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Marx e la fondazione macro-monetaria della microeconomia*

Riccardo Bellofiore

In molti dei suoi scritti recenti, Fred Moseley ha sottolineato che la teoria di Marx deve essere interpretata secondo un approccio tanto «macro» quanto «monetario», e che su di esso poggia la determinazione dei prezzi di produzione[1]. Moseley riconosce che anche altri interpreti hanno proposto una lettura «macro-monetaria» della teoria marxiana. Piuttosto che aprire un dialogo con queste altre prospettive interpretative, Moseley si è accontentato di sviluppare la propria. Un confronto aperto e una critica rigorosa sono perciò opportuni per individuare similitudini e differenze tra le varie posizioni.

Non posso che essere d'accordo con l'idea secondo cui l'originalità di Marx risiederebbe in quella che ho altrove definito come una vera e propria «teoria monetaria del valore-lavoro» e nella sua prospettiva «macro-sociale»: due elementi che caratterizzano la mia lettura di questo autore fin dagli anni ottanta. Tali affermazioni devono essere tuttavia vagliate attentamente, poiché non è per niente ovvio che il primo libro del Capitale di Marx possa essere letto alla maniera di Moseley, sia per quanto riguarda il versante «macro» che per quel che riguarda il versante «monetario». Una prima ragione sta nel fatto che, con poche eccezioni, il collegamento fondamentale tra il denaro e il valore ha soltanto recentemente catalizzato l'attenzione degli studiosi di Marx, ed è ancora oggi uno dei punti più controversi di tutta l'economia marxiana.

Un'altra ragione sta nel fatto che la distinzione tra macro e micro è un risultato della rivoluzione keynesiana, essa stessa alquanto controversa nel suo significato. L'applicazione di questi aggettivi a Marx deve essere chiarita fin nei minimi dettagli.

L'argomentazione di Moseley può essere riassunta attraverso alcune citazioni tratte da Moseley (2004). «Il primo libro del Capitale», egli afferma, «è, in primo luogo, rivolto alla determinazione dell'incremento totale del denaro (dD), o del plusvalore totale, prodotto complessivamente nell'economia capitalistica» (2004: 146). Le grandezze monetarie «sono determinate attraverso le quantità di tempo di lavoro che sono assunte come date» (2004: 147): sono presupposte, sono cioè un dato conosciuto. In questo senso, le grandezze monetarie sono le variabili dipendenti e le quantità di lavoro richieste per la produzione delle merci, ossia i valori-lavoro, sono i «dati», le variabili indipendenti. Parte integrante di questo approccio definito come "monetario" è, per Moseley, la prospettiva per la quale «il lavoro necessario dipende dal numero delle ore che sono necessarie al lavoratore per produrre nuovo valore (in termini monetari), che è uguale al capitale variabile monetario con il quale è comprata la forza-lavoro» (2004: 153). E questa una prospettiva nella quale il valore della forza-lavoro è determinato senza prendere come dato il paniere del salario reale medio di sussistenza. La maggior parte del primo libro è strutturata in rapporto ai capitali individuali e ai lavoratori individuali, ma, poiché la teoria di Marx riguarda tutti i capitali, essa si rivolge anche alla somma di tutti i capitali, ovvero al capitale sociale totale. Nel primo libro del Capitale, dunque, i capitali individuali rimandano al capitale sociale totale (2004: 155), e i lavoratori individuali alla classe lavoratrice nel suo complesso. In questo senso l'approccio «monetario» sarebbe anche una prospettiva «macro».

Sebbene il sostegno di Moseley alla prospettiva «macro-monetaria» sia benvenuto, sosterrò che la sua lettura non è né veramente monetaria né veramente macroeconomica, ma esattamente l'opposto: almeno se si accettano i significati attribuiti a questi termini da gran parte del pensiero economico eterodosso. Semmai, la lettura di Moseley sembra avvicinarsi maggiormente all'economia ortodossa. Il denaro è per lui un velo: in forza di ciò, il plusvalore è plusdenaro, e quest'ultimo è la necessaria forma fenomenica del pluslavoro che lo determina. «Macro» ha dunque il senso di una aggregazione: la totalità è semplicemente la somma delle componenti individuali.

Alcuni richiami (ridondanti) alla terminologia hegeliana e certe citazioni (dubbie) non sono in grado di chiarire il motivo per cui una tale aggregazione dovrebbe dare priorità logica alle grandezze «macro-monetarie» rispetto a quelle individuali.

Sosterrò inoltre che il tentativo di Moseley di descrivere il sistema marxiano come se fosse libero da difficoltà interne fallisce, e che la sua interpretazione «macro-monetaria» non è convincente proprio in alcuni snodi fondamentali. Suggerirò, invece, che una riformulazione della teoria monetaria marxiana ed una traduzione della sua teoria dello sfruttamento in termini autenticamente «macroeconomici» sono necessari proprio per superare alcune debolezze dell'argomentazione marxiana.

