta.

Ovvia­mente Lor­don non nega il fatto che per vin­co­lare il lavoro ser­vano anche altri legacci. La pas­sione tri­ste della paura di rima­nere senza un lavoro ha, ad esem­pio, un peso all’interno della descri­zione di que­sta nuova antro­po­lo­gia del «domi­nato felice». Inol­tre, il capi­tale finan­zia­rio, nella forma della liqui­dità «intesa come pos­si­bi­lità di uscire in qua­lun­que momento dal mer­cato azio­na­rio», ali­menta l’immaginario di un radi­cale individualismo.

 

La rivin­cita degli scontenti

Una scrit­tura appas­sio­nata, tra­sci­nante, quella di Lor­don. Che pone tut­ta­via un pro­blema enorme.

Lor­don mette sullo sfondo del suo «modello di desi­dero» la spinta del denaro. Ma anche que­sta spinta si è esau­rita, cioè si è estinto il cri­te­rio che con­sen­tiva il comando sulla forza lavoro attra­verso un regime mone­ta­rio. Que­sto cri­te­rio è venuto meno dal momento che il con­trollo mone­ta­rio si è reso del tutto astratto e infatti esplode in tutta la sua mali­gna raf­fi­na­tezza anche la que­stione della gra­tuità del lavoro. La pro­du­zione diventa coe­sten­siva alla ripro­du­zione, ovvero assi­stiamo a un pro­gres­sivo coin­ci­dere, sovrap­porsi, sal­darsi della «vita» con/sul lavoro. Sia dal punto di vista del tempo e dal punto di vista delle qua­lità che veniamo indotti a impli­care den­tro di esso.

Tut­ta­via, qual­cosa è cam­biato da quando si è comin­ciato a scan­da­gliare lo stato di sfrut­ta­mento inten­sivo non del lavo­ra­tore ma della per­sona, all’interno di un lavoro che si pre­tende com­ple­ta­mente sog­get­ti­vato, men­tre l’altro lato del dispo­si­tivo di pre­ca­rietà si sca­tena con vio­lenza attra­verso la mor­ti­fi­ca­zione sog­get­tiva (emar­gi­na­zione e declas­sa­mento) e l’inibizione dell’autonomia personale.

Si badi bene, Lor­don ha tutte le ragioni a descri­vere le sfu­ma­ture sog­get­tive che hanno a che vedere con il desi­de­rio, con la spi­no­ziana «potenza di agire», che ven­gono mobi­li­tate dai pro­cessi pro­dut­tivi con­tem­po­ra­nei. Tut­ta­via, la affe­zione per il lavoro, la pas­sione, che in qual­che modo è diret­ta­mente tirata in mezzo dal para­digma del capi­ta­li­smo bio­co­gni­tivo e dal lavoro socia­liz­zato, si rivela solo una distor­sione pro­spet­tica. Anche per evi­dente inca­pa­cità delle cosid­dette «eco­no­mie avan­zate», con il pas­sare degli anni, in modo sem­pre più vistoso, le pro­dut­ti­vità indi­vi­duali non paiono affatto sol­le­ci­tate da mec­ca­ni­smi par­te­ci­pa­tivi e/o da pul­sioni crea­tive ma domi­nate da appa­rati repres­sivi. La crisi economico-finanziaria, il mec­ca­ni­smo del debito, oltre ai già citati pro­cessi di pre­ca­riz­za­zione, sono costru­zioni con­crete, gene­rate non per dispie­gare ma per pie­gare. Il sistema solo appa­ren­te­mente ha biso­gno di lavo­ra­tori e lavo­ra­trici moti­vati e rea­liz­zati, senza arri­vare ad affer­mare «felici». In realtà, ama l’arena dove si è costretti, fati­co­sa­mente (e il pia­cere?), a com­pe­tere per «essere visti» e nella quale, a lungo andare, il desi­de­rio avviz­zi­sce. Il governo della «vita» è il perno dell’impianto, ele­mento a un tempo sim­me­trico e sup­ple­men­tare all’antico «sfruttamento».

 

La classe pericolosa

Si può così affer­mare che la dispo­ni­bi­lità a immet­tere sog­get­ti­vità (desi­de­rio) nelle maglie del capi­tale vada ricon­dotta sem­pre più esat­ta­mente agli schemi dei modelli ri-produttivi con­nessi alla coo­pe­ra­zione sociale che ven­gono sfrut­tati dal capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo. Il neo­li­be­ri­smo rico­no­sce che il valore sta in un inve­sti­mento di desi­de­rio, per­ciò lo sti­mola ma vuole al con­tempo con­trol­larlo. Ed è così che oggi può essere meglio sve­lato l’inganno di un lavoro pro­dut­tivo fin­ta­mente model­lato sull’idea del «dono» e della «cura», la cui moti­va­zione, in realtà, è assente poi­ché manca la pos­si­bi­lità di un rispec­chia­mento, denso di senso, negli «altri», men­tre l’Io è con­ti­nua­mente sfi­dato da un regime di visi­bi­lità costante. Dav­vero è «desi­de­ra­bile» tutto que­sto?

Alla fine, Lor­don stesso pensa che ci sia modo di uscire da que­sto cir­cuito, facendo leva sugli «scon­tenti»: «Quale sarà il prin­ci­pio strut­tu­rante del nuovo anta­go­ni­smo? Ancora una volta gli affetti. Per la pre­ci­sione l’urto tra i felici che non vogliono cam­biare niente e gli scon­tenti che vogliono altro». Gli scon­tenti, e potremmo aggiun­gere i non-felici, i non-adattati, quelli che si man­ten­gono capaci di «leg­gere» i pro­pri desi­deri, ecco la nuova «classe peri­co­losa» che minac­cia il capi­tale, fuori da ogni lineare ricom­po­si­zione di classe a cui ci ha abi­tuati il pas­sato. Sta a noi la capa­cità di affer­mare la nostra indi­spo­ni­bi­lità a una colo­niz­za­zione dell’affetto. Sta a noi inven­tare e inve­stire su forme di rico­no­sci­mento inco­no­sci­bili al capi­tale. Sta a noi que­sta «piena riap­pro­pria­zione della potenza» che con­ti­nua a esi­stere anche nel regno del desiderio-padrone.

È ancora lo Spi­noza dell’Etica a sug­ge­rire a Lor­don: «quanto mag­giore è la tri­stezza con tanta mag­giore potenza di agire l’uomo si sfor­zerà di allon­ta­nare la tri­stezza». Volendo essere il più pos­si­bile prag­ma­tici, la forza delle false ideo­lo­gie neo­li­be­ri­ste con­nesse al desi­de­rio (merito, talento, godi­mento) appare for­te­mente incri­nata dall’impoverimento, dalla sva­lo­riz­za­zione, dall’esclusione. Ma non sarà solo la nega­zione a con­durre all’azione quanto piut­to­sto la ricerca — e infine il vero rico­no­sci­mento — di quelle matrici comuni del vivere che stanno alla base della pro­du­zione coo­pe­ra­tiva con­tem­po­ra­nea, den­tro una sto­ria pas­sio­nale collettiva.

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