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Riflessione sulle condizioni del moderno proletariato

scritto da Spohn

Après moi le deluge! E’ il motto di ogni capitalista come di ogni nazione capitalista. Perciò il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita di un operaio, finché la società non la costringa ad averne

Il vigneto rosso van gogh analisiLa storia del progresso – ci viene detto- è una continua avanzata verso il benessere di tutti, di modo che il lavoro sarà il mezzo di emancipazione delle masse, non più intese come un mostro pericoloso ed ebbro di idee di rivoluzione, bensì come un insieme di individui isolati, caratterizzati sempre di più dall’utilizzo della tecnologia e da una religione del consumo quale reazione “naturale” rispetto al totale dominio dell’uomo sulla natura.

Invece, ripercorrendo le tracce lasciate da Marx e da Engels sul finire della prima metà dell’Ottocento ci si accorge che già allora i due maestri del socialismo ravvisavano i termini di una battaglia solo apparentemente storiografica: i mezzi dialettici con cui entrambi combatterono sul fronte del proletariato e contro la nascente borghesia industriale si rivelarono diversi ma complementari; Engels nel 1844 si recò in Inghilterra tra gli operai di Manchester e della zona di Liverpool, dove poté appurare personalmente le condizioni di vita misere e l’abbrutimento generale della classe appena nata; Marx nel primo libro del Capitale dedica un’ampia parte del suo studio alle legislazioni sul lavoro nelle fabbriche tra il 1833 e il 1864: ovvero, quella fase che egli stesso definisce come “paradigmatica” per un’efficace comprensione della ferocia e della sete di plusvaloro che animarono da principio la borghesia industriale inglese. Dicevamo, che i mezzi dialettici furono parzialmente diversi: perché Engels redasse un resoconto che oggi definiremmo “etnografico” mentre Marx si dedicò a un vero trattato economico e giuridico con gli inevitabili prelievi storici e documentari forniti dalla documentazione scritta allora esistente sulla vita delle classi popolari a contatto con l’industria cotoniera, manifatturiera, della panificazione e così via.

Una comparazione tra La condizione della classe operaia in Inghilterra e il paragrafo del primo libro del Capitale Legislazione inglese sulle fabbriche dal 1833 al 1864 ci permette di conoscere non solo le condizioni della classe operaia in quegli anni ma anche la battaglia politica tra whigstories, tra industriali e borghesia agraria, e tra storici schieratisi con uno o con l’altro dei due fronti. Ne deriva una discrepanza di opinioni che è perfettamente in linea con i contorni dello scontro di classe, per cui – come precisa Marx- mai la borghesia avrebbe arrestato l’allungamento della giornata lavorativa senza una risposta battagliera della composizione sociale ad essa contrapposta per interessi:

“Après moi le deluge! E’ il motto di ogni capitalista come di ogni nazione capitalista. Perciò il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita di un operaio, finché la società non la costringa ad averne.”[1]

Infatti, era successo che la corsa per allungare le ore di lavoro aveva conosciuto fino al 1833 una forte accelerazione, imperocché «con la nascita della grande industria nell’ultimo terzo del secolo XVIII si ebbe un precipitare come di enorme, travolgente valanga», fino a che non si raggiunge un punto di non ritorno, stabilito intorno alle 12 ore effettive - che, poi, come illustra Marx citando il resoconto di un ispettore del lavoro, in realtà erano almeno 14:

E’ certo da rammaricarsi assai che una classe qualunque di persone debba sgobbare 12 ore al giorno. Calcolando i pasti e il tempo per andare e tornare dalla fabbrica, in realtà si arriva a 14 sulle 24 ore … A prescindere dalla salute, nessuno vorrà, spero, disconoscere che dal punto di vista morale un assorbimento così completo del tempo delle classi lavoratrici, senza interruzione, dalla tenera età di 13 anni e, nei rami d’industria “liberi”, anche da molto prima, sia estremamente nocivo, e rappresenti un male terribile … Nell’interesse della moralità pubblica, per l’educazione di una popolazione virtuosa, e perché la gran massa del popolo possa godere ragionevolmente della vita, bisogna imporre che in tutti i rami di industria una parte di ogni giornata lavorativa sia riservata al ristoro e all’ozio.”[2]

Le perplessità di Horner, ispettore del lavoro nel decennio ’40 dell’Ottocento, rientrano nel campo dei giudizi di quel gruppo di ispettori e di pensatori borghesi che dimostrarono una certa sensibilità per gli orrori dell’industrializzazione: come scrive Engels nel suo libro, tali filantropi provenivano spesso dalle fila tories e - se pure molti di essi difendevano tacitamente le ragioni conservatrici della borghesia agricola - erano stimati, se non amati, dai proletari:

Frattanto non cessava tra gli operai l’agitazione per le dieci ore; nel 1839 essa era nuovamente in pieno sviluppo, e al posto del defunto Sadler subentrò alla Camera bassa Lord Ashley e accanto a lui Richard Oastler, ambedue tories. Soprattutto Oastler, che senza posa teneva desta l’agitazione nei distretti industriali, come già aveva fatto al tempo di Sadler, era particolarmente amato dagli operai. Essi lo chiamavano il loro «buon vecchio re», «il re dei figli delle fabbriche», e in tutti i distretti industriali non v’è fanciullo che non lo conosca e non lo veneri, che non gli vada incontro in corteo insieme agli altri quando egli si reca nella città. Oastler combatté anche con molta energia la nuova leggi sui poveri, e per questo motivo venne fatto arrestare per debiti dal signor Thornill, un whig, della cui tenuta era amministratore ed al quale egli doveva una certa somma. I whigs gli offrirono più volte di pagare il suo debito e di favorirlo in ogni modo se avesse consentito ad abbandonare la sua opposizione alla legge sui poveri, ma inutilmente. Rimase in prigione e di là diffuse i suoi Fleet Papers [volantini - n.d.r.] contro il sistema di fabbrica e la legge sui poveri.”[3]

La schiera dei “sensibili” alle condizioni da subumani dei proletari del Lancashire e di tutta l’Inghilterra, soprattutto settentrionale, vantava tra le sue fila anche la notabile presenza di un abile storico del commercio, il Postlethwayt, il cui «dizionario commerciale» - come ricorda a buon pro Marx- «godeva allora [nella seconda metà del Settecento – n.d.r.] la stessa fama che ai nostri giorni circonda gli analoghi volumi di MacCulloch e MacGregor». Per motivare la convinzione che il capitalismo industriale avesse in sostanza fatto ruotare all’indietro le lancette del benessere, Marx recupera uno scambio polemico tra il suddetto storico del commercio Postlethwayt e il redattore anonimo di un opuscolo scritto contro la causa operaia e la presunta fiacchezza dei lavoratori. L’oggetto della discussione, riportata da Marx, gira intorno al fatto che gli operai dell’industria inglese non lavoravano secondo quanto avrebbero dovuto o potuto, ragion per cui era legittimo per l’anonimo autore dell’opuscolo sostenere le tesi di gran parte della borghesia whig, la quale era convinta che la vera libertà consistesse nella piena liberazione del lavoro, ovvero- come chiosa ironicamente l’autore del Capitale- in tutto ciò che fosse di ostacolo a «qualunque legislazione contraria al principio della libertà assoluta del lavoro!».

Insomma, centocinquanta anni fa la borghesia si muoveva con un profilo ideologico affatto tarato sulle sue esigenze e proprio sul diritto a “liberare il lavoro” costruiva le campagne politiche per l’ampliamento della giornata lavorativa e l’intensificazione dello sfruttamento: una serie di messaggi che -  sia detto qui solo per inciso - non può che riportarci come d’incanto alle infami bugie dei governi europei di inizio terzo millennio, con il codazzo di dichiarazioni a proposito della necessità di precarizzare e liberalizzare finalmente il mercato della forza-lavoro. Ma nella parte dedicata al pugnace tentativo della borghesia inglese di spremere il più possibile le forze fisiche dell’operaio, Marx non si concentra sul Renzi di turno o sui temi ideologici scientemente adoperati, quanto sulla contrapposizione significativa tra due fronti, ognuno dotato di verità tanto inconciliabili quanto opposte. Secondo Postlethwayt, l’operaio inglese lavorava circa 4 giorni su sette nella seconda metà del Settecento e ciò era assolutamente giustificabile secondo la norma prevista dal rispetto della vita e dei ritmi di lavoro conformi a uno stato di benessere accettabile; nel versante opposto, secondo i legislatori whigs e l’anonimo redattore dell’opuscolo Essay on Trade and Commerce la verità storica di Postlethwayt, pur essendo vera, corrispondeva a una ammissione preclara della pigrizia e dell’abbrutimento del proletariato inglese, per cui si dimostrava ineccepibile la necessità di estendere l’orario e le giornata di lavoro a esclusione della santa giornata del settimo giorno:

Se vale come istituzione divina che si debba festeggiare il settimo giorno della settimana, ciò implica che gli altri giorni settimanali appartengano al lavoro [Nota di Marx, (egli vuol dire al capitale, come si vedrà di seguito)] e non si può biasimare come crudele l’imposizione di questo precetto di Dio … Che l’umanità in generale sia incline per natura alla comodità e alla pigrizia, ne facciamo triste esperienza nel contegno del nostro volgo manifatturiero, che in media non lavora oltre i 4 giorni per settimana, salvo in caso di rincaro dei generi elementari …”[4]

Le prime due considerazioni che sorgono da queste prime letture e comparazioni sono di ambito e carattere diverso. La prima riguarda le condizioni odierne del proletariato mondiale che in Cina e vasti parti del pianeta –compresi i paesi capitalisticamente avanzati come l’Italia- versa in condizioni talmente miserabili che un paragone con l’Ottocento del capitalismo sarà necessario e forse persino costruttivo; la seconda riguarda l’assenza di un seppur minimo spirito filantropico nella borghesia contemporanea, divenuta così spietata e crudele che le condizioni di vita degli operai e dei lavoratori ove sono accettabili vengono attaccate, e dove sono già inaccettabili e brutali vengono nascoste o utilizzate, come nel caso della Cina, a fini propagandistici e politici. In definitiva, possiamo affermare che nella borghesia ha vinto lo spirito rapace e malfattore di coloro che, opposti a Postlethwayt, non solo attaccavano l’ozio e la pigrizia dei proletari ma sostenevano nel 1770 la necessità delle 12 ore lavorative e delle “House of terror”, altrimenti dette Workhouses. La storia ci insegna che nel giro di cinquant’anni sia il primo che il secondo proponimento vennero abilmente raggiunti e nel 1833 fu addirittura necessario limitare la giornata a 12 ore e porre un freno al lavoro notturno, stabilendo con un giudice persino cosa fosse il giorno e cosa la notte:

“Dopo che il capitale aveva messo secoli per prolungare la giornata lavorativa fino al suo limite massimo normale e, di là da questo, fino alla barriera della giornata naturale di 12 ore, con la nascita della grande industria nell’ultimo terzo del secolo XVIII si ebbe un precipitare come di enorme, travolgente valanga. Ogni confine di morale e natura, di sesso e di età, di giorno e di notte, venne abbattuto. Perfino i concetti di giorno e di notte, che negli antichi statuti erano così rusticamente semplici, sfumarono al punto che un giudice inglese del 1860 dovette sfoggiare un acume veramente talmudico per chiarire «con valore di sentenza» che cosa sia il giorno e che cosa sia notte. Il capitale celebrò le sue orge.”[5] (p.390)

E a guardare quali sono oggi, per esempio, le condizioni nelle fabbriche cinesi si può ben dire che le orge del capitale non sono forse mai finite, ma anzi hanno trovato nella popolazione cinese una massa abbastanza grande da poter essere spremuta nelle braccia e nella mente fino allo sfinimento e alla completa saturazione. Anche in Europa, o nei paesi Brics, le legislazioni non sono da meno e qualora non vi fosse spazio per stracciarle nella legalità vi si aprono comunque ampi spazi d’azione per la soverchieria e lo schiavismo; due episodi su tutti e che ben conosciamo: le braccia impiegate nell’agricoltura da Rosarno ai campi del Pontino o della Sicilia, le fabbriche in nero gestite da imprenditori cinesi e italiani a Prato o le molteplici aziende del sommerso nell’area vesuviana. Lo scenario dunque non finisce di allargarsi e più lo si restringe più saltano fuori nuove situazioni assolutamente allarmanti e inquietanti; un quadro che, come  Istituto O. Damen, abbiamo sempre cercato di puntualizzare, edificando più connessioni possibili tra ciò che accade in Italia e quello che avviene dall’altra parte del mondo, nella convinzione che le sorti del proletariato siano come le trame di un unico intreccio, senza un finale scritto.

 

La storia, a volte, si ripete.