Nell'intraprendere questo esercizio dialogico e critico con Moseley, procederò per fasi e, sfortunatamente (per mancanza di spazio), in modo alquanto impressionistico, aiutandomi con alcune citazioni. Nella prima metà del saggio (i primi tre paragrafi), presenterò la mia lettura della teoria macro-monetaria del valore-lavoro, distinguendo chiaramente l'interpretazione dell'argomentazione marxiana dalla mia personale ricostruzione e sviluppo della medesima. Nella seconda metà del saggio (i paragrafi 4 e 5) metterò a confronto la discussione sul primo libro del Capitale con l'approccio di Moseley. Il presente saggio, dunque, presenta un abbozzo sintetico della mia lettura di Marx in parallelo con una critica dell'interpretazione di Moseley, entrambe messe alla prova dell'evidenza testuale.

Nel primo paragrafo presenterò una rapida rassegna generale[2] del senso fondamentale del primo libro del Capitale. Qui il mio obiettivo non sarà quello di restituire troppo alla lettera il pensiero di Marx: voglio anzi mettere subito in evidenza i momenti «macro» e «monetario» della prospettiva marxiana, nascosti dallo sviluppo originale dell'argomentazione. Nei paragrafi seguenti esaminerò più da vicino alcune delle questioni fondamentali nell'argomentazione del Capitale, analizzando più approfonditamente la formulazione propria di Marx. Nel secondo paragrafo, mostrerò in quale senso la natura «monetaria» del valore alla Marx sia inestricabilmente connessa alla teoria del denaro come merce - sia chiaro: merce speciale, «esclusa». E qui che sta il fondamento ultimo della «teoria del valore-lavoro», cioè del valore quale espressione in denaro di nient'altro che lavoro nella sua peculiare forma capitalistica. Il valore «intrinseco» (che è stato alcune volte, chiamato nella letteratura secondaria e dallo stesso Marx, valore «assoluto») e il lavoro astratto cristallizzato nelle merci, la cui misura «immanente» è il tempo di lavoro, si deve esprimere in una misura «esterna», il denaro come merce, il cui lavoro concreto è forma fenomenica necessaria del lavoro astratto congelato nelle merci. Nel terzo paragrafo ricorderò che la teoria marxiana dell'origine del plusvalore è parte di una argomentazione «controfattuale» (o meglio, discende dall'applicazione di un «metodo della comparazione»): il plusvalore risulta dal prolungamento della giornata lavorativa oltre il punto nel quale il lavoro vivo è pari al lavoro necessario.

Nel quarto paragrafo, dirò qualcosa sulla determinazione del valore della forza-lavoro nel primo libro del Capitale, giungendo a conclusioni contrastanti con quelle di Moseley, e che si avvicinano molto all'interpretazione della teoria del salario da parte di Rosa Luxemburg nella sua Introduzione all'economia politica. Il valore della forza-lavoro è determinato da Marx in relazione ad un paniere «reale» di sussistenza, che di fatto regola il salario monetario. Nel quinto paragrafo presenterò alcune citazioni tratte dal primo libro, le quali mostrano in modo evidente che la prospettiva marxiana è veramente «macro», come sostiene anche Moseley. Queste stesse citazioni mostrano però che la prospettiva «macro» giunge a conclusioni opposte rispetto alla prospettiva «micro». Uno degli esempi più chiari di ciò ha a che vedere proprio con la determinazione del salario reale per la classe dei lavoratori da parte del capitale totale. Il che contrasta palesemente con l'interpretazione dei testi presentata da Moseley.

Nel corso del saggio non potrò che dare per scontato il percorso di lettura della teoria marxiana che ho svolto in altri miei scritti[3]. Un percorso che mi ha condotto a sostenere che le difficoltà presenti nell'argomentazione propria di Marx, tanto sul piano della teoria monetaria quanto su quello della teoria del valore, possono essere superate soltanto se la teoria del valore-lavoro viene ripensata come teoria conflittuale dell'estrazione del lavoro vivo attraverso la lotta di classe, e se la natura essenzialmente monetaria del capitalismo implica che in questo modo di produzione il denaro non può avere natura di merce, in quanto la moneta apre il circuito quale finanziamento (bancario) alla produzione. La teoria del valore-lavoro astratto, insomma, può essere confermata e sviluppata soltanto qualora gli aspetti monetari e macro della teoria marxiana vengano non soltanto resi coerenti, ma anche rafforzati.


1. Il significato fondamentale del primo libro del Capitale: un breve compendio


Per Marx, la società capitalistica è definita come quel contesto storico in cui le condizioni «oggettive» della produzione (mezzi di produzione, incluso le risorse originarie e il lavoro) sono possedute privatamente da una parte della società, la classe capitalista, mentre l'altra parte, la classe dei lavoratori, ne è esclusa[4] . I lavoratori, separati dalle condizioni materiali del lavoro e quindi incapaci di produrre indipendentemente i propri mezzi di sussistenza, sono costretti a vendere alle imprese capitaliste la sola cosa che posseggono, la condizione «soggettiva» della produzione (la loro forza-lavoro), in cambio di un salario monetario da spendere nell'acquisto dei beni salario. La forza lavoro è la capacità di lavorare: essa è costituita dalle capacità fisiche e mentali che vengono messe in moto nel lavoro utile, che produce qualsiasi tipo di valori d'uso, e che è inseparabile dal corpo vivente degli esseri umani. Il contratto di lavoro tra i capitalisti e i lavoratori salariati presuppone che questi ultimi siano formalmente soggetti liberi (diversi dagli schiavi e dai servi), e, quindi, che mettano la loro forza-lavoro a disposizione dei capitalisti soltanto per un periodo limitato di tempo. I proprietari dei mezzi di produzione, i «capitalisti industriali», hanno bisogno di un finanziamento iniziale dai proprietari di denaro, i «capitalisti monetari», non solo per comprare i mezzi di produzione dagli altri capitalisti (il che, dal punto di vista della classe capitalistica nel suo complesso, è una transazione interna alla medesima), ma anche, e soprattutto, per comprare la forza-lavoro dei lavoratori (il che, dallo stesso punto di vista, è il suo solo acquisto «esterno»). Le merci prodotte appartengono ai capitalisti industriali, che le vendono ai «capitalisti commerciali», i quali, a loro volta, le realizzano sul mercato. Marx nel primo libro suppone che i capitalisti industriali abbiano inizialmente già a loro disposizione il denaro di cui hanno bisogno per attivare i processi produttivi, e che vendano le loro merci sul mercato senza bisogno di intermediari. Dunque, a questo livello di astrazione, le tre figure dei capitalisti (industriali, monetari, commerciali) non hanno bisogno di essere distinte. Il processo capitalistico, in un dato periodo di produzione, può essere riassunto in questi termini. All'inizio del circuito, la compera della forza-lavoro sul cosiddetto mercato del lavoro permette all'imprenditore capitalista di dare inizio alla produzione immediata. Le imprese si aspettano di vendere sul mercato le merci prodotte in cambio di denaro. Ciò che ottengono deve per lo meno coprire l'anticipo iniziale, in modo da chiudere il circuito. Qui sono coinvolti due tipi di circolazione monetaria. I salariati vendono le merci, Mfl (la loro forza-lavoro) in cambio di denaro, D, così da ottenere merci differenti, Mps (il paniere di merci necessarie alla riproduzione dei lavoratori, provenienti dai precedenti processi di produzione e appropriate dai capitalisti). I lavoratori sono così intrappolati in ciò che Marx chiama la «circolazione semplice delle merci», o M - D - M'. Dall'altro lato, le imprese capitalistiche comprano merci per venderle, quindi la circolazione appare dal loro punto di vista D - M - D'. Una volta espressa in questa forma, è chiaro che la circolazione capitalistica ha senso solo se la quantità di denaro alla fine del circuito è maggiore di quella anticipata all'inizio - cioè se D' > D e se il valore anticipato sotto forma di denaro è stato in grado di ottenere un plusvalore, consistente in un profitto monetario lordo[5]. D - M - D' è la «formula generale del capitale», e il capitale è definito da Marx come valore che si autovalorizza. La divisione tra capitalisti e lavoratori salariati potrebbe a questo punto essere reinterpretata come la «separazione» tra coloro che hanno accesso all'anticipazione di denaro come capitale, «denaro che genera denaro», indipendentemente dalla disponibilità di una merce e dunque anche prima della sua produzione, e quelli che hanno invece accesso al denaro solo come reddito, e che per ottenerlo devono già avere la disponibilità di una merce da vendere.

La domanda fondamentale affrontata da Marx nel primo libro del Capitale è quindi la seguente: come può la classe capitalistica ottenere dal processo economico più di quanto non vi immetta? Ciò che essi immettono, come classe, è il capitale monetario, che «esibisce» (o «espone»: nel seguito useremo i due termini come sinonimi) il lavoro astratto materializzato nei mezzi di produzione e nei mezzi di sussistenza richiesti per il processo di produzione. Ciò che essi ottengono è denaro che «esibisce» il lavoro astratto cristallizzato nelle merci prodotte e vendute sul mercato alla fine del circuito. Da un punto di vista macroeconomico, è chiaro che la «valorizzazione» del capitale non può avere la propria origine nelle transazioni «interne» alla classe capitalistica, ossia tra le imprese, perché qualsiasi profitto un produttore ottenga attraverso l'acquisto a prezzo più basso e la vendita a prezzo più alto determinerebbe una perdita per gli altri produttori. Di conseguenza, la fonte del plusvalore deve essere rintracciata nel solo scambio che è «esterno» alla classe capitalistica, ovvero l'acquisto della forza-lavoro.

La questione qui è semplicemente comprendere attraverso quale meccanismo tutto ciò può aