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effimera

Gli orfani di Nizza

di Joe Vannelli

licenziactProprio quando avevo terminato la lettura del saggio pubblicato presso DeriveApprodi da Peppe Allegri e Papi Bronzini (Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione) mi sono imbattuto in una sentenza del Tribunale di Potenza che merita menzione e commento.

La motivazione è stringata. Sostiene il Giudice del Lavoro, dottoressa Isabella Tedone, che non esiste nel lavoro autonomo alcuna presunzione di onerosità della prestazione richiamando un (per la verità solo preteso) precedente di Cassazione in tal senso (2769/2014, basta scorrerla in motivazione per capire che in realtà parla d’altro). Pacifico, comunque, che il nostro fosse un collaboratore non subordinato e che avesse fornito ad un quotidiano on line (La Nuova del Sud) una serie numerosa di servizi giornalistici, nell’arco di un biennio, mai retribuiti. Ma il Giudice nega l’esistenza di un diritto al pagamento, chiarendo le ragioni che avevano rafforzato tale convincimento: all’epoca dei fatti il ricorrente aveva trent’anni e, come noto, nel settore in questione è tutt’altro che infrequente, magari nelle more del conseguimento del titolo di pubblicista, che il giornalista si presti a consentire, anche gratuitamente, la pubblicazione dei propri articoli, anche solo allo scopo di acquisire notorietà ed esperienza. Per rivendicare un compenso non basta, secondo il Tribunale di Potenza, dimostrare lo svolgimento di attività lavorativa in favore di un’impresa operante nel settore della comunicazione; il collaboratore autonomo deve farsi carico di provare anche un accordo con chi utilizza le sue prestazioni circa la retribuzione pattuita. In conclusione il povero cococo non ha preso un centesimo ed ha pure pagato tremila euro di spese processuali.

Bronzini e Allegri si fanno generosamente carico delle istanze riformatrici avanzate dalle strutture organizzate dei consulenti, quanto meno di quelli attivi nel terziario avanzato (in particolare esaminando le posizioni di Acta e pubblicando un paio di documenti dell’associazione in appendice); ma, a mio avviso, gli autori finiscono con l’accettare una sorta di rovesciamento di prospettiva, di capovolgimento dell’ordine logico necessario per intendere la questione.

Mi spiego rapidamente. Non vi è dubbio che sia ormai improponibile, nel tempo dell’informatica, della finanza e dei beni immateriali, la pretesa di ricondurre a forza l’intero mosaico del lavoro nell’ambito della sola stabilizzazione subordinata, di un orario predefinito, di un luogo fisso (non solo in forma di fabbrica tradizionale, ma ormai perfino in quella di fabbrica diffusa). Ma, al tempo stesso, non appare praticabile neppure la via di una costruzione progressiva (dunque contrattata, riformatrice e per via sindacale concordata), mediante una sequenza equivalente, di tutele e diritti, tali da rendere la vita dei collaboratori autonomi meno gravosa e più libera. La scelta odierna del potere, a mio avviso irreversibile e non modificabile, sta proprio nel rifiuto incondizionato di un percorso così concepito, è di natura necessariamente autoritaria. La precarizzazione non tende affatto a ricondurre la moltitudine (ancora importante e significativa) dei lavoratori subordinati nelle stesse condizioni, poco protette, dei lavoratori autonomi; e neppure ha lo scopo di restaurare semplicemente il quadro normativo in vigore negli anni cinquanta. Non mi convince una lettura delle norme varate dal governo nazional-democratico delle larghe intese quale elemento fondante del nuovo assetto (non è il gallo che canta a produrre il mattino).

La questione mi pare più articolata e complessa per un verso, perfino più semplice sotto altro profilo; e qui mi sia consentito un duplice affettuoso dissenso con gli autori, che sono tuttavia, e da anni, attenti studiosi (mai banali) dei fenomeni di sussunzione (formale e reale, anche nel diritto del lavoro, ri/elaborando con pazienta la linea tracciata da Ghezzi e Romagnoli).

Nel terzo capitolo (dedicato alla repressione legislativa: ma perché non numerarli questi capitoli?) il cammino della normativa viene (con riferimento ovviamente al lavoro autonomo) ritenuto coerente e continuativo, dalla legge 30 (Biagi) alla riforma Fornero, fino ai recenti decreti del Jobs Act. In realtà la filosofia del diritto utilizzata dal professor Biagi (ed anche il suo testo normativo, poi approvato con molte variazioni solo nel 2003) era profondamente sociale (o, meglio, legata all’enciclica di Leone XIII, dunque cattolica e corporativa, fondata sulla solidarietà e sul consenso); mentre quella di Poletti e Renzi è liberista, autoritaria, imposta senza trattativa alcuna rimuovendo per via immediatamente legislativa la lunga esperienza della compartecipazione, dei tavoli di confronto.

Nel 2012, su espressa richiesta della commissione europea, il governo italiano (Monti, Letta e infine con maggiore violenza Renzi) ha cambiato il passo, rotto ogni indugio e travolto ogni argine di tutela, senza più mediazioni. Si è realizzata una palese (e a mio avviso irreversibile) discontinuità. Il capitalismo finanziario intende mettere l’esistenza intera a valore, allargare la forbice dei compensi, utilizzare insicurezza e paura ai fini dell’esercizio del controllo sociale, diminuire per quanto possibile il salario a tutti, subordinati e autonomi; questo processo di sussunzione è da qualche anno in fase di avanzata attuazione, la legislazione si limita a prenderne atto codificandolo e legittimandolo a posteriori. E questo è un primo punto.

Il secondo punto di dissenso riguarda il ruolo del sindacato (o eventualmente dei movimenti collocati nell’ambito della sinistra tradizionalmente intesa). Bronzini e Allegri sembrano rimproverare al sindacato (pagina 66: questa operazione non è stata contrastata dal sindacato, in particolare dalla Cgil, ma semmai appoggiata) una certa complicità nel processo di rimozione delle tutele esistenti e di mancata introduzione di quelle nuove, in favore dei collaboratori autonomi.

Non mi convince l’assunto; non ci troviamo di fronte ad una cinica strategia conservatrice, non è stato un miope calcolo politico errato per mantenere vantaggi ai subordinati stabili in danno dei lavoratori autonomi. Anche, forse. Ma si tratta, principalmente, di mera impotenza, di debolezza, di incapacità nel costruire rapporti di forza e strutture organizzate. Il sindacato è ormai un involucro sostanzialmente privo di consenso. Peraltro, ove davvero si fosse trattato di una scelta e non di una sconfitta, sarebbe contraddittorio confidare in un rinnovato meccanismo di coalizione che consenta la resurrezione delle trade unions sotto nuova forma.

E questo vale non soltanto per le sigle confederali, ma anche per i movimenti di base, travolti dalla medesima crisi. Quando il governo li ha sfidati (tutti), legiferando senza consultazioni o comunque senza tenere in considerazione perfino le istanze più moderate, si è verificato un fenomeno che ricorda il re nudo.

Dentro la crisi c’è stata una brusca accelerazione del processo di precarizzazione, gli argini della socialdemocrazia hanno ceduto e sono stati travolti, l’apparato finanziario di comando si è impadronito dell’intero circuito di produzione sociale imponendo le regole della sopravvivenza. I salari reali sono diminuiti, la forbice fra ricchi e poveri si è allargata, l’ingranaggio dell’istruzione e della ricerca si è modificato (in parte smantellato, in parte ricondotto ad un ruolo ancillare), le risorse ambientali sono state requisite e riqualificate come merce, la paura è stata utilizzata come gendarme delle libertà collettive o individuali laddove queste andassero a contrastare il profitto. In una parola, rimosso il confine fra tempo-lavoro e tempo-libertà con prestazioni frantumate a chiamata non garantita, l’intera esistenza è stata messa a valore.

Bisogna riflettere bene. Nel 2012 una modifica sostanziale dei rapporti di forza codificati nelle norme giuridiche in tema di licenziamento e pensioni (la riforma Fornero) venne approvata senza lotte significative di contrasto, senza scioperi, con un’ampia maggioranza, trasversale, destra centro e sinistra (le larghe intese). In quel passaggio parlamentare si è registrata la discontinuità, è cambiato il rapporto fra palazzo e sudditi, è nato il nuovo dispotismo europeo enunciato dalla commissione. Il resto altro non è che logica conseguenza di quella scelta programmatica.

Per accumulare bisogna sorvegliare e punire più che acquisire consenso e trattare; ma per l’attuazione di un simile programma le organizzazioni sindacali servono assai a poco e questo spiega il ruolo marginale in cui appaiono confinate. La repressione legislativa (Allegri e Bronzini hanno scelto un’espressione azzeccata e suggestiva) giunge a cose fatte, ratifica e sistema sul piano normativo quello che già era avvenuto dentro la gestione della crisi, legittima l’esistente per come nei mesi precedenti pianificato ed attuato in esecuzione degli ordini della commissione europea.

Il lavoro autonomo e il lavoro subordinato hanno subito un complessivo processo di trasformazione, entrambi nel senso di una comune condizione precaria estesa all’intera esistenza; per entrambi, ferme le diverse caratteristiche e pur con una tempistica che necessariamente non può coincidere, l’unica opzione consentita ai soggetti che si offrono di prestarlo è la resa incondizionata. I soggetti debbono essere disponibili sempre; e debbono esserlo cooperando socialmente, come un tassello dell’esproprio del comune. Chi si sottrae e pretende di non mettere l’esistenza intera a valore rifiuta l’ordine costituito; e il rifiuto in forma collettiva viene qualificato come un crimine (nelle forme più radicali anche terrorismo).

Gli ultimi dati disponibili evidenziano un aumento notevole nell’impiego del voucher quale sistema di pagamento; riteniamo che la diffusione sia destinata ad avere ulteriori incrementi e il buono lavoro prescinde dai contratti, dal contenuto dell’attività, dall’orario e dal luogo di prestazione. Il voucher consente di acquisire energia lavorativa (subordinata o autonoma) senza altra regola che quella di uno scambio; e il dispotismo in vigore evita sanzioni dissuasive che rendano non conveniente il ricorso al lavoro nero o al lavoro gratuito. La sentenza del Tribunale di Potenza è davvero emblematica, cooptando all’interno dell’ordinamento giuridico e dell’attività d’impresa l’utilizzo non remunerato e continuativo nel ciclo di creazione del profitto. Non si registra dunque, con la cancellazione del contratto a progetto (concepito dal professor Biagi non come elemento portante della prestazione autonoma, ma come eccezione ed argine all’abuso datoriale e per questo motivo abrogato dal ministro Poletti) alcun ritorno al passato, ma, piuttosto, la conferma dei nuovi rapporti di forza. La pressione fiscale e contributiva consente un maggiore controllo sia dell’ormai indebolito squadrone degli agenti e dei rappresentanti di commercio sia del variegato popolo delle partite iva. Ma la stessa sorte è toccata, con codificazione a posteriori, agli operai della logistica e agli addetti del terzo settore (lasciati in balia di pseudo cooperative in cui le strutture criminali dominano); continui ostacoli sono stati inseriti per vanificare la responsabilità solidale dei committenti (fra tutti la concessione di un complicato e clamoroso beneficio di preventiva escussione che costringe i lavoratori truffati da fallimenti di comodo ad assumersi il costo di un inutile pignoramento, per anni, fino a conclusione delle procedure concorsuali, nella gran parte dei casi perdendo il dovuto).

Allegri e Bronzini, nel capitolo chiamato appunti di viaggio, indicano nel salario minimo e nella rimessione al Giudice della valutazione di un equo compenso i primi possibili rimedi, da estendere a tutte le forme di lavoro. Le basi andrebbero cercate nelle istituzioni comunitarie e nella filosofia costituzionale europea (la Carta di Nizza, naturalmente, riveste un ruolo centrale nell’articolare l’argomentazione).

Io sono stato fra coloro che, in occasione della consultazione elettorale francese, ritenevano che non fosse opportuno il voto negativo e che, pur trattandosi di una evidente soluzione di compromesso, un minimo di tutela costituzionale europea costituisse un miglioramento. Il risultato (non solo in Francia) condusse a soluzione opposta; ma se anche fosse stato diverso l’esito, con gli occhi di oggi, possiamo tranquillamente affermare che non sarebbe cambiato nulla. L’esplosione della crisi era alle porte.

Anche in Europa accade quel che ci troviamo davanti in Italia. La socialdemocrazia si è fatta carico di smantellare lo stato sociale, compito che per i partiti conservatori sarebbe risultato probabilmente impossibile senza l’uso delle armi. Non solo Renzi, ma anche Hollande e Sigmar Gabriel (non a caso ministro dell’economia) si sono presi l’incarico di far pagare il costo della crisi ai ceti popolari, di guidare il passaggio verso la condizione precaria generalizzata, di costruire il consenso al dispotismo. I principi solidaristici della tradizione socialista o cristiano sociale sono stati archiviati. In Ungheria e Polonia i governi di destra si sono apertamente ribellati e l’edificio comunitario ondeggia, vacilla, appare instabile; vince il dispotismo della commissione che detta le scadenze e sanziona qualsiasi diserzione. Questa è la costituzione materiale che ci corre l’obbligo di esaminare e nei confronti della quale vanno costruite le contromisure (necessariamente in coalizione, non c’è dubbio).

È interessante, in apertura, l’esame del lavoro nelle costituzioni italiane moderne, a partire dal periodo napoleonico e con una curiosa digressione che concerne lo stato libero di Fiume (quello di D’Annunzio). Aggiungerei quella che Marx non esitò a definire la gloriosa Repubblica Romana (3 luglio 1849) per via del III principio fondamentale, assai innovativo: la repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini. L’ordinamento non è concepito come mero organo di vigilanza o controllo, ma si assume un ruolo attivo (promuove) volto ad alzare la soglia del reddito. La Carta (di compromesso) approvata nel 1948 recepisce in più articoli tale principio nato nelle barricate. E suggerirei di inserire nella disamina storica la Carta del Lavoro approvata il 21 aprile 1927 (richiamando proprio la Carta del Carnaro citata dai nostri autori), inserita come premessa e prefazione nel codice civile vigente (1942); il testo fu elaborato dal giuslavorista ligure Carlo Costamagna (1880-1965), convinto assertore della funzione disciplinare dell’ordinamento statale e dell’avvenuto superamento della lotta di classe. La filosofia della legge delega e degli otto decreti delegati è molto più vicina a quella del Costamagna che al pensiero socialdemocratico tradizionale (a maggior ragione non è compatibile con la storia del movimento operaio italiano in tutte le sue articolazioni, anarchica, socialista, cattolica, mazziniana, comunista). L’attuale governo, nel corpo della riforma, utilizza a piene mani (a volte perfino con lo stesso vocabolario) le risoluzioni corporative ed autoritarie che caratterizzano la vecchia Carta del Lavoro (i primi due articoli contengono in nuce il cosiddetto partito della nazione).

Peppe Allegri ha studiato, negli anni giovanili, un’opera che amo in modo particolare, il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. Fu pubblicato anonimo a Milano nella tipografia di Strada Nuova, ed è uno scritto che nasce negli anni delle prime costituzioni italiane, citate nel nostro volume. È interessante come già allora si cogliesse il rapporto fra potere e moneta: si fecero estrazioni immense di denaro: quando non vi fu più denaro si fecero fabbricare carte onde venderle come denaro. Le carte circolanti giungevano a circa trentacinque milioni di ducati, de’ quali non esisteva un soldo.

Non è un po’ quel che sta accadendo nel palazzo del potere finanziario? Con una differenza. Le carte circolanti (che oggi sono al tempo stesso moneta corrente e pura astrazione) sono imposte con leggi speciali e a pena di sanzioni severe per chi non le accetti. Pensiamo ad un paradosso di cui le costituzioni (italiane ed europee) non tengono conto, ovvero esaminiamo chi sia davvero il debitore e chi il creditore. Gli stati e le banche lamentano enormi esposizioni passive; e pretendono (invece di fallire, come la logica liberista propugnata prevede) la copertura dai lavoratori (subordinati e autonomi), aumentando le tasse e riducendo con la forza il costo del lavoro. I lavoratori debbono dunque anticipare le prestazioni senza ricevere prima il corrispettivo (contro ogni regola di mercato) e in più pagare i debiti dei loro acquirenti come condizione di accesso al reddito necessario per sopravvivere. Questo è il senso di una norma costituzionale (il pareggio di bilancio) imposta ai singoli stati nazionali (recepita dalle due camere, che con una maggioranza scandalosamente ampia hanno impedito pure il referendum confermativo: sarebbe stata una bellissima occasione di battaglia!). Il pareggio di bilancio è la gabbia imposta dalla commissione europea, il grimaldello che vanifica tutti i principi solidaristici (ma allo stato solo programmatici) contenuti nella Carta di Nizza e nella Carta dei diritti fondamentali UE. Esiste certamente, come affermano con vigore i valorosi Allegri e Bronzini in chiusura (pagina 116), la necessità di un comune ragionare sentire e intervenire intorno all’urgenza di affermare tutele e garanzie per il lavoro Au-delà de l’emploi; per rendere percorribile una simile strada si impone, senza dubbio, anche uno sforzo (nella teoria e nella prassi) di unificazione, di coalizione. Ma nessuna costruzione avrà un senso laddove non si abbiano la chiarezza e la capacità di individuare, insieme al traguardo di programma, anche l’ostacolo che si frappone. Questo ostacolo, qui e oggi, è costituito dal rappresentante politico italiano del capitalismo finanziario, ovvero dal partito democratico, che rende operative, con metodi dispotici, le direttive della commissione.

Senza abbattere l’ostacolo il destino è quello di rimanere orfani di Nizza.

(Giuseppe Allegri, Giuseppe Bronzini, Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione, DeriveApprodi, Roma 2015, p. 190, euro 13,00).

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