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blackblog

Sguardi incrociati sui luddisti ed altri distruttori di macchine

Il ruolo della tecnica nella problematica del mutamento sociale

di Michel Barillon

Quelli che ci trattano da "distruttori di macchine", dovremmo trattarli noi, in cambio, da "distruttori di uomini."
- Günther Anders [*1]

ludd16Per una rilettura della Rivoluzione Industriale

Recentemente, nello spazio di un anno, senza alcuna concertazione, le case editrici francesi hanno pubblicato quattro opere che riguardano la distruzione delle macchine [*2]. Fino ad allora, gli editori, riflettendo in questo l'attitudine della maggior parte degli storici, avevano dimostrato assai poco interesse alle rivolte contro le macchine avvenute all'alba della Rivoluzione industriale. Ciò era essenzialmente dovuto al fatto che quei movimenti venivano percepiti come la manifestazione di un "oscurantismo tecnologico", una reazione arcaica nei confronti di una dinamica storica che si presume si svolgesse sotto gli auspici del "Progresso". Lo attestano i manuali di storia: così, quando i fatti in questione non vengono puramente e semplicemente ignorati, vengono presentati come un "reazione primitiva" [*3]. Nell'arte della negazione, David S.Landes appare come un virtuoso: su circa 750 pagine di un libro consacrato alla nascita e alla crescita del capitalismo industriale, non dice niente dei disordini sociali che hanno segnato l'inizio dell'industria tessile in Inghilterra nei primi decenni del 19° secolo. Ai suoi occhi, "la Rivoluzione industriale insieme al matrimonio della scienza con la tecnica costituiscono il culmine di millenni di progresso industriale". E tale acme apre una nuova era di espansione illimitata, a partire da un "progresso cumulativo della tecnica e della tecnologia, un progresso autonomo" ancora più sfrenato dal momento che tradizioni e pregiudizi vengono abbandonati [*4].

Anche Paul Mantoux, che però disserta a lungo sul luddismo e su altre forme di distruzione delle macchine, usa ripetutamente l'epiteto "desueto" per descrivere il metodo di industria a domicilio, le regole che lo disciplinavano oppure gli argomenti portati avanti dagli operai al fine di difendere il loro mestiere [*5].

Dobbiamo credere che sia difficile separarsi dall'idea che era quello ciò che doveva fatalmente avvenire. E la maggior parte degli storici non si sottraggono alla regola, benché, attraverso il loro sguardo necessariamente retrospettivo, abbiano la tendenza a valutare gli avvenimenti passati alla luce del presente, e a giustificare i verdetti emessi dalla storia. Ovviamente non si tratta qui di immaginare ciò che sarebbe avvenuto se gli operai di mestiere fossero usciti vittoriosi dalla loro lotta contro il macchinismo ed il sistema di fabbrica. Va comunque notato per inciso che per due secoli sono riusciti a contrastare un movimento che voleva imporre la dittatura della macchina [*6]. Piuttosto, si tratta di comprendere le implicazioni di questo conflitto principale che segna la nascita del capitalismo industriale - un dramma che, considerando la storia, appare come il crimine fondante la nostra civiltà.

 

Alcuni dettagli in merito alla portata della resistenza alle macchine

Elencare tutti i casi di distruzione di macchine che hanno punteggiato la formazione del capitalismo industriale fra il 17° secolo e la fine del 19°, occuperebbe troppo spazio. Per sintetizzare, possiamo constatare che hanno interessato tutti i paesi: la Gran Bretagna e la Francia, naturalmente, ma anche la Germania, la Spagna, la Svizzera, gli Stati Uniti, il Belgio, l'Austria, la Romania, la Russia, la Turchia, la Cina, ecc.. Che hanno interessato la maggior parte dei settori dell'attività industriale: soprattutto il tessile, così come le segherie, la fabbricazione di cappelli, la stampa, l'agricoltura, l'industria del tabacco, i trasporti... Che queste distruzioni non erano le azioni di minoranze attive: mobilitavano in maniera massiccia i lavoratori coinvolti e assai spesso venivano compiute apertamente. Che avevano sempre il beneficio della comprensione, se non del sostegno, della popolazione - ivi compresi la piccola borghesia, il clero, l'aristocrazia locale - che percepiva le macchine come una minaccia per un ordine sociale e morale stabilito che allora sembrava essere adeguato ad ognuno, ad eccezione degli industriali. Queste distruzioni ogni volta esprimevano, riguardo la questione tecnica, un conflitto irriducibile fra, da una parte, l'organizzazione tradizionale della produzione di beni materiali e, dall'altra parte, il sistema di fabbrica e, oltre a questo il conflitto fra due modi di vita radicalmente opposti - uno basato sulla rete di solidarietà in seno alle comunità, l'altro che destrutturava sul piano culturale e psichico gli individui e le famiglie. E queste distruzioni, in generale, vengono represse dallo Stato in maniera più o meno violenta [*7].

Rispetto a questa tendenza generale, il movimento dei Luddisti si differenzia per: il riferimento alla figura mitica del "generale Ned Ludd"; la sua unità di luogo (3 regioni tessili della campagna inglese: i tessitori su telaio del Nottinghamshire, i tosatori dello Yorkshire e i tessitori del Lancashire); la sua durata (un'agitazione intensa da marzo 1811 a gennaio 1813, con una replica a giugno del 1816); l'efficacia della sua misteriosa organizzazione (a causa della passione che avevano per il segreto, gli storici continuano a non arrivare a capire come i Luddisti potessero mobilitarsi così rapidamente e massicciamente per portare a termine una spedizione di distruzione); l'importanza di danni occasionali, disturbi all'ordine pubblico e, di conseguenza, l'ampiezza dei mezzi giuridici e militari messi in atto per reprimerli (la votazione, il 5 marzo 1812, di una legge che rendeva passibile di pena di morte la distruzione delle macchine, la sua applicazione effettiva e l'invio, nelle "contee luddiste", di 12mila soldati, vale a dire più dei soldati che contavano i corpi d'armata inviati a combattere sul continente l'esercito di Napoleone); l'evoluzione delle rivendicazioni (dalla difesa del mestiere fatta nel nome della tradizione dei diritti accordati nel corso dei secoli passati [*8] alla radicalizzazione politica), ecc..

 

Pareri contrastanti sulla lucidità dei Luddisti

A grandi linee, gli autori delle opere citate concordano sulla presentazione dei fatti e sulla loro interpretazione. Esprimono in maniera più o meno sentita una comprensione empatica per i distruttori di macchine, sempre sforzandosi di essere il più rigorosi possibile. Contrariamente agli storici che li hanno preceduti, pongono al centro delle loro riflessioni la questione tecnica. Allo stesso tempo, i riferimenti al presente permettono loro di introdurre la dimensione ecologica. La maggioranza di loro rompe radicalmente con il mondo industriale. Soltanto Chevassus-au-Louis pone il problema della tecnologia nei limiti del sistema, sul terreno della democrazia rappresentativa: vorrebbe che le decisioni in materia di tecnologia divenissero oggetto di discussioni pubbliche anziché essere imposte sfidando l'opinione pubblica. La sua proposta denota un'incomprensione non solo del modo di funzionamento della "società tecnologica avanzata", ma anche del senso profondo del luddismo: vale a dire, una lotta decisiva la cui sfida immediata consiste nel padroneggiare la tecnica - la sua concezione e le modalità del suo utilizzo. Su questo punto, Kirkpatrick Sale non coltiva alcuna illusione: il parallelo che effettua fra la prima rivoluzione industriale e la "seconda" che viviamo oggi [*9], mostra come, nella sua dinamica di "distruzione creatrice", il capitalismo non cambia: arriva sempre ad imporre l'ordine tecnologico richiesto dalla sua riproduzione allargata.

Gli storici che, nel passato [*10], si erano soffermati su quest'episodio della Rivoluzione industriale, avevano voluto riabilitare i Luddisti senza però rinunciare alla loro visione progressista della storia; eludevano la dimensione tecnica tuttavia centrale, per porre l'accento sugli aspetti sociali e culturali. Tuttavia, i loro lavori hanno avuto il merito di mostrare quello che gli storici liberali nascondevano sotto delle fredde statistiche: la crudeltà della sorte inflitta alle vittime dell'industrializzazione. Dal momento che la Rivoluzione industriale fu drammatica in quanto distrusse, nello spazio di una generazione, dei modi di vita tradizionali, precipitando nella miseria e nell'inferno della fabbrica centinaia di migliaia di individui. Quegli storici ricordavano la violenza spietata con cui gli industriali avevano imposto il sistema di fabbrica a dei bambini, a delle donne e a degli uomini asserviti per mezzo dell'espropriazione e della minaccia della fame. Dopo aver dipinto un quadro spaventoso del nuovo ordine produttivo al quale il capitalismo, nascendo, ha dato luce, Mantoux scrive: "Per mezzo di questa miscela di depravazione e sofferenza, di barbarie ed abiezione, la fabbrica offriva ad una coscienza puritana l'immagine perfetta dell'inferno [*11]".

Peraltro, Mantoux non è magnanimo verso i luddisti. Rimprovera loro la mancanza di intelligenza, di lungimiranza, la logica miope. Con il loro essere "ostacolo al progresso, avrebbero agito "contro l'interesse generale [*12].

L'approccio di Thompson si situa all'opposto: vuole mostrare come la classe operaia non sia affatto nata "attraverso un processo di generazione spontanea", ma essa ha partecipato alla sua propria formazione nel corso dei conflitti che hanno portato i lavoratori "ad agire, a pensare e a sentire [...] come una classe [*13]". In questo processo storico il luddismo è stato un momento decisivo. Fracassando delle macchine a colpi di mazza, i Luddisti non praticavano alcun atto sconsiderato, cieco, primitivo. Thompson elogia il senso di organizzazione di questi uomini esperti nella pratica della clandestinità, il loro senso dell'umorismo e la loro intelligenza, la loro padronanza di pensiero ed espressione, la loro istruzione, e gli riconosce una notevole perspicacia [*14].

Un simile approccio ha urtato i pregiudizi dei rappresentanti delle due scuole storiche: i conservatori ed i marxisti ortodossi. Li si potrebbe credere come opposti in maniera irriducibile. Ma ad una verifica risulta che, in realtà, praticano tutti il culto del Progresso, di conseguenza condannano i distruttori di macchine,  e sostenendo logicamente la medesima "teoria progressista dei benefici del collasso della tradizione", Marx ed i marxisti la fanno diventare legge della dialettica. Nonostante le loro divergenze ideologiche, autori liberale e pensatori cosiddetti rivoluzionari partecipano della stessa concezione dell'evoluzione delle società umane, una visione della storia della quale Turgot aveva delineato la trama generale nel suo "Tableau philosophique des progrès successifs de l’esprit humain" (1750), e che in sintesi condensa l'immaginario della modernità.

 

Marx, apologeta anti-luddista del capitalismo

Per Marx - e molti altri autori -, la sostituzione dell'utensile per mezzo della macchina nel sistema di fabbrica significa l'inversione del rapporto fra operaio e strumento di lavoro: "Nella manifattura e nell’artigianato l’operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l’operaio che serve la macchina. Là dall’operaio parte il movimento del mezzo di lavoro, il cui movimento qui egli deve seguire" [*15]. Da sé solo, quest'inversione spiega il "carattere alienato delle condizioni di lavoro" in fabbrica: separazione del lavoratore dal suo strumento di lavoro, espropriazione delle sue conoscenze e competenze, spossessamento di sé e del prodotto del suo lavoro, cristallizzazione della scienza nella macchina, completa sottomissione del lavoratore al mezzo di lavoro, ecc.. L'alienazione dei proletari è il risultato cercato di un processo storico che, agli occhi di Marx, segna la vera e propria nascita del "modo di produzione specificamente capitalista": il passaggio dalla "subordinazione formale" alla "subordinazione reale del lavoro al capitale" grazie alla quale il capitalista assume il controllo effettivo del processo lavorativo ed impone agli operai altre modalità di estorsione del plusvalore. Lo ottiene rivoluzionando completamente i mezzi ed il processo del lavoro, unendo la meccanizzazione e l'applicazione della scienza e della tecnica nella produzione immediata su larga scala [*16]. Da quel momento, il lavoratore subisce la legge delle macchine.

Marx comprende che la violenza degli industriali ha provocato la rivolta degli operai "contro questa forma particolare dello strumento in cui vede l'incarnazione tecnica del capital". Ma nondimeno egli disapprova la distruzione delle macchine; questo tradirebbe, secondo lui, la mancanza di discernimento degli operai se non la loro immaturità: "Ci vuole tempo ed esperienza prima che gli operai, avendo imparato a distinguere fra la macchina ed il suo uso capitalista, dirigano i loro attacchi non contro il mezzo materiale di produzione, ma contro il suo modo sociale di sfruttamento" [*17]. I lavoratori dovrebbero quindi sottomettersi ad un apparecchio tecnico di produzione che, tuttavia, li "prosciuga nel corpo e nello spirito" e li annulla moralmente. Nello spirito di Marx, quest'accettazione necessaria deriva da due convinzioni:

- non va confusa la macchina ed il suo uso capitalista: la macchina è neutra, essa è "innocente della miseria che provoca; non è colpa sua se, nel nostro ambiente sociale, separa l'operaio dal suo nutrimento". Il capitalismo ne fa uno strumento di dominio e di sfruttamento, il comunismo ne farà uno strumento di emancipazione [*18].

- il modo di produzione capitalista è soggetto a delle contraddizioni interne che si sforza di superare al prezzo di una perpetua fuga in avanti. In tale movimento, esso crea le condizioni materiali del suo stesso superamento e della sua sostituzione con un modo "superiore" di produzione che ignorerà l'antagonismo di classe.

La promessa di questo provvidenziale rovesciamento dialettico si trova nella teoria marxiana della storia per cui la società capitalista è solo una tappa necessaria nello "sviluppo naturale" della formazione economica della società, la fase attraverso la quale gli uomini devono obbligatoriamente passare affinché siano soddisfatte tutte le condizioni oggettive per la loro emancipazione collettiva ed individuale [*19]. Ciò presuppone il pieno sviluppo delle forze produttive, e soprattutto lo sviluppo della dinamica del progresso tecno-scientifico spinto dal capitalismo industriale. Quindi, tutto ciò che quest'ultimo intraprende per razionalizzare la produzione materiale preparerebbe l'avvento di una società di uomini autenticamente liberi ed uguali.

Con una simile concezione della storia passata, presente e futura, non sorprende che nel "Manifesto comunista" (1848) Marx sia diventato il vibrante apologeta del capitalismo e della classe borghese, così come nei Grundrisse quando sottolinea con enfasi "la grande influenza civilizzatrice del capitale". Questa influenza consisterebbe essenzialmente nel disprezzo sovrano che il capitale mostra verso i modi tradizionali di vita, verso la divinizzazione della natura, verso le barriere ed i pregiudizi nazionali, ecc. [*20]. Fra gli elementi costitutivo di questi modi di vita vi sono le culture prodotte in seno ai diversi corpi dell'artigianato che Marx designa in maniera peggiorativa come "idiomatismi del mestiere" [*21]. In breve, come Landes, Marx approva che il capitalismo faccia scomparire ciò che proprio i Luddisti ed altri distruttori di macchine speravano di preservare.

 

Il mito della "tecnologia liberatrice"

Non si può comprendere questa speranza nell'avvento di una società in cui gli uomini, finalmente liberi dai loro "problemi economici" (Keynes), potranno realizzarsi in una società dell'abbondanza, senza classi né Stato..., se non si fa riferimento al mito della tecnologia liberatrice - una tecnica così efficace che libererà l'uomo dall'obbligo di lavorare per soddisfare i suoi bisogni fondamentali. Questo mito è esso stesso parte integrante di tutti quegli elementi che si sono combinati per formare l'immaginario della modernità: è iscritto nella tripla eredità elleno-giudea-cristiana della cultura occidentale, sulla quale si sono innestati i programmi di Francis Bacon e di René Descartes, e l'utilitarismo borghese. La fase moderna è ben nota, la fonte greca assai meno.

Della filosofia greca, i pensatori occidentali hanno conservato la visione binaria del mondo che oppone la sfera della necessità a quella della libertà. La prima rimanda a quel che gli occidentali designano come la natura, e in particolare la dimensione animale dell'uomo; come tale, essa ingloba tutte le attività laboriose cui gli uomini sono costretti per soddisfare i loro bisogni fisiologici. La seconda sfera corrisponde alla dimensione "politica" (Aristotele) dell'uomo; e fa assai più che opporsi alla prima, la domina. Secondo questa rappresentazione, l'uomo libero è colui che non lavora, ed è il solo che può legittimamente rivendicare il suo status di cittadino. Per evitare la "pénia" - la dura necessità di lavorare - l'istituzione della schiavitù consente ai cittadini privilegiati di consacrarsi completamente alla vita della città. Secondo il loro spirito, abolire la schiavitù equivaleva a sopprimere il lavoro. Era pertanto inconcepibile. E allorché Aristotele, ne La Politica, immagina degli automi che obbediscono alla voce, non progetta in alcun modo una liberazione degli uomini per mezzo della tecnica: vuole semplicemente sottolineare l'assurdità dell'abolizionismo [*22].

In un primo momento, la dottrina giudaico-cristiana della Caduta ha confermato l'immagine negativa del lavoro, della tecnica, dell'utile, ereditata dai greci. All'alba dei tempi moderni, gli europei hanno operato un aggiornamento nell'immaginario cristiano; hanno preso atto di questa verità biblica: Dio li ha fatti a sua immagine, e loro di conseguenza vogliono dispiegare tutte le risorse della loro intelligenza per svelare i misteri del mondo e addomesticare una natura resa ostile dal peccato originale. A quel tempo, scrive Robert Lenoble, "l'uomo assume davanti alla natura l'atteggiamento di un figlio emancipato e la sicurezza di un giovane maestro" [*23]. Gli uomini hanno l'ambizione di creare, a partire dalla prima natura che Dio ha messo a loro disposizione, una seconda natura interamente plasmata da loro e per loro. E' in tale contesto che Francis Bacon e René Descartes [*24] immaginano un mondo futuro dove, grazie alle risorse combinate della scienza e della tecnica, gli uomini si saranno resi "padroni e possessori della natura". In altre parole, si tratta di realizzare quel che gli autori greci giudicavano essere una chimera. I borghesi non potevano che incoraggiare un simile programma.

Mentre coloro che avevano vissuto durante il Medioevo ai margini di un ordine feudale che li disprezzava per la stessa ragione per cui li tollerava - la loro utilità sociale - i borghesi si trovano più a loro agio in una società dove - declinando il potere dei signori e della Chiesa ed affermandosi quello dello Stato - le loro attività vengono considerate con molta benevolenza. Con l'aiuto della Riforma, riescono a far sì che i loro valori prima denigrati vengano riconosciuti: l'arricchimento individuale, il lavoro, l'efficacia, la razionalità, lo spirito calcolatore, il contribuire alla "utilità comune"... Accompagnano così un cambiamento assiologico che sostituisce all'ethos della povertà quello del lavoro e della ricchezza, e alla valorizzazione della contemplazione , quello dell'azione. In questo nuovo contesto, la scienza non è più la ricerca disinteressata della verità; è sperimentale e deve portare al di là di nuove conoscenze teoriche, verso brevetti di applicazioni [*25].

E' durante questo periodo in cui si crede sempre più nell'intelligenza degli uomini e nel loro potere creativo, che emerge l'idea di tecnologia liberatrice, prima che gli spettacolari risultati ottenuti per mezzo delle macchine durante la Rivoluzione industriale le conferiscano una relativa credibilità. Osserva Mumford: "In generale, attraverso tutto il 19° secolo, l'idea che il progresso meccanico esercitasse di per sé un'influenza liberatrice rimane indiscussa" [*26]. A parte qualche romantico "più rivolto al passato", la maggioranza dei pensatori vedeva allora ne "l'estensione della macchina a tutte le attività umane possibili [...] molti più di un mezzo pratico per abolire il fardello del lavoro o per accrescere la ricchezza": ci vedeva l'espressione del vero senso della storia - il corso inarrestabile del Progresso. Fra gli autori di rilievo, Mumford cita i nomi di Ricardo, Marx, Carlyle, Mill, Comte, Spencer... La maggior parte dei socialisti avrebbero seguito l'esempio: sembrava loro evidente che se, nel mondo capitalista, il macchinismo nutre un "esercito industriale di riserva", allora potrebbe esprimere appieno il suo potere liberatorio in una società che avrà messo fine allo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo.

Su questo punto Marx non si distingue molto se non per le sue argomentazioni. Benché abbia letto Andrew Ure [*27]; benché sappia che la funzione del macchinismo non si possa riassumere nel produrre massicciamente dei beni materiali a basso costo, ma che innanzitutto si tratta di instaurare ciò che lui stesso chiama il "dispotismo dell'impresa", cioè a dire la disciplina senza la quale lo sfruttamento ottimale della forza lavoro sarebbe impossibile; benché abbia dimostrato che un simile obiettivo esige che venga resa obsoleta la conoscenza e la competenza degli operai di mestiere di modo che i compiti produttivi, ridotti alla loro espressione più semplice, possano essere effettuati da lavoratori non qualificati, preferibilmente donne e bambini... Malgrado tutto questo, per non commettere l'errore di giudizio che egli attribuisce ai Luddisti, insiste nel separare la funzione pratica dalla funzione sociale dello strumento di lavoro. Tende a naturalizzare la prima e a sottomettere la seconda al corso della storia: ciò gli permette di riemergere la "palese contraddizione" fra, da un lato, la macchina che afferma "il trionfo dell'uomo sulle forze della natura" e, dall'altro lato, il suo uso capitalista che ne fa "lo strumento dell'asservimento dell'uomo a queste stesse forze" [*28], e prefigurare così il superamento di questa contraddizione attraverso l'appropriazione collettiva dell'apparato di produzione capitalista.

Solo tale prospettiva futura spiega perché consideri "necessario" lo sviluppo di un modo di sfruttamento "civilizzato e raffinato" che "prosciuga" i lavoratori fisicamente, moralmente ed intellettualmente [*29]. La sua convinzione è irriducibile alla ragione, per quanto dialettica. Nel 19° secolo, erano pochi coloro che rimanevano insensibili alle conquiste tecniche svolte dagli scienziati e dagli ingegneri alleati degli industriali. Marx non nasconde i suoi sentimenti nel lodare le realizzazioni della classe borghese. Non è un nostalgico disposto a sacrificare il Progresso sull'altare della tradizione, fosse anche quella dell'arte e dell'artigianato. Al contrario: è convinto che il Progresso, assicurando il dominio razionale sulla natura, ridurrà la sfera della necessità e di conseguenza allargherà la sfera della libertà, in quanto per lui come per i greci, "il regno della libertà comincia solamente a partire dal momento in cui cessa il lavoro dettato dalla necessità e per fini esterni; perciò si situa, per sua stessa natura, al di là della sfera della produzione materiale propriamente detta" [*30].

 

La preclusione di alternative tecniche al macchinismo

Per gli industriali, il fine repressivo era talmente prioritario che non esitavano ad utilizzare per anni delle macchine malfunzionanti. David Landes riconosce che le prime macchine che vengono utilizzate nell'industria tessile non erano in grado di competere in termini di efficacia pratica con i telai manuali [*31]. Questo fatto conferma un'affermazione di Dominique Foray il quale avrebbe giudicato senza dubbio "paradossali" coloro che sono convinti che le nuove tecniche vengono preferite solo a partire dalle loro prestazioni: "Non è per il fatto di essere migliore che una tecnologia viene scelta, ma è perché viene scelta che diventa migliore" [*32].

Al di là di questa constatazione, Landes non dice niente riguardo alle altre possibilità allora esistenti in materia di evoluzione tecnica, così come fanno la maggior parte degli storici i quali, fedeli alla tradizione, recitano la litania delle invenzioni e delle innovazioni che hanno costellato la strada Reale che portava alla civiltà industriale [*33]... Hanno indubbiamente giocato un ruolo decisivo: Ure se ne rende garante e noi possiamo fidarci. Tuttavia, a focalizzarsi su queste invenzioni, si finisce per ignorare una grande quantità di scoperte fatte nell'industria tessile fra il 1715 ed il 1805. I ricercatori ne hanno inventariate 166, ma più del loro numero sono le caratteristiche tecnologiche che contano: il loro esame mostra una "netta rottura" a partire dal 1790: "Prima di quella data, i due terzi delle invenzioni si riferiscono a dei metodi di diversificazione del prodotto ovvero ne migliorano la sua qualità. Le nuove macchine che corrispondono a questo tipo di innovazione non sopprimono il lavoro qualificato [...] Dopo il 1790, la proporzione si inverte: nel decennio 1790-1800, il 61% delle invenzioni si riferisce non più al prodotto ma a dei processi che permettano di intensificare la produzione. L'ingresso nell'era della produzione di massa" [*34].

Secondo il parere di questi storici, ci sarebbero quindi state in quell'epoca più vie di sviluppo tecnologico possibili delle quali nessuna prevaleva "chiaramente sul piano della redditività economica" [*35]. Quel che tali studi accademici oggi stabiliscono - ossia che la scelta del macchinismo rispondeva innanzitutto ad un obiettivo disciplinare - era stato percepito chiaramente, due secoli fa, dai Luddisti e dagli altri distruttori di machine a partire dalla loro esperienza e dal loro senso pratico; ed hanno manifestato la loro lungimiranza tecnologica distruggendo metodicamente le macchine che minacciavano la loro vita, e risparmiando quegli strumenti che evitavano loro un duro lavoro e grazie ai quali esprimevano le loro competenze [*36]. La loro sconfitta storica costituisce un evento importante di cui l'umanità continua a subire le conseguenze: segnando simbolicamente la separazione definitiva dei lavoratori dal loro strumento di lavoro, significa non solo la condanna di tutto un modo di vita e di un altro possibile corso della tecnica, ma anche la perdita irreversibile di un'inestimabile patrimonio di conoscenze e di competenze[*37].

In seguito, le tecniche si orienteranno verso uno sviluppo non autonomo, ma sottomesso alle esigenze dell'accumulazione del capitale e della sua riproduzione allargata. E questo movimento ha rafforzato il processo di cui Uri aveva sottolineato l'importanza: la cretinizzazione della forza lavoro. Non c'è bisogno di riferirsi al taylorismo, ma per illustrare questo processo basta ricordare le parole di un medico del lavoro delle fabbriche della Ford di Detroit: "Dei cretini, ecco quello di cui abbiamo bisogno. [...] L'operaio da sogno, è lo scimpanzé" [*38]. Sostituendo agli operai specializzati delle macchine a comando digitale ed altri robot, l'automazione porta questo processo alla sua logica conclusione, dimostrando per assurdo il carattere fondamentalmente "necrofilo" del capitalismo. [*39]

 

L'integrazione della classe operaia e il "torpore della critica"

La concezione marxiana del ruolo della tecnica nel cambiamento sociale ovviamente è stata ripresa dalla maggior parte se non da tutti gli autori marxisti. In particolare appare in Radovan Richta sotto forma di incarnazione attualizzata del Dia-Mat. [*40] E' anche presente in maniera travestita negli scritti di Negri ed Hardt [*41]. Ma è senza dubbio Herbert Marcuse ad aver proposto la versione più interessante, sia per gli insegnamenti che egli trae dall'evoluzione della società industriale nel corso del 20° secolo, sia per l'impasse cui perviene la sua riflessione [*42].

Per Marx come per Marcuse, bisogna distinguere la tecnologia dalle sue applicazioni: in sé stessa, essa non è fonte di problemi, ma piuttosto un mezzo per risolverli [*43]. Marx auspicava l'appropriazione collettiva delle macchine, Marcuse, l'inversione della razionalità tecnologica ed il suo mettersi al servizio della vita. Ad un secolo di distanza, l'uno e l'altro vedono il potenziale liberatorio dell'apparato tecnico di produzione dispiegato dal capitalismo industriale; per tutto questo tempo e fino ai nostri giorni, il progresso tecnico non ha smesso di svilupparsi e la promessa di emancipazione non si è realizzata. Ciononostante Marcuse non rimette in discussione il postulato della "tecnologia liberatrice"; imputa questa delusione storica all'integrazione della classe operaia.

Se guardiamo ai fatti osservabili, è difficile credere che la tecnologia possa liberare considerato il suo effettivo uso repressivo. Per divinare il suo potenziale di emancipazione, bisogna andare oltre le apparenze e considerare l'ipotesi che "la contraddizione fa parte della realtà", che "il negativo sta nel positivo". Bisogna quindi far ricorso al "pensiero negativo", alla "coscienza storica critica" [*44]. E' la sola cosa che permette di immaginare, a partire dalla società realmente esistente, le alternative storiche possibili che la base tecnica che quest'ultima porta in sé. Ma perché un'alternativa possa realizzarsi, non basta riunire le sue condizioni oggettive. La teoria critica deve obbligatoriamente combinarsi con l'azione. La coniugazione di teoria e pratica - dell'idea e dell'azione, dei valori e dei fatti - implica l'esistenza di un classe in grado di effettuare questa sintesi, che trasformi l'una e l'altra. Senza tali "agenti di cambiamento sociale", la teoria e la pratica non possono incontrarsi, e la critica viene allora respinta "ad un livello elevato di astrazione", fra le utopie. [*45] In passato, la borghesia ed il proletariato hanno successivamente incarnato quest'unione della coscienza critica e dell'azione concreta. Ma oggi, queste due classi prima antagoniste desiderano conservare "lo status quo istituzionale", di modo che "non appaiono più come gli agenti della trasformazione storica" [*46].

Concretamente, la classe operaia è stata integrata nella società capitalista [*47]. Privandola della sua base sociale, quest'integrazione "sociale e culturale" ha reso "impotente", impercettibile ed "irrazionale", "l'opposizione radicale al sistema" [*48]. Perciò, se c'è contestazione politica, essa avviene "nei limiti delle condizioni ammesse", vale a dire nel rispetto dello status quo [*49]. L'integrazione è stata realizzata grazie alla promessa fatta ai lavoratori, di una vita confortevole al prezzo della sottomissione all'ordine tecnologico. E' questo l'obiettivo del "compromesso fordista" grazie al quale "la società industriale avanzata" è riuscita a risolvere la questione delle opportunità. Ma affinché una domanda solvibile possa assorbire una produzione di massa di merci, non basta garantire la crescita del potere d'acquisto dei salariati; bisogna, come scrive Baudrillard, che "il capitale generi l'individuo in quanto consumatore, e non più soltanto lo schiavo in quanto forza lavoro". Si deve fare del bisogno e del lavoro "le due modalità di un solo sfruttamento delle forze produttive". In breve, si devono creare dei bisogni [*50]. Per Baudrillard come per Marcuse, la creazione di bisogni non è solo una condizione economica della riproduzione del sistema - non basta produrre il plusvalore. deve anche essere realizzato - ma è anche la sua condizione ideologica: non appena gli individui condizionati trovano la loro felicità e si realizzano nel consumo di merci, saranno i bisogni costantemente rinnovati a costringerli a lavorare [*51] e ipso facto a non cercare altri modi di libertà che non siano quelli proposti dalla società stabilita. Assoggettando gli individui al mondo della merce, la manipolazione dei bisogni perpetua "l'etica laboriosa e repressiva della penuria e del guadagnarsi da vivere". E nel rendere "sopportabile la servitù" attraverso la soddisfazione dei bisogni, "l'abbondanza" [*52] è riuscita a squalificare la coscienza critica, ad "ammansirla". Per uscire da questa impasse e trovare "la sostanza concreta di ogni libertà", Marcuse pensava che si dovesse "liberarsi dal bisogno", vale a dire, dissociare i "veri" bisogni da quelli "falsi" - da quelli che perpetuano il presente ordine tecnologico. Nella sua mente, la soddisfazione dei primi e l'abbandono dei secondi doveva diminuire l'influenza della necessità e, di per sé, allargare il regno della libertà [*53]. Ma nemmeno lui credeva a questo scenario illusorio. Quarant'anni più tardi, l'inversione de "l'etica laboriosa e repressiva del guadagnarsi da vivere" non è avvenuta. Le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione da allora create e sviluppate, combinate agli effetti della "crisi", hanno al contrario aumentato la pressione della necessità ed hanno rafforzato questa morale consumista facendo sorgere dei nuovi bisogni individuali conformi agli "interessi sociali dominanti". Il movimento operaio è stato sconfitto ed il pensiero critico, non avendo trovato la sua base sociale, rimane confinato nelle alte sfere dell'astrazione. Senza opposizione, la "società tecnologica avanzata" si è chiusa su sé stessa.

 

La sottomissione degli operai all'ordine produttivo [*54]

Marcuse distingue due fasi successive nel progresso d'integrazione sociale e culturale della classe operaia: a livello della produzione, poi a quello del consumo. Per quel che concerne i processi di produzione capitalisti, verosimilmente pensa all'accettazione da parte dei lavoratori, più esattamente da parte dei loro sindacati, dei nuovi modi di organizzazione del lavoro concepiti dall'ingegnere Taylor. Tuttavia ci sono stati degli scioperi, nei primi decenni del 20° secolo, che hanno manifestato un rifiuto dell'organizzazione scientifica del lavoro. Ma i sindacati erano convinti che alla fine il cambiamento avrebbe giocato a favore degli operai [*55]. A quei tempi, bisognava avere la lucidità di Walter Benjamin per non soccombere alla religione del Progresso: "Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l'opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente con cui credeva di nuotare" [*56].

Nel sottomettersi all'ordine tecnologico che gli veniva imposto in nome di un radioso avvenire assai ipotetico, gli operai hanno lasciato che i capitalisti portassero a termine il processo di subordinazione reale del lavoro al capitale iniziato un secolo prima. La generalizzazione del taylorismo ha avuto come risultato quello di rompere ciò che André Gorz ha chiamato lo "standard di sufficienza", vale a dire la possibilità per i lavoratori qualificati di decidere fra i loro bisogni e lo sforzo che sono disposti a fare per ottenere i mezzi per soddisfarli [*57]: nel dissociare la produzione dalla soddisfazione dei bisogni, è stato rimosso l'ostacolo che impediva la crescita dell'una e dell'altra, e si è potuto dare libero corso all'arroganza del produttivismo e poi del consumismo. Da allora la natura non ha smesso di sopportarne le conseguenze.

La questione è quella di sapere perché la classe operaia che, nel momento in cui si è costituita, distruggeva le macchine, abbia finito per accettare un ordine produttivo disciplinare che l'ha completamente spossessata della cultura di mestiere e l'ha asservita all'apparato tecnico di produzione. Secondo Castoriadis, il movimento operaio nascente è stato portatore di un "progetto di emancipazione e di autonomia" che non ammetteva alcun compromesso con l'immaginario capitalista. Ma quest'ultimo non avrebbe tardato a contaminarlo nell'ambito dell'influenza di alcuni pensatori e soprattutto di Marx [*58]. Questi ed i suoi epigoni hanno effettivamente contribuito in maniera significativa all'integrazione del movimento operaio nella logica capitalista, ma non si può imputare loro tutta la responsabilità, dal momento che l'influenza di Marx e della sua opera sul movimento operaio internazionale è relativamente tardiva. Sulla questione della tecnica, non ha fatto altro che confortare un'idea che si era già fatta strada fra gli operai socialisti inglesi e francesi.

Secondo molti storici, il 1848 avrebbe segnato una rottura nell'atteggiamento degli operai nei confronti del macchinismo: tranne gli atti di sabotaggio o il ricorso alla distruzione delle macchine come mezzo di pressione sui padron, non ci sarebbero più state, passata questa data, delle distruzioni basate su considerazioni tecnologiche. Si può discutere della sua pertinenza, ma, simbolicamente, ciò è carico di significati. Nel 1848, il movimento operaio europeo ha conosciuto una duplice sconfitta: quella del cartismo inglese che, secondo Thompson, aveva prolungato sul terreno politico la stessa battaglia che era stata inizialmente combattuta dai Luddisti; e la sconfitta degli operai parigini violentemente repressi, durante le giornate insurrezionali di giugno, dalle truppe del generale Cavaignac. Questo momento corrisponde anche all'arrivo sul mercato del lavoro dei salariati di seconda generazione che non avevano vissuto le lotte dei loro fratelli maggiori contro il macchinismo: fu più facile imporre loro il dispotismo della macchina dal momento che non erano qualificati. Come scrive Landes: "una nuova generazione era cresciuta, rotta alla disciplina e alla precisione della fabbrica" [*59]. A questi elementi si aggiunge il fatto che, sotto l'influenza o meno della propaganda a favore del macchinismo degli economisti borghesi, alcuni rappresentanti del movimento operaio avevano finito per aderire alla filosofia del progresso e, allo stesso tempo, a prendere in considerazione l'appropriazione collettiva di tecniche "efficaci" [*60]. Il fatto di dover combattere una lotta contro i capitalisti, avendo rinunciato a mettere radicalmente in discussione l'ordine tecnologico, ebbe come conseguenza quella di compromettere le condizioni oggettive e soggettive di una "espropriazione degli espropriatori". Non solo l'apparato di produzione istituito senza resistenza era stato reso tecnologicamente inappropriabile da parte dei lavoratori diretti, ma questi ultimi, spossessati del controllo del processo lavorativo, avevano progressivamente abbandonato il progetto autogestionario dei fondatori del "socialismo operaio" [*61]. A questo proposito, Mumford parla di uno "sbandamento generale": solo il consumo ed i moderni giochi da circo, sfoghi spettacolari offerti dal sistema per le loro frustrazioni, consentono ai lavoratori di "compensare la loro incapacità a guidare il processo lavorativo o di modellarne la produzione" [*62].

 

"Socialismo intellettuale" versus "Socialismo operaio"

Mumford insiste su un aspetto dell'evoluzione della società industriale che fa risaltare i limiti della visione binaria che un socialista  poteva avere del capitalismo a metà del 19°secolo: la crescita di una nuova categoria delle "classi medie" che accompagna il processo di accumulazione del capitale. Il fenomeno era stato descritto da Saint-Simon e da Jean-Baptiste Say, e Marx non aveva mancato di analizzarlo ma ad uno stadio che non gli permetteva neppure di immaginare l'ampiezza che in seguito doveva assumere. Nel III libro del Capitale, egli mostra come sotto gli effetti della concentrazione e della centralizzazione del capitale, la classe capitalista si sdoppi in una componente passiva - i proprietari di capitale - ed una componente attiva - i manager. Per Marx, è evidente che, malgrado i loro conflitti d'interesse, proprietari e manager formano una sola e stessa classe. Marcuse, beneficiando del senno di poi storico, è più ponderato. Egli ritiene che questi nuovi agenti non costituiscano una categoria omogenea: secondo la loro "funzione specifica nella divisione dominante del lavoro", pone gli uni nella classe capitalista, e gli altri nella classe dei lavoratori salariati. In ogni caso, suppone che la loro apparizione non turbi l'antagonismo sociale fondamentale che oppone il lavoro ed il capitale.

Questo punto di vista è assai discutibile: durante il secolo scorso, nella sua forma occidentale privata così come nella sua versione burocratica di Stato, la storia del capitalismo testimonia che i conflitti sociali si sono spesso allontanati dallo schema classico. In tal senso, notiamo questo apparente paradosso: gli imprenditori che, nella prima fase del capitalismo industriale, avevano sviluppato il macchinismo per distruggere la cultura degli operai di mestiere, hanno, nello stesso movimento, fatto nascere in seno al sistema di fabbrica, una nuova categoria di attori (ricercatori, ingegneri, tecnici, capi, dirigenti...) che possiede anch'essa una propria cultura professionale. Tuttavia, diversamente dai Luddisti, questi non sono per niente inclini a distruggere l'apparato di produzione sul quale si basano i loro relativi privilegi [*63]. Per la loro funzione in seno alle imprese, per la loro conoscenza, il lro livello e il loro modo di vita, non potevano essere altro che integrati nella società tecnologica avanzata. E sono suscettibili di essere i portatori di un progetto sociale alternativo, che comporterebbe in qualche modo la riprogettazione della struttura tecnica dell'apparato produttivo.

Nella seconda metà del 19° secolo, alcuni di questi lavoratori intellettuali si sono appropriati del socialismo operaio in generale, e del pensiero di Marx in particolare, per farne la loro ideologia. Il primo ad aver intravvisto tale processo è stato indubbiamente Bakunin. Più tardi, George Orwell lo ha concettualizzato opponendo radicalmente il socialismo operaio ed il socialismo intellettuale. Fra i due, un autore polacco troppo poco noto, Jan Waclav Makhaïski (1866-1926), ha dedicato a tale processo la maggior parte dei suoi scritti [*64]. Questi "lavoratori intellettuali" - "mercenari privilegiati" del Capitale e dello Stato, secondo  Makhaïski - non si appropriano semplicemente dell'ideale socialista, ma anche snaturano e pervertono il socialismo operaio. In quanto per la verità, non c'è più niente che nel socialismo degli intellettuali ricordi il progetto di emancipazione degli operai assetati di giustizia sociale.

Il socialismo operaio procedeva "da attitudini etiche prodotte dalla condizione operaia", nella fattispecie, dall'odio per il potere e per i privilegi, dal culto della solidarietà e della generosità, e da un profondo desiderio di libertà e di uguaglianza. Esprimeva delle esigenze morali radicali fondate sull'esperienza vissuta del "dispotismo dell'impresa". Il socialismo degli intellettuali si basa su delle "rigorose costruzioni intellettuali", su delle fredde teorie elaborate indipendentemente dagli "imperativi della morale". Quest'amoralismo giustificato in nome della "necessità storica" e dei requisiti della ricerca scientifica, riflette, secondo Orwell, alcuni dei tratti più importanti della mentalità degli intellettuali e dei membri della classe media: "l'indifferenza nei confronti dell'esperienza vissuta", l'esaltazione della ragione tecno-scientifica e la fascinazione per quel potere del quale i capitalisti li privano. Dal loro punto di vista, "l'azione giusta consiste nello spingere la storia in quella che è la sua direzione", quella del necessario Progresso; mentre presuppone, per i proletari, l'obbedienza ad un "codice morale" [*65].

Il socialismo operaio è stato definitivamente soppiantato dal socialismo degli intellettuali, uno pseudo-socialismo che non nasconde la propria ambizione a gestire efficacemente il capitalismo. E sono pochi coloro che vegliano affinché il fuoco della critica sociale non si estingua, affinché non cada nell'oblio la speranza di un mondo in cui l'uomo viva in armonia con la natura, con i suoi simili e con sé stesso. Ma, come hanno osservato Herbert Marcuse, Paul Mattick ed altri, "si cercherebbe invano una forza sociale veramente decisa ad attuare questo progetto" [*66]. Mattick ne parla come di una "chimera", Marcuse lo riduce ad un'utopia astratta...

 

Verso una riabilitazione delle comunità tradizionali

Il movimento dei Luddisti invita a considerare retrospettivamente un'altra forza sociale che le concezioni progressiste della storia ignorano deliberatamente: le comunità tradizionali. Finora, gli storici hanno avuto la tendenza a trascurare questa dimensione della resistenza all'industrializzazione. I nuovi studi, al contrario, tendono a sottolinearne l'importanza [*67]. E' vero che oggi il contrasto fra la solidarietà fra queste comunità operaie ed il ripiegamento individuale nella sfera privata, che caratterizza il mondo contemporaneo - quello che Hannah Arendt definiva non isolamento, ma desolazione -, appare sempre più stridente. Gli autori in questione non sia abbandonano alla nostalgia di un età d'oro ormai passata, non più di quanto incensino delle forme di organizzazione sociale che la Rivoluzione industriale doveva spazzare via [*68]. Viene messa in discussione la realtà stessa di queste comunità: esistevano in quanto autentiche formazioni sociali autonome? Si ha la sensazione che sia stata la lotta contro il macchinismo ad aver dato loro una consistenza reale.

In origine, la loro esistenza appare confuse, in quanto mescola una relativa autonomia a dei rapporti di tipo paternalista. Nella prima fase del luddismo, la lotta veniva condotta nel nome della tradizione: i Luddisti speravano di poter condurre alla ragione i governanti ed i membri del Parlamento, al fine di salvaguardare l'ordine stabilito ed il loro proprio stile di vira. Nella seconda fase, dopo aver incontrato l'opposizione del potere, si sono radicalizzati su piano politico: le comunità si sono affrancate dai rapporti paternalistici ed hanno affermato la loro autonomia. Allora hanno costituito "una forza dinamica di coesione sociale e di resistenza al cambiamento". In definitiva, concludono Bourdeau, Jarrige e Vincent, i Luddisti sono stati dei "radicali reazionari che lottavano per preservare un modo che stava scomparendo" [*69].

Nella visione marxiana dell'evoluzione delle società, il capitalismo ha una missione: creare le condizioni materiali e soggettive del suo stesso superamento. Per accelerare il corso della storia e far precipitare in tal modo l'arrivo di questo importante momento critico, si deve lasciare campo libero alla dinamica di accumulazione del capitale e, di conseguenza, spezzare le catene della tradizione. E' questa "la grande influenza civilizzatrice del capitale": non solo sviluppare pienamente le forze produttive, ma anche intraprendere e portare a termine la "salubre" opera di eradicazione dei valori del passato "precapitalista", fare, come ha scritto Albert Meister, "il duro lavoro di distruzione delle strutture sociali tradizionali e partorire dolorosamente gli uomini psicologicamente liberi e socialmente disponibili per la costruzione di una nuova società" [*70].

In conformità con questa concezione, Marx ha difeso la colonizzazione dell'India, dell'Algeria, l'annessione del Texas, della California, ecc.. Tuttavia, alla fine della sua vita, a proposito della questione russa, è tornato su questa visione unilineare della storia che fa passare tutte le società per le medesime tappe successive. Nella sua risposta ad una lettera di Vera Zalusic, prende in considerazione una strada di accesso diretto al socialismo che permetterebbe alla Russia di risparmiarsi una lunga transizione capitalista; perciò, suggerisce di fare affidamento sulla comunità rurale tradizionale (mir ed obscina), "elemento rigeneratore della società russa ed elemento di superiorità sui paesi asserviti al regime capitalista" [*71]. I socialdemocratici russi, menscevichi e bolscevichi, hanno voluto fare diversamente. E da allora in poi, in tutte le tendenze del marxismo rivoluzionario, questa opinione è stata scartata. Lo schema della tabula rasa si è imposto come un'ovvietà... fino a quando il percorso seguito dal mondo industriale e dal movimento operaio non ha incoraggiato qualche teorico della critica sociale a riesaminare la cosa. Questi teorici hanno dovuto alla fine riconoscere che, disfacendosi di tutto il "vecchiume", il capitalismo non libera affatto "la vita degli individui dai legami arcaici e soffocanti", ma piuttosto porta a termine la sua opera distruttrice sopprimendo tutti gli ostacoli che si frappongono all'espansione planetaria del regno della merce ed alla sua estensione alla totalità della vita individuale e sociale. Hanno dovuto anche constatare che gli "individui psicologicamente liberi" che vengono partoriti di fatto sono "socialmente disponibili" solo a garantire la perpetuazione della società della merce. Ed hanno finito per concludere che "il passato, imperfetto e talvolta perfino esecrabile, rappresenta [...] un male minore e merita di essere difeso" [*72]. Inoltre, le comunità tradizionali hanno il ragguardevole merito di gestire direttamente il loro ambiente naturale di vita e le loro tecniche.

Al di là delle loro divergenze, alcuni di questi autori (Mumford, Semprun, Graeber, Lapierre, Jappe...) [*73] non feticizzano né cristallizzano la tradizione. Considerano le comunità tradizionali come delle forme di vita sociale autonome "in germe" [*74] e non compiute né finite: esse devono evolvere al fine di permettere "la più grande pienezza di sviluppo dell'uomo" [*75]. Tuttavia, se questo scenario rimane concepibile per i popoli che resistono effettivamente all'espansione del capitalismo e dell'occidentalizzazione, si può invece dubitare della sua pertinenza riguardo alle popolazioni della nazioni industrializzate da numerose generazioni. Difficilmente si può vedere nel poco che rimane delle forme di vita tradizionale in seno a tali società, il lievito di una forza sociale destinata a rovesciare il corso della storia mondiale. E quelli che oggi si oppongono alle tecniche high-tech, più che provvedere all'apparato di produzione [*76], pensano più a lottare conto la colonizzazione del "mondo della vita" (Habermas) attuata per mezzo dell'ordine tecnologico - gli OGM, la telefonia mobile, i chip RFID ed altre procedure biometriche, le nanotecnologie.

La forza d'inerzia del sistema è tale che alcuni basano, più o meno apertamente, la speranza su una grave catastrofe che si trova inscritta nell'evoluzione della civiltà industriale come una fatalità programmata. Ma se questo deve avvenire, non c'è niente che possa garantire che questa catastrofe possa provocare negli individui un risveglio delle coscienze ed il desiderio di farsi collettivamente carico delle proprie condizioni di vita. Piuttosto, ci sono tutte le ragioni per temere l'accettazione da parte loro di nuovo forme di asservimento imposte nel nome della necessaria "amministrazione del disastro" [*77]. Verrebbe instaurata in forma più dura quella "benevola tirannia" suggerita da Hans Jonas per regolare le tensioni socio-ecologiche causate dalla civiltà industriale: il "governo quasi segreto di un'élite" sufficientemente chiaroveggente per "assumersi [da sola] eticamente ed intellettualmente la responsabilità dell'avvenire" facendo uso di "pietose bugie" se "la verità è difficile da sopportare" [*78].In breve, un totalitarismo ecologico.

Pubblicato su "Ecologie & politique" n°37 2008/3 -
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Note:
[*1] - G. Anders, « Briseur de machines ? », Tumultes, n° 28-29, 2007, p. 364.
[*2] - In ordine di pubblicazione: Les Amis de Ludd, Bulletin d’information anti-industriel, Petite Capitale, Paris, 2005 ; N. Chevassus-au-Louis, Les briseurs de machines. De Ned Ludd à José Bové, Seuil, Paris, 2006 ; V. Bourdeau, F. Jarrige, J. Vincent, Les Luddites. Bris de machines, économie politique et histoire, Ere, Maisons-Alfort, 2006 ; et K. Sale, La révolte luddite. Briseurs de machines à l’ère de l’industrialisation, L’Échappée, Paris, 2006.
[*3] - J.-P. Rioux, La Révolution industrielle, 1780-1880, Seuil, Paris, 1971, p. 182.
[*4] - D. S. Landes, L’Europe technicienne ou le Prométhée libéré. Révolution technique et libre essor industriel en Europe Occidentale de 1750 à nos jours, Gallimard, Paris, 1975, p. 753. Utilizza il termine "luddismo" una sola volta ed in maniera metaforica (p.403). Senza dubbio, per scrupolo e per il lettore non esperto, il traduttore si dà pena di definire il termine facendo riferimento a "un certo Ned Ludd che aveva distrutto due telai meccanici nel 1779".
[*5] - P. Mantoux, La Révolution industrielle au XVIIIe siècle. Essai sur les commencements de la grande industrie moderne en Angleterre, Éditions Genin, Paris, 1973 [1927], p. 268, 274 et 424.
[*6] - Secondo Lewis Mumford, i propagandisti del macchinismo hanno cominciato ad operare dal 17° secolo al fine di convincere i potenti, sia riguardo alle nuove tecniche, sia riguardo ad una visione meccanica del mondo (vedi: Technique et civilisation, Seuil, Paris, 1950 [1934], p. 313 sq). La resistenza degli operai di mestiere a queste pressioni si traduce nella promulgazione di editti che assicurano la salvaguardia delle loro qualifiche, soprattutto in Inghilterra (vedi anche:  P. Mantoux, op. cit. p. 270-271, 424, 428 ; K. Sale, op. cit., p. 35-36 ; E. P. Thompson, La formation de la classe ouvrière anglaise, Gallimard & Seuil, Paris, 1988 [1963], p. 475, 477, 481-482.)
[*7] - Il fatto che lo Stato ricorresse alla violenza per ristabilire l'ordine costituito non era allora una novità. Tuttavia, d'ora in poi, si sforzerà di contenere ogni dinamica suscettibile di sovvertimenti delle strutture sociali esistenti. Successivamente al contrario rimuove tutti gli ostacoli che la "tradizione" oppone all'ascesa del capitalismo industriale. C'è stata la legge Le Chapelier in Francia (1791), ed i Inghilterra i Combinations Acts (1799-1800) de William Pitt che proibivano le coalizioni, poi l'abrogazione, ne 1809, della normativa che proteggeva gli operai di mestiere. Vedi soprattutto: V. Bourdeau et al., op. cit., p. 9, 24, 31, ainsi que K. Polanyi, La grande transformation. Aux origines politiques et économiques de notre temps, Gallimard, Paris, 1983 [1944].
[*8] - Ordinanza di Edoardo VI, Statuto elisabettiano degli artigiani, Carta di Carlo II...
[*9] - Nel suo parallelismo, Sale paragona le due rivoluzioni industriali su sei punti: la tecnologia imposta, la distruzione del passato, la fabbricazione di bisogni, il supplizio del lavoro, lo Stato servile e la conquista della natura (K. Sale, op. cit., p. 47-86 et 249-286).
[*10] - J. L. Hammond, B. Hammond (1911-1919), Eric J. Hobsbawm (1952) et Edward P. Thompson (1963)
[*11] - P. Mantoux, op. cit., p. 438.
[*12] - Ivi, p.420
[*13] - E. P. Thompson, op. cit., p. 769.
[*14] - Ivi, p. 490-491- Dopo (p.497) scrive: "A dispetto di tutte le omelie rivolte ai luddisti (allora e in seguito) a proposito delle conseguenze benefiche che avrebbero avuto le nuove macchine o la 'libera impresa' - i luddisti erano abbastanza intelligenti per poter giudicare da soli il valore di questi argomento -, furono i distruttori di macchine, e non i predicatori, a valutarne gli effetti a breve termine in maniera più realistica".
[*15] K. Marx, Le Capital, Livre I, in Œuvres. Économie, t. 1, Gallimard, Paris, 1965 [1867], p. 955.
[*16] - Grundrisse ou Principes d’une critique de l’économie politique [1857-1858], et les Matériaux pour l’« Économie » [1861-1865], in Œuvres. Économie, t. 2, Gallimard, Paris, 1968, respectivement p. 282-311 et p. 365-382.
[*17] - K. Marx, le Capital, op. cit., p. 961-962, 963.
[*18] - Ibid., p. 971 et 937. Nell'Ideologia Tedesca scriveva: "Non si può abolire la schiavitù senza la macchina a vapore e la 'mule jenny', né abolire il servaggio senza migliorare l'agricoltura".
[*19] - Vedi la famosa prefazione (1859) alla Critica dell'Economia Politica e la prefazione alla prima edizione del Capitale.
[*20] - « E' distruttivo verso tutto questo, è in rivoluzione permanente, rompe tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l'ampliamento dei bisogni, la diversificazione della produzione e dello sfruttamento, ed il commercio fra le forze della natura e lo spirito » (K. Marx, Grundrisse, op. cit., p. 260).
[*21] - Per un'impostazione prospettiva critica della denuncia del "idiomatismo del mestiere" in Marx, vedi J. Rancière, Le philosophe et ses pauvres, Fayard, Paris, 1983, p. 89-184.
[*22] - Aristote, La Politique, Gonthier, Paris, 1983, p. 20.
[*23] - R. Lenoble, Esquisse d’une histoire de l’idée de nature, Albin Michel, Paris, 1969, p. 334.
[*24] - R. Descartes, Le discours de la méthode, UGE, Paris, 1951 [1637]. Dans La Nouvelle Atlantide (Garnier-Flammarion, Paris, 1995 [1627], p. 119), Francis Bacon scriveva :si tratta « di conoscere le cause ed i movimenti segreti delle cose; e di estendere l'Impero umano in vista di realizzare ogni cosa possibile ».
[*25] - Così come lo aveva specificato Colbert nello statuto della Accademia Reale delle Scienze. Vedi B. Gille, Histoire des techniques, Gallimard, Paris, 1978, p. 24-25, 82, 87, 684.
[*26] - L. Mumford, Le mythe de la machine, t. 2 : Le pentagone de la puissance, Fayard, Paris, 1974 [1967], p. 320, 210.
[*27] - Dans La philosophie des manufactures (1835), Andrew Ure scriveva brutalmente : « Per una menomazione della natura umana, avviene che più l'operaio è qualificato, più tende a diventare ostinato ed intrattabile; e, naturalmente, meno adatto ad integrarsi ad un sistema meccanico, dove i suoi difetti occasionali possono essere estremamente dannosi pe tutto l'insieme. Il grande obiettivo della manifattura moderna deve quindi essere quello di ridurre, per mezzo dell'associazione fra capitale e scienza, il compito degli operai all'esercizio della vigilanza e della destrezza. [...] Come imporre ai lavoratori la disciplina necessaria? Come farli rinunciare alle loro abitudini irregolari nel lavoro ed imporgli la regolarità invariabile del grande dispositivo automatico? Inventare e mettere in atto con successo un codice di disciplina manifatturiera che convenga ai bisogni e alla velocità del sistema automatico, ecco un'impresa degna di Ercole, ecco la nobile opera di Arkwright! [...] Nelle fabbriche, c'è bisogno d'ordine, ed Arkwright ha creato l'ordine. [...] Quando il capitale arruola la scienza al suo servizio, la mano refrattaria dell'operaio finisce sempre per imparare la docilità » (cité par P. Thuillier, La grande implosion. Rapport sur l’effondrement de l’Occident 1999-2002, Fayard, Paris, 1995, p. 343-344).
[*28] - K. Marx, Le Capital, op. cit., p. 971.
[*29] - Ibid., p. 906-908.
[*30] - Conclusion du Livre III du Capital, in Œuvres. Économie, t. 2, op. cit., p. 1487-1488.
[*31] - D. Landes, L’Europe technicienne, op. cit., p. 123-124, 132, 139… Voir également le commentaire de Hobsbawm cité par N. Chevassus-au-Louis, Les briseurs de machines, op. cit., p. 205 ; E. P. Thompson, op. cit., p. 254 ; P. Mantoux, op. cit., p. 273…
[*32] - Dominique Foray cité par S. Latouche, La Mégamachine. Raison technoscientifique, raison économique et mythe du progrès, La Découverte, Paris, 1995, p. 68. Evidentemente, la tecnica non è unidimensionale: è un fatto sociale totale, come la Rivoluzione industriale che sarebbe stata inconcepibile senza la riunione storica delle condizioni tecniche, economiche, sociali, politiche e culturali appropriate.
[*33] - 1705 : machine à vapeur de Newcomen ; 1733 : navette volante de John Kay ; 1765 : machine à filer spinning jenny de Hargreaves ; 1768 : water frame de Richard Arkwright ; 1779 : mule jenny de Samuel Crompton ; 1781-1786 : machine à vapeur de James Watt ; 1784 : métier à tisser mécanique de Cartwright. Voir par exemple J.-P. Rioux, La Révolution industrielle, op. cit., p. 62-64.
[*34] - Voir la présentation de ces travaux par N. Chevassus-au-Louis, op. cit., p. 199-203.
[*35] - Ibid.
[*36] - Ibid., p. 128-132, 192… Également, E. P. Thompson, op. cit., p. 480, 483, 500.
[*37] - Vedi il veemente discorso di Mumford contro gli "anti-luddisti delle macchine, i demolitori sistematici dell'artigianato". in Le mythe de la machine, t. 2, op. cit., p. 204-205.
[*38] - Discorso tenuto negli anni 1920, riferito da Céline, citato da A. Ehrenberg, Le culte de la performance, Hachette, Paris, 1996, p. 225.
[*39] - Concetto della psicoanalisi utilizzato da Erich Fromm per dar conto della propensione del capitalismo a rimpiazzare il lavoro vivente con il lavoro morto (La passion de détruire. Anatomie de la destructivité humaine, Robert Laffont, Paris, 1975, p. 353 sq.).
[*40] - R. Richta, La civilisation au carrefour, Seuil, Paris, 1974.
[*41] - M. Hardt et A. Negri, Empire, Exils Éditeur, Paris, 2000, et Multitude. Guerre et démocratie à l’âge de l’Empire, La Découverte, Paris, 2004.
[*42] - H. Marcuse, Quelques conséquences sociales de la technologie moderne, Homnisphères, Paris, 2008 [1941] ; Le problème du changement social dans la société technologique, Homnisphères, Paris, 2007 [1961] ; L’homme unidimensionnel. Essai sur l’idéologie de la société industrielle avancée, Éditions de Minuit, Paris, 1968 [1964].
[*43] - Marcuse non provava alcuna simpatia per le critiche alla tecnica ed alla civiltà industriale. Ne L'uomo a una dimensione, ricorda che la tecnologia esistente è una condizione essenziale per l'abolizione del capitalismo. Questo deve liberare la tecnologia, "sviluppare le forze produttive su larga scala", op. cit., p. 278. Également, p. 29, 49, 255, 256. Per i "neo-luddisti" di oggi, «il problema è la tecnologia » e non solo le sue applicazioni, vedi Pièces et Main d’œuvre, La tyrannie technologique. Critique de la société numérique, L’Échappée, Paris, 2007.
[*44] - H. Marcuse, L’homme unidimensionnel, op. cit., p. 169.
[*45] - H. Marcuse, Le problème du changement social…, op. cit., p. 34.
[*46] - Ibid., p. 33.
[*47] - H. Marcuse, L’homme unidimensionnel, op. cit., p. 55. Idea ricoorente in Marcuse, vedi: Quelques conséquences…, op. cit., p. 112-114 ; Le problème du changement social…, op. cit., p. 30-31, 38-39…
[*48] - H. Marcuse, Quelques conséquences…, op. cit., p. 111, 104-105.
[*49] - H. Marcuse, Le problème du changement social…, op. cit., p. 31.
[*50] - J. Baudrillard, Pour une critique de l’économie politique du signe, Gallimard, Paris, 1972, p. 87-91.
[*51] - Nella società capitalista, essendo reificati i bisogni, sarebbe più giusto dire che è il senso di mancanza che viene sempre mantenuto e rinnovato.
[*52] - QUel che Baudrillard più giustamente definisce « penuria di lusso e spettacolare », in La société de consommation, Gallimard, Paris, 1978 [1970], p. 92.
[*53] - H. Marcuse, Le problème du changement social…, op. cit., p. 58. Vedi anche p. 64, 65, et L’homme unidimensionnel, op. cit., p. 30 sq., 50, 99…
[*54] - Allo stesso titolo dell'ordine tecnologico, l'ordine produttivo è un ordine disciplinare. SU questo concetto, vedi J.-P. de Gaudemar, La mobilisation générale, Éditions Champ Urbain, Paris, 1979, p. 186 sq.
[*55] - Risoluzione della Fédération syndicale des métaux adottata nel 1927 : « I rivoluzionari sanno che la classe operaia sarà il successore del capitalismo e che questa organizzazione scientifica permetterà di andare molto più velocemente, quando ci sarà la presa del potere da parte del proletariato, nell'edificazione socialista» (citato da ibid., p. 212). E' in virtù di questo stesso postulato che lo Stato bolscevico ha sviluppato il taylorismo in Unione Sovietica. Vedi R. Linhart, Lénine, les paysans, Taylor, Seuil, Paris, 1976.
[*56] - W. Benjamin, « Sur le concept d’histoire », Œuvres III, Gallimard, Paris, 2000 [1940], p. 435-436.
[*57] - A. Gorz, « L’écologie politique entre expertocratie et autolimitation », Actuel Marx, n° 12,1992, p. 15-29.
[*58] - C. Castoriadis, « Marxisme-léninisme : la pulvérisation », in La montée de l’insignifiance. Les carrefours du labyrinthe IV, Seuil, coll. « La couleur des idées », Paris, 1996, p. 41-42.
[*59] - D. Landes, op. cit., p. 166, 167.In Spagna, alla fine del 19° secolo, i padroni della fabbrica di tabacco di Siviglia sono riusciti a rompere la resistenza dei loro salariati nei confronti della meccanizzazione della produzione giocando sull'invecchiamento del personale: dal momento che non venivano più formati dagli anziani, i nuovi assunti si vedevano costretti a lavorare alle macchine. Vedi Les Amis de Ludd, op. cit., p. 79-81 et N. Chevassus-au-Louis, op. cit., p. 139.
[*60] - En 1830, su L’Artisan. Journal de la classe ouvrière, si afferma che, una volta in possesso degli operai, la macchina cesserà di essere dannosa. Nel 1867, l'ufficio parigino dell’Internationale non esita ad invocare il carattere « sacro » delle macchine per condannare la loro distruzione. Vedi N. Chevassus-au-Louis, op. cit., p. 95, 96, 138.
[*61] - René Riesel e Jaime Semprun citano la seguente riflessione disincantata di un sindacalista spagnolo, contemporaneo dell'inizio dell'OST: "Siamo presi nella trappola dell'industrializzazione, come tutto il resto d'Europa. Il popolo, ivi compresi i compagni, si lasciano velocemente convincere dalla mentalità borghese. Rischiamo di perdere tutto quello che abbiamo duramente conquistato... Se solo ci fossimo impadroniti dei mezzi di produzione quando il sistema era giovane e debole,lo avremmo sviluppato lentamente a nostro vantaggio, rendendo la macchina schiava dell'uomo. Ogni giorno che lasciamo passare rende il nostro compito sempre più difficile", citato in R. Riesel et J. Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, Éditions de l’Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2008, p. 23-24).
[*62] - L. Mumford, Technique et civilisation, op. cit., p. 174 ; Le mythe de la machine, t. 2, op. cit., p. 471.
[*63] - Nel corso degli ultimi decenni, i cambiamenti operati nell'organizzazione del lavoro in seno all'impresa, combinati con l'utilizzo di nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, hanno notevolmente alterato la situazione dei quadri. Si possono considerare tutte queste trasformazioni come una nuova forma di lotta dei capitalisti contro quest'ultima incarnazione del "idiomatismo del mestiere". Vedi su questo punto:  R. Sennett, La culture du nouveau capitalisme. Hachette, Paris, 2008. Également, F. Dupuy, La fatigue des élites. Le capitalisme et ses cadres, Seuil, Paris, 2005 ; « Cadres : la comédie du bonheur », Le Monde, 18 septembre 2008 ; ou encore J. G. Ballard, Millenium people, Denoël, Paris, 2005.
[*64] - Malgrado il rigore e la pertinenza della sua analisi, Makhaïski non spinge il ragionamento fino alla sua logica conclusione, ossia alla denuncia dell'ordine tecnologico che giustifica l'impiego dei "capitalisti della conoscenza". Vedi: J. W. Makhaïski, Le socialisme des intellectuels, textes choisis, traduits et présentés par Alexandre Skirda, Les Éditions de Paris, Paris, 2001.
[*65] - G. Orwell, Le Quai de Wigan, UGE, Paris, 2000 [1937] (voir la deuxième partie). Voir également, J.-C. Michéa, Orwell, anarchiste tory, Climats, Castelnau-Le-Lez, 1995, et B. Bégout, De la décence ordinaire, Allia, Paris, 2008.
[*66] - Paul Mattick citato da L. Janover, Maximilien Rubel, pour redécouvrir Marx, Sens & Tonka, Paris, 2008, p. 118.
[*67] - Vedi soprattutto il capitolo III del libro di V. Bourdeau et al., op. cit., p. 101-140.
[*68] - Le prime a subire l'impatto dell'economia capitalista furono le comunità rurali vittime del movimento delle recinzioni. Più tardi, le industrie agroalimentari finirono di distruggere le culture contadine tradizionali imponendo i loro procedimenti tecnici.
[*69] - Ibid., p. 105, 111.
[*70] - Albert Meister (1967), economista marxista, citato da S. Latouche, Faut-il refuser le développement ? Essai sur l’anti-économique du Tiers-Monde, Seuil, Paris, 1986, p. 111.
[*71] - K. Marx, Œuvres. Économie, t. 2, op. cit., p. 1551 sq.
[*72] - A. Jappe, Guy Debord, Éditions Sulliver & Via Valeriano, Marseille, 1998, p. 224.
[*73] - L. Mumford, Techniques et civilisation, op. cit., p. 344 sq. ; J. Semprun, Apologie pour l’insurrection algérienne, Éditions de l’Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2001 ; G. Lapierre, Le mythe de la raison, L’Insomniaque, Paris, 2001 ; du même auteur, La Commune d’Oaxaca. Chroniques et considérations, Rue des Cascades, Paris, 2008 ; D. Graeber, Pour une anthropologie anarchiste, Lux, Montréal, 2006. On pourrait également citer Serge Latouche, Wolfgang Sachs, François Partant, Arundhati Roy…
[*74] - Espressione che utilizza Castoriadis per caratterizzare la democrazia ateniese. Vedi: « La polis grecque et la création de la démocratie », in Domaine de l’Homme. Les carrefours du labyrinthe II, Seuil, Paris, 1986, p. 264.
[*75] - L. Mumford, Les transformations de l’homme, Éditions de l’Encyclopédie des Nuisances, Paris, 2008 [1956], p. 238.
[*76] - Voir M. Löwy, « Développement des forces productives ou subversion de l’appareil de production ? Une perspective écosocialiste », Écologie & Politique, n° 32, 2006, p. 53-59.
[*77] - Voir R. Riesel et J. Semprun, op. cit.
[*78] - H. Jonas, Le principe Responsabilité. Une éthique pour la civilisation technologique, Cerf, Paris, 1991, p. 200-206.
fonte: CAIRN.INFO

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