Nel paragrafo “La lotta per la giornata lavorativa normale” nel primo libro del Capitale, il significato delle conquiste operaie è spiegabile solo per via dello stato dei rapporti di forza tra le classi. Da una parte, la difesa del tempo libero, delle ore di riposo, della massa monetaria utile al sostentamento fisico e alla compera di quei prodotti necessari al recupero delle molte energie vitali spese nel processo produttivo, dall’altra, la richiesta continua di allungamento della giornata di lavoro, oltre ogni moralità, etica, presupposto religioso, limite fisico. Una battaglia tra classi che si protrae fino a oggi ma che, come ovvio, possedeva già allora i connotati della «guerra civile», a tratti sotterranea, a tratti evidente:

L’instaurazione di una giornata lavorativa normale è quindi il prodotto di una lenta e più o meno nascosta guerra civile fra la classe capitalistica e la classe lavoratrice.[6]

Concentrandosi sul periodo tra il 1770 e il 1850, ovvero i decenni in cui i capitalisti espansero la loro produzione industriale soprattutto in Inghilterra, Marx ebbe modo di notare, per primo, come l’introduzione nel processo produttivo di macchine più sofisticate non comportasse una diminuzione della fatica degli operai, né tanto meno una diminuzione dell’orario di lavoro;  anzi, l’introduzione di una tecnica più elevata aveva generato una situazione di sofferenza maggiore, apparentemente in contrasto con i supposti e conseguenziali benefici. Ma nell’organizzazione del lavoro capitalistica non è la logica razionale a essere premiata, bensì il principio di remunerazione dei capitali, per cui la crescita del cosiddetto capitale costante (quella parte di capitale investita direttamente in macchinari, materie prime ecc. ecc.) costrinse i capitalisti a uno sfruttamento ancora più pesante della forza lavoro, ovvero l’unica merce tra le merci in grado di creare plusvalore. Agli occhi di Marx fu quindi evidente, da subito, la presenza di una dinamica specifica del capitalismo e che avrebbe contraddistinto questo sistema infausto fino ai nostri giorni.

Oggigiorno, l’immissione crescente di capitale costante, la moderna automazione dei processi produttivi, l’introduzione della microelettronica sono innovazioni tecniche importantissime, la cui rilevanza ha dovutamente compromesso il saggio medio di profitto, causandone una considerevole diminuizione e, una tra le conseguenze, il ricorso alla finanziarizzazione dell’economia. Una logica assolutamente controversa, che caratterizza in maniera intrinseca la vita del capitalismo:

L’impulso del capitale al prolungamento senza misura né scrupoli della giornata lavorativa trova innanzitutto appagamento nelle industrie che prime furono rivoluzionate dall’acqua, dal vapore e dalle macchine, in queste creature primogenite del modo di produzione moderno: le filature e le tessiture di cotone, lana, lino e seta.[7]

Nei decenni della prima rivoluzione industriale, un altro evento collettivo di notevole portata fu l’instaurazione di una dura disciplina sia nelle fabbriche che nelle terribili Workhouses inglesi. Una profonda regimazione della giornata lavorativa i cui prodromi sono visibili tuttora ma i cui germi sono già nella prima fase dell’industria, laddove i capitalisti stabilirono ora e sempre le regole inderogabili dello sfruttamento della forza lavoro, vietando le pause non regolamentate, regolando orari variabili ad uso e consumo delle esigenze della produzione, inventando un ingegnoso sistema dei turni à relais con ritmi e intensità di lavoro al di sotto di ogni minimo senso di umanità. Dal 1830 in poi, e fino ai nostri giorni, ogni nuova legislazione sul lavoro ha incrementato la «fame da lupi mannari di plusvalore», eliminando, nell’ultimo secolo e mezzo, ogni intercapedine o fessura temporale in cui il lavoro comprato dal capitalista potesse venire disperso o non utilizzato adeguatamente. Nel tempo, il capitalista si è dotato di leggi interne e anche di una polizia aziendale come nelle fabbriche in Cina. Un corpo poliziesco in grado di assicurare al capitalista di turno il pieno funzionamento della forza-lavoro per l’intera durata della giornata lavorativa.

Anche per quanto riguarda l’orario di lavoro, non sembra che la situazione sia mutata a favore dei proletari negli ultimi centocinquanta anni. Anche se è impossibile monitorare tutte le situazioni lavorative, nazione per nazione, è un dato ormai acquisito che la cosiddetta cinesizzazione del mercato del lavoro ha comportato un abbassamento generale del costo della forza-lavoro, spesso al di sotto del suo prezzo minimo, ovvero dei costi di sopravvivenza. Difatti il prezzo minimo della forza-lavoro equivale ai costi per la ricostituzione  delle energie intellettuali e fisiche consumate dal proletario nel processo produttivo, in modo da garantire, al pari di ogni altra merce, la sua sopravvivenza e la sua riproduzione:

Il tasso inferiore, ed anche l’unico necessario, del salario è il sostentamento dell’operaio durante il lavoro e in più quel tanto con cui egli possa nutrire una famiglia e la razza degli operai non vada estinta.[8]

L’attuale presente del proletariato mondiale ci dice, purtroppo, che esso, oltre a essere sprovvisto di un’avanguardia politica, non può neanche permettersi quel poco «in più» necessario per sostenere o per farsi una famiglia. Ed infatti nella stragrande maggioranza dei casi, i proletari stritolati nelle brame del precariato e della flessibilità o afflitti da magre entrate mensili non hanno neppure la certezza di arrivare alla seconda settimana del mese.

Un salto nel passato però non ci consola quasi per niente. Nella prima metà dell’Ottocento, sappiamo dal libro di Engels  La condizione della classe operaia in Inghilterra che le condizioni degli operai inglesi erano pessime. Le città operaie inglesi accolsero in pochi decenni centinaia di migliaia di persone, prive di denaro e in cerca di fortuna: la strutturazione delle città in grandi quartieri fu regolata dalla presenza delle fabbriche, intorno alle quali sorsero immense aree abitate, prive del rispetto delle regole sanitarie, abbandonate all’incuria, alla sporcizia, alle malattie. Nella Prefazione del 1892, scritta cinquant’anni dopo la pubblicazione della sua prima ricerca sul campo, Engels intervenne nuovamente su questo tema, chiarendo come a distanza di alcuni decenni la condizione del proletariato inglese gli apparisse solo leggermente migliorata;[9] poco righe dopo però lo stesso Engels ritornava sulle ragioni di questo breve miglioramento, precisando che ogni passo in avanti complessivo era stato compiuto solo perché la classe borghese, a meno di non mettere a serio rischio il suo regno, non aveva potuto permettere vieppiù le nefandezze dei primi anni della rivoluzione industriale. Basti pensare che la sola continua diffusione di epidemie avrebbe seriamente messo in pericolo l’intera società, compreso la stessa classe borghese e il normale funzionamento della fabbriche. In seconda battuta, conclude Engels, il sistema capitalistico si trovava nel 1892, come nel 1844, in piena espansione e ciò aveva favorito un triste contagio tra proletari, con la miseria inglese estesasi agli sfruttati di Francia, Stati Uniti, Germania:

(…) il frequente manifestarsi del colera, del tifo, del vaiuolo e di altre epidemie, ha inculcato nella mente del borghese inglese l’urgente necessità di risanare le sue città, se non vuole anch’egli cadere vittima di questi morbi, insieme con la sua famiglia. di conseguenza, gli sconci più clamorosi descritti in questo libro sono oggi eliminati, o almeno resi meno vistosi. La canalizzazione è stata introdotta o migliorata, ampie strade attraversano oggi molti dei peggiori tra i «quartieri brutti». La «Piccola Irlanda» è scomparsa, e presto toccherà ai «Sevene Dials». Ma che significa tutto ciò? Intere zone, che nel 1844 potevo ancora descrivere in modo quasi idillico, con l’espansione delle città sono cadute oggi allo stesso livello di decadenza, di abbandono, di miseria. Certo, non si tollerano più i maiali e i mucchi di rifiuti; la borghesia ha fatto altri passi in avanti nell’arte di celare le disgrazie della classe operaia. Ma per quel che riguarda le abitazioni operaie, non è avvenuto alcun sostanziale progresso, come dimostra pienamente la relazione della Commissione reale «on the Housing of the Poor», del 1885. E lo stesso avviene in ogni altro campo. Le ordinanze di polizia sono divenute abbondanti come le more, ma esse possono soltanto cingere di una siepe la miseria degli operai, non possono eliminarla. Ma mentre in Inghilterra è cresciuta uscendo da quello stadio giovanile dello sfruttamento capitalistico da me descritto, altri paesi vi sono appena entrati. La Francia, la Germania e soprattutto l’America sono le rivali minacciose che, come prevedevo nel 1844, spezzano progressivamente il monopolio industriale dell’Inghilterra.[10]

Engels aveva compreso che la borghesia  avesse quale solo obiettivo perseguibile la propria sopravvivenza e, dunque, non si proponesse altro che l’estorsione di plusvalore tramite lo sfruttamento delle energie fisiche e intellettuali del proletariato (forza-lavoro).  Dal corretto funzionamento di questo triste esercizio dipende la ricchezza e il controllo sulla società da parte della classe borghese, la quale a tal fine può promuovere una serie di miglioramenti generali, come la pulizia delle strade, il miglioramento dei servizi, la qualità della vita nei quartieri operai. Ma restando il profitto il suo unico fine per il quale essa organizza la società tramite le leggi dello Stato, solo dalla sua crescita, o meno, dipendono le quote di capitale collettivo impiegate nel risanamento e nel miglioramento di ciò che, apparentemente, appartiene all’intera società, non essendo proprietà diretta della borghesia ma bensì dello Stato. In realtà, con tali manovre, più o meno rassicuranti, è il proletariato che essa compera, pezzo per pezzo, tramite l’istituzione di un salario diretto e indiretto, corrispondenti entrambi all’elargizione forzosa di una quantità di ore lavorative. E oggi, con l’abolizione dei contratti collettivi, tale compera è stata resa ancora più brutale e aggressiva.

Ma Engels aveva compreso anche che la borghesia è abile a celare le sue nefandezze, di cui sola essa è la progenitrice, sempre a causa di quella “fame di pluslavoro” che sta alla base del suo regno, poco felice, sulla terra. Un tempo, la classe borghese, tramite ordinanze, recinzioni, leggi sulla casa e sull’accattonaggio, mirava a nascondere l’impoverimento generale. Oggi, non solo è evidente in tempi di crisi l’impoverimento mondiale subito dai proletari, quanto nell’Occidente e con sempre maggiori difficoltà i media borghesi riescono a nascondere le condizioni di vita disumane del più grande proletariato nazionale del mondo, quello cinese.

 

Mangime per macchine.

Nella raccolta di poesie di Xu Lizhi, l’operaio poeta, morto suicida, paragona se stesso a una piccola vite che cade per terra. Nel suo sbattere a terra, essa emette un rumore che risuona per tutta la fabbrica. Ma gli altri operai, raggiunti da quel battito sordo, non possono far altro che girare la testa e continuare a lavorare, a produrre. Nel Capitale, Marx non ha soltanto notato come l’introduzione di macchine comporti un allungamento dell’orario lavorativo, egli ha anche stabilito, avendo affrontato tale questione nei Manoscritti del 1844, che i termini del rapporto tra l’operaio e il suo lavoro, tra l’operaio e i movimenti che costituiscono la sua lunga giornata in compagnia delle macchine producono un effetto di separazione alienante tra il soggetto operante e il frutto della sua operazione. Essi sono estranei l’uno all’altro. Con il termine di “alienazione”, Marx definì la relazione malsana tra l’operaio e il prodotto del suo lavoro: un rapporto che si costituisce da sé nella prassi lavorativa, ovvero in quella fase produttiva da cui scaturisce l’intera ricchezza della società. Quando un uomo ricco maneggia e trae beneficio da oggetti di pregio e di grande valore egli in realtà, ci dice Marx, sta godendo del prodotto del lavoro altrui, generato sulla base di rapporti di forza tra le classi, la cui origine è ovviamente nella proprietà dei mezzi di produzione. Il proletario, perciò, è solo un ingranaggio, una vite. Una minuscola ruota la cui rivoluzione, in senso orario o antiorario, non si risolve in nient’altro che in un movimento meccanico e ripetitivo, appunto alienante. Anzi, più le macchine si perfezionano, più il proletario nel capitalismo sarà asservito al loro funzionamento, trasformandosi in mera appendice del macchinario:

Con questa divisione del lavoro da un lato e con l’accumulazione dei capitali dall’altro, l’operaio dipende in modo sempre più netto dal lavoro, e da un lavoro determinato, molto unilaterale e meccanico. E quindi, come egli viene abbassato spiritualmente e fisicamente al livello della macchina e trasformato da uomo in una attività astratta e in un ventre, così si trova in condizione di sempre maggior dipendenza da tutte le oscillazioni del prezzo del mercato, dell’impiego dei capitali e del capriccio dei ricchi. Parimenti con l’ingrossarsi della classe degli uomini solo da lavoro, si accresce la concorrenza degli operai, e quindi il loro prezzo diminuisce.[11]

Le parole di Marx sono antesignane; ma ciò non perché egli sia stato, pur nella grandezza della sua intelligenza, un oracolo, bensì a causa delle contraddizioni del Capitale, immanenti e irrisolvibili, che egli ebbe il merito di ravvisare prima di altri (da qui la famosa dichiarazione: «Tutto quello che so è che non sono marxista»). Ora, per un’attualizzazione di questo problema che tenga conto dei cambiamenti di fabbrica, basti qui rimandare all’ulteriore approfondimento sulle dinamiche relative al capitale costante nell’articolo dei compagni G.Paolucci e A. Noviello.[12]

Tornando al tema dell’alienazione, l’introduzione di macchine sempre più potenti e della microelettronica ha approfondito la frattura tra uomo e natura nel processo produttivo: l’operaio produttore è privato delle capacità manuali e conoscitive, non ricevendo nemmeno, come compenso, una riduzione della fatica. Perché l’operaio non lavora per sé, ma per il capitalista. Difatti, oltre ogni suo volontà, l’operaio di fabbrica viene privato di quasi tutte le pause e ha a che fare con un macchinario la cui costruzione è stata modellata a partire dalla facilità dei movimenti umani: il sistema ergonomico ERGO-UAS rappresenta un’altra soluzione tecnica che, come sarebbe ovvio intuire, non è finalizzata al benessere dell’operaio, bensì a un maggiore sfruttamento delle caratteristiche fisiche dell’uomo. Ecco che, allora, le poesie di Xu Lizhi tornano indietro come un boomerang, sono l’altra faccia della medaglia, quella umana. In altri termini una conferma inoppugnabile dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la cui verità si rafforza nelle numerose testimonianze raccolte da sociologi cinesi in La Fabbrica Globale. All’uscita dalle fabbriche Foxconn, durante le pause o nei quartieri operai, i ricercatori cinesi hanno ottenuto, con molte difficoltà, alcune dichiarazioni degli operai, costruendo intorno a esse uno studio analitico della situazione operaia in Cina. In una delle interviste, un’operaia si autodefinisce, addirittura, “mangime per macchine”. Insieme alle poesie di Xu Lizhi, le interviste comprese in La Fabbrica Globale acquistano perciò un grande valore umano. Difatti, quello che sta subendo il proletariato cinese è un innalzamento stratosferico della capacità di sfruttamento della forza lavoro su base mondiale: operai cinesi insediati forzosamente in aree abitative controllate dalla polizia aziendale vengono costretti giornalmente a produrre per lunghissimi orari delle quantità di prodotto industriale ben più elevate rispetto a quelle ottenute, nel medesimo tempo di lavoro, nel passato recente dell’industria. Insomma, a macchine più potenti corrisponde un grado più elevato di alienazione, solitudine, morte e intensità del lavoro.

 

L’orario di lavoro.

Per confermare la tesi che le condizioni lavorative non sono per nulla migliorate occorre aggiungere alle considerazioni precedenti anche una serie di dati comparati tra epoche storiche. Abbiamo stabilito finora che se le macchine sono oggi più potenti ciò ha comportato una maggiore intensità del lavoro nelle fabbriche di tutto il mondo. Abbiamo anche detto che l’alienazione è un tratto ineliminabile del lavoro di fabbrica e che le condizioni di vita del proletariato su scala mondiale sono nell’ultimo decennio (2005-2015) terribilmente peggiorate, minando la stessa sopravvivenza dei lavoratori. Ma, a questo punto, sorge spontaneo anche un altro interrogativo: in mezzo a tutti questi nefasti effetti prodotti dal capitalismo, che minano la vita dell’umanità a eccezione di ristrettissime frange di privilegiati, almeno saranno diminuite le ore di lavoro necessarie per un salario da mera sopravvivenza?

Se si tiene conto della documentazione storica, ciò che appare chiaro è che in alcune parti del pianeta, come in Cina, il proletariato è costretto a produrre per la durata di una giornata lavorativa pressoché identica a quella  dei lavoratori inglesi nel 1830. Il referto dei Commissioners inglesi, incaricati di vigilare sull’applicazione delle leggi, testimoniava che fino al 1830, e per altri cinquant’anni, il proletariato inglese subì leggi e provvedimenti che allungavano l’orario di lavoro giornaliero fino alle 12 ore. Nel 1847, una giornata di lavoro comprendeva addirittura 15 ore per gli operai maschi adulti. Raggiunto questo limite, anche la classe borghese si rese conto che, a meno di voler eliminare la classe dei produttori, era necessario adeguare le esigenze di profitto ad orari meno prolungati. Ma, anche su questo punto, occorre precisare che quella parte della borghesia, più cosciente dei rischi, che si rese conto in anticipo di questa risoluzione necessaria lo fece solo a seguito delle proteste degli operai e di fronte al rischio manifesto di mettere in pericolo la stabilità dei profitti e la pace sociale. Difatti, senza pressioni esterne, la classe borghese avrebbe continuato a mantenere sulla giusta durata della giornata lavorativa quelle che Marx chiamò a suo tempo le “sue brave idee”, ovvero 15 ore per gli operai maschi adulti e 12 ore per i giovani apprendisti, le donne, i bambini. Le prime conquiste per la riduzione della giornata lavorativa riguardarono proprio il lavoro dei fanciulli impiegati nel processo produttivo, la cui età non oltrepassava mai i 12 anni di vita. Le ore che ad essi venivano richieste passarono da 12 a 8 intorno al 1830, in quasi tutti i settori dell’industria. Nel 1833 la giornata delle donne e degli adolescenti di età compresa tra i 13 e i 18 anni fu ridotta da 15 a 12, mentre nel 1850 si concretizzò la proposta di una giornata di 12 ore anche per la categoria dei “maschi adulti”. Va precisato che a quell’epoca, a dispetto di ciò che si può immaginare, una grossa percentuale di lavoranti era costituita da donne e bambini e solo in determinati settori dell’industria la percentuale dei “maschi adulti” sovrastava nettamente quella delle altre due categorie e quella degli apprendisti (13-18 anni). Nelle fabbriche cinesi della Foxconn, nell’anno 2015, la giornata lavorativa ufficiale è, per oltre un milione di operai, di 10 ore. A ciò però si aggiungono circa 100 ore di straordinario mensile, che l’azienda presuppone come obbligatorie; in più, vanno anche aggiunti i tempi sottratti dalle riunioni precedenti e successive al tempo di lavoro in fabbrica. Indi per cui, le 10 ore previste dal contratto diventano nella realtà del lavoro di fabbrica almeno 12:

Anche se il mio turno inizia solo alle 8, dobbiamo arrivare già alle 7.30 per la riunione che dura dalle 7.30 alle 8 e per questa mezz’ora non percepiamo alcun salario. La sera dovremmo staccare alle 20 ma spesso il turno viene prolungato fino alle 20,30. Questa mezz’ora non viene segnalata, sicché alla fine lavoriamo un’ora gratis per la Foxconn.[13]

La percentuale di “salari rubati”, come li definisce Xu Lizhi in una delle sue poesie, è quindi molto elevata. Si tratta sia di straordinari che di intere giornate di lavoro non conteggiate, che di fatto aumentano ulteriormente il senso di frustrazione già amplificato da un lavoro senza prospettive, mal pagato e molto alienante. La legislazione cinese della provincia del Guandong prevede che nelle fabbriche si lavori al massimo 10 ore, con 36 ore mensili di straordinario, ma ciò che accade realmente è che prima che si verificasse l’ondata di suicidi operai nel 2010 le ore di straordinario erano 100, poi scese a 80 come gentile concessione della dirigenza aziendale guidata dal dirigente Terry Gou:

Normalmente lavoriamo dieci ore al giorno. A metà del turno abbiamo un’ora di pausa pranzo. Ogni giorno dobbiamo essere qui già prima dell’inizio del lavoro e alla fine c’è anche il prolungamento del turno. Complessivamente sono dodici ore al giorno. Quando torniamo al dormitorio mangiamo, ci laviamo e via di seguito. Così trascorrono altre una o due ore. Se vogliamo dormire ancora otto ore, con più di dieci ore di lavoro non abbiamo quasi nessun tempo libero. Per uscire ci vogliono almeno tre ore, perciò non usciamo quasi mai.[14]

E non si dimentichi che la Foxconn è la più grande azienda terzocontista del mondo, ossia essa produce per conto delle multinazionali americane, europee, nipponiche. Quasi tutti gli oggetti tecnologici venduti nel mercato italiano ed europeo sono manufatti provenienti dagli stabilimenti cinesi della Foxconn.

 

L’era dei tirocinanti.

Per completare il quadro non si deve omettere lo scempio del capitalismo quando la produzione si affida a forza-lavoro giovane e dequalificata. In sostanza, è un dramma comune a tutte le nuove generazioni di lavoratori, europee o asiatiche poco importa, le quali vengono depauperate delle competenze lavorative, quando queste sono ormai state trasmesse alle macchine. Tuttavia, se a qualcuno capitasse di pensare che il problema è la tecnologia, bisognerebbe rispondere che una nuova fase di luddismo sarebbe, come allora, del tutto inadeguata quale reazione proletaria e di classe; la causa delle sofferenze dei proletari va certamente individuata altrove e non nello sviluppo tecnico, per quanto esso resti “guidato” dalle esigenze di profitto.

Il sistema cinese architettato per lo sfruttamento dei tirocinanti in fabbrica è stata istituito dallo Stato, in modo da favorire le maggiori aziende cinesi e le multinazionali di tutto il mondo che se ne servono. I giovani cinesi all’ultimo anno di Istituto Professionale, a volta ancora prima, ricevono una proposta di tirocinio retribuito in una delle fabbriche di elettronica del paese. In milioni hanno finora accettato e di certo altri milioni, tramite la mediazione proditoria delle scuole, continueranno a farsi ingabbiare nel sistema dello sfruttamento a costi ribassati. Una piramide la cui base è formata dagli studenti e l’apice non può che coincidere con le grandi multinazionali che demandano alla Foxconn la produzione dei computer Lenovo, Apple, Samsung… l’era della tecnologia, la modernità dorata, corrisponde quindi allo sfruttamento smodato di ingenui adolescenti. Se è vero che non vi è più l’impiego di forza lavoro di età compresa tra gli 8 e i 13 anni - come nelle industrie del pane, dei fiammiferi, delle stoffe dell’Inghilterra tra 1800 e il 1850 - ciò che allora era definito “lavoro per apprendisti” oggi corrisponde all’impiego continuativo e sistematico dei tirocinanti di età sempre inferiore ai 18. Recentemente, in Cina, un numero considerevole di lavoratori-migranti è stato sostituito da una percentuale crescente di lavoratori e lavoratrici prelevati dall’ultimo anno delle scuole tecniche-professionali o addirittura reclutati negli anni scolastici precedenti. Durante il periodo del “falso tirocinio”, le loro capacità lavorative non vengono né migliorate né perfezionate, anzi essi passano dal sogno di diventare ingegneri alla dura realtà della catena di montaggio.

Anche la legge non è meno infingarda, anzi essa tradisce la vera natura delle regolamentazioni di fabbrica nell’era capitalistica. Nel paragrafo 22, comma 5, della legge della provincia di Guandong sul lavoro, è stabilito che «l’orario del tirocinio degli studenti non deve superare le 40 ore settimanali». Ma benché esista una limitazione di tal genere, i tirocinanti vengono utilizzati come operai normali, senza nessuno sconto, nonostante l’età, la mancata preparazione, le diverse finalità della loro presenza in fabbrica. Il risultato è che la forza-lavoro giovane è ambita e richiesta, per cui in alcuni stabilimenti cinesi addirittura il 50% degli occupati è formato da tirocinanti. Da quanto se ne sa, il loro orario di lavoro supera di gran lunga le 40 ore a settimana e prevede anche le 80 ore mensili di straordinario. Anche la differenza tra lavoro notturno e lavoro diurno non è rispettata e agli operai-studenti, al pari degli altri, vengono affibbiati stabilmente  i turni dalle 8 alle 20 e dalle 20 alle 8. La loro età è tra i 16 e i 18 anni, il loro sogno quello di scalare le gerarchie di fabbrica. A essere precisi, come emerge chiaramente dal volume di ricerche sulla Foxconn di cui consigliamo vivamente la lettura, emerge che il giovane scolaro cinese crede fino all’ultimo di essere impiegato durante il tirocinio come un tecnico. In questo circolo ben oleato tra scuole e aziende, anche gli istituti scolastici hanno un beneficio. La forza lavoro che essi assicurano alle fabbriche Foxconn è per loro una fonte sicura di lucro. Per finire, come testimonia uno di questo tirocinanti:

I tirocinanti non dispongono di un’assicurazione né antinfortunistica né sanitaria e quindi in caso di incidente sul lavoro in un processo civile possono rivendicare unicamente il rimborso dei costi da parte dell’azienda. Rispetto al diritto del lavoro, il diritto civile è molto arretrato nella tutela dei lavoratori e le cause civili sono molto complicate, lunghe e difficili. Pur essendo essi minorenni che meritano una tutela particolare, viene loro negata nello svolgimento di un lavoro chiamato “tirocinio” la sicurezza sul lavoro che gli spetta. Questo è uno dei problemi più gravi che abbiamo potuto constatare durante la nostra indagine.[15]

 

Dal ghetto dei quartieri operai alle fabbriche-caserme.

In una delle sue uscite aforistiche e taglienti, Marx deturna un’espressione di Smith riguardante il senso ultimo del salario:

Il salario abituale è, secondo Smith, il più basso che sia compatibile con la «simple humanité», cioè con un’esistenza animale.[16]

In un altro dei suoi scritti, Marx descriveva con un proprio ragionamento il graduale abbrutimento dell’operaio nel capitalismo: ciò che generalmente appartiene anche agli animali, come mangiare o bere, si guadagna l’intero tempo e le uniche energie messa in riserva dall’operaio; invece, tutte quelle attività specificamente umane, che differenziano l’uomo dall’animale e ne nobilitano la natura altra non meritano che briciole di tempo, se non il nulla. L’operaio è abituato a considerare se stesso non in quanto uomo ma in quanto salariato e come un salariato, non come un uomo, egli viene considerato dal capitalista e dallo Stato che ne fa le veci. Le condizioni di vita del proletariato inglese all’epoca della prima rivoluzione industriale sono emblematizzate da Engels con la storia di emigrazione e povertà del popolo irlandese: questa gente “orgogliosa e tenace”, ci dice Engels, fu costretta a emigrare per fame e presto si ridusse in una condizione di miseria assoluta. Nei primi decenni della rivoluzione industriale la condizione degli irlandesi costituiva il limite umano al di sotto del quale si moriva. Essi rappresentavano lo strato inferiore dell’intero proletariato in formazione, in quanto essi subivano le peggiori condizioni di vita. Poco più su della povertà degli irlandesi vivevano nelle città industriali una moltitudine di operai, assillati anch’essi dalla mancanza di denaro e ingabbiati per tutta la vita in abitazioni sporche, simili a baracche o a spelonche. Con il passare delle amministrazioni, come afferma Engels nella già citata Prefazione del 1892 la vita degli operai nelle città di Manchester o Liverpool era leggermente migliorata, anche se non dappertutto. Come ci tiene a specificare Engels, per alcuni quartieri che si erano tirati parzialmente fuori dall’indigenza totale, altri ci ricadevano, e così valeva anche per quelle nazioni inglobate da poco nel sistema in piena espansione dello sfruttamento salariato.

Dopo più di un secolo, l’intero pianeta è stretto in una rete di connessioni che collegano tra loro i mercati finanziari e delle merci, dalla Cina all’Europa. Le merci stesse vengono prodotte in più paesi, per poi venire assemblate da un’ulteriore azienda rifinitrice, magari terzocontista e in outsourcing come la Foxconn. Persino i macchinari, e così le catene di montaggio, possono essere movimentate da un continente a un altro, determinando un’instabilità costante nel prezzo di quell’unica merce che, ancora adesso, permette la creazione di valore: i proletari, gli «uomini solo da lavoro» come li chiama Marx o, ancora più causticamente, coloro che dai primi capitalisti inglesi erano definiti, non senza una punta di disprezzo, “braccia”.

Ma quanto è peggiorata la vita di queste “braccia”? Se ci focalizziamo sull’Italia, basta soffermarci sulla flessibilità issata a bandiera dal capitale, oppure alle centinaia di migliaia di braccia, migranti e non, impiegate nel lavoro di industria e di agricoltura, con salari da fame e senza alcuna protezione sindacale –per quanto , come è ormai chiaro, questa sia del tutto fittizia. Se allarghiamo il campo di osservazione, è ancora più evidente che il mondo è come una pattumiera, di rifiuti, di scorie, di ogni genere di scarti della produzione: un pianeta in rovina, immagine simbolo di una relazione tra uomo e natura che si è del tutto deteriorata. Eppure, alla base dello sfruttamento della “parte inorganica dell’uomo”, come Marx definì la natura, risiede una ancora più brutale relazione tra uomo e uomo, o meglio tra capitalista e semplice venditore di forza-lavoro.

Nella fabbrica del mondo la vita degli operai cinesi è paragonabile a quella dei polli, rinchiusi in un moderno spazio produttivo. Racchiusi nelle loro cellette, neanche troppo pulite, circa un milione e trecentomila operai della Foxconn viene controllato e seguito per tutto il giorno dalla polizia dell’azienda, di modo che i supervisori assoldati possano assicurarsi costantemente il corretto esaurimento della merce umana appena comperata, senza che nemmeno una particella di forza-lavoro si sprechi in operazioni non concernenti il processo di valorizzazione. Le abitazioni carcerarie riservate agli operai non possono che lasciare stupefatti, rimandando al terrore delle Workhouses inglesi. Le inferriate apposte sulle finestre per evitare i suicidi, il ristrettissimo metraggio delle camerate, ospitanti anche 20 persone in 20 metri quadrati, l’estrema concentrazione di operai per metro quadrato nelle città sono tutti dati che sconfortano e spaventano, che fanno incazzare. Essi rendono chiaro però lo spietato piano di controllo messo in atto per  l’asservimento degli operai:

Io e i miei cinque compagni di scuola abbiamo cominciato insieme nella fabbrica. Nei primi giorni dell’addestramento quindi parlavamo molto tra di noi. Ho stretto anche delle nuove amicizie. Andavamo insieme a pattinare, passeggiavamo per la città e abbiamo iniziato subito a parlare delle nostre esperienze e dei nostri sentimenti. Alle donne basta poco tempo per entrare in contatto tra di loro. Dopo siamo state assegnate a reparti diversi e più spesso anche trasferite. Infine sono capitata con la mia collega Hong nella zona B11. Lei però fa il turno di giorno e io il turno di notte e non lavoriamo neanche alla stessa linea di produzione. Per questo motivo solo raramente abbiamo modo di parlare o di fare una passeggiata insieme. Se una fa il turno di giorno e l’altra fa il turno di notte, non ci si incontra mai. Quando facevo ancora il turno di notte insieme con Hong, andavamo immediatamente a dormire dopo il lavoro. Se avevamo ancora un po’ di energie riuscivamo appena a fare un po’ di punto croce. Il lavoro di fabbrica è opprimente e non hai nessuna possibilità di liberarti delle tue preoccupazioni.[17]

L’altra faccia dello sfruttamento è, come si sa, la solitudine. Lo sfruttamento e l’estrazione di pluvalore rappresentano l’ingranaggio per il quale è utile somministrare le giuste dosi di disciplina e sottomissione ideologica. Il risultato abnorme è l’ottenimento di un individuo isolato, finanche incapace di comprendere il suo dramma o di potersi specchiare in quello del collega compagno che gli sta accanto:

Non ho quasi nessun amico a cui posso raccontare tutto. Quando non lavoro non so che cosa fare e non conosco nessuno con cui poter uscire o parlare. Mi sento solo. […] Alla Foxconn tutti i dipendenti vengono separati arbitrariamente. La rotazione dei turni di giorno e di notte non lascia tempo agli scambi. Così è difficile avvicinarsi realmente ad altre persone[18].

 

Per i riformisti splende sempre il sole

Se non ci fosse la crisi del capitalismo a sottrarre ancora più risorse al proletariato e se non si stesse assistendo alla débâcle completa della sinistra di Tsipras in Grecia o al naufragio dei movimenti spontanei della middle-class proletarizzata, dagli Indignados ad Occupy, verrebbe quasi da sorridere di fronte all’intenzione della sinistra riformista italiana di riconquistare a sé “milioni di persone che vorrebbero vedere trasformate in realtà le loro volontà di cambiamento”.

Perché proprio di questo si tratta, ovvero della necessità, sempre più vitale, di dare corpo alle speranze infrante dal capitalismo. Giusto per non morire in attesa di un salario migliore o della riduzione della giornata lavorativa. Nell’epoca del precariato e della cinesizzazione del mercato del lavoro, i salari vanno al ribasso su scala mondiale; così, anche le condizioni di lavoro peggiorano, dalla Cina fino in Europa. In un contesto del genere, però, c’è sempre spazio per le attese messianiche o, peggio, per una rilettura di Marx, che Norma Rangeri, con astuzia, in un articolo di apertura de Il Manifesto, recupera in salsa riformista:

Oggi all’ordine del giorno non c’è la rivoluzione ma un’idea di riformismo di sinistra in grado di persuadere milioni di persone. Karl Marx ai critici del suo sostegno alla legge delle dieci ore rispondeva così: «Per la prima volta alla chiara luce del sole, l’economia politica del proletariato ha prevalso sull’economia politica del Capitale». Nessuna rivoluzione, ideologica e auto contemplativa ma cambiamenti radicali, di base.

Ancora una volta il nome di Marx serve a suscitare palpitazioni e appetiti rivoluzionari, ma questa volta con una semplice frase riportata si tenta di omettere le convinzioni rivoluzionarie del pensatore tedesco. Professione assolutamente chiara ed esplicita, anche a proposito dell’importanza della “lotta economica” per una lotta rivoluzionaria, come motivato nella famosa disputa con il Signor Weston compresa in Salario, prezzo e profitto. Se il pensiero materialistico insegna qualcosa, esso ci dice che il capitalismo trascina con sé delle contraddizioni insanabili, originatesi a causa della sua stessa fonte di sopravvivenza, il plusvalore. Per ottenere della ricchezza, i capitalisti sono da sempre costretti, loro malgrado (!), a rubare ore di lavoro ai proletari, e così continuerà a essere finché dei rivolgimenti sociali su scala internazionale non metteranno fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

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Note
[1] K.Marx, Il Capitale, Libro primo, Il processo di produzione del Capitale, sez. VIII La giornata lavorativa, par. La lotta per la giornata lavorativa normale. Leggi per l’imposizione del prolungamento della giornata lavorativa dalla metà del XIV secolo alla fine del XVII, UTET, Torino, 2009, p.380.
[2] Marx riprende un passo da L.Horner, Reports of Insp. Of Fact, 31st Dec. 1841, in K.Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., par. La lotta per la giornata lavorativa normale. Limitazione obbligatoria per legge del tempo di lavoro. La legislazione inglese sulle fabbriche dal 1833 al 1864, p.390.
[3] F.Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma, 1978, p.235.
[4] Marx riporta un estratto da Essay on Trade and Commerce: containing Observations on Taxation, Londra, 1770 (la citazione è in K.Marx, Il Capitale, Libro primo, cit., p.387). Altro libello accusatore èConsiderations on Taxes, Londra, 1763.
[5] K.Marx, Il Capitale, Libro primo, cit.,pp.389-390.
[6] K.Marx, Il Capitale, Libro primo, Cap. VIII, p.415. Ancora più preciso nei Marx Manoscritti del 1844: «Il salario è determinato dal conflitto tra capitalista ed operaio. La necessità della vittoria per il capitalista. Il capitalista può vivere senza l’operaio più a lungo che non questi senza quello. Le leghe dei capitalisti [sono] abituali ed efficaci, quelle degli operai sono proibite e hanno per gli operai stessi conseguenze funeste». (K.Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1968, p.11)
[7] K.Marx, Il Capitale, cit., p.414.
[8] K.Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p.11.
[9] F.Engels, Prefazione de La condizione della classe operaia, 1892.
[10] Ivi, p.31
[11] K.Marx, Manoscritti econonico-filosofici del 1844, cit., p.15.
[12] G.Paolucci- A.Noviello, La falsa modernità di Marchionne e l’attualità di Karl Marx, DemmeD’, nr.3, pp.18-23 e di A.Noviello, La microelettronica nei processi produttivi e il degrado del lavoro telematico, DemmeD’, nr.6, p.80 e ss.
[13] AA.VV., La fabbrica globale, Ombre corte, Verona, 2015, p.48.
[14] Ibid, p.82.
[15] AA.VV., La fabbrica globale, cit., p.102.
[16] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p.11. La frase è tratta da A.Smith, Recherches sur la nature et le causes de la richesse des nations, Paris 1802, t. I, p.138.
[17] AA.VV., La fabbrica globale, cit., p.87.
[18] N. Rangeri, «Il Manifesto», 27 luglio 2015.

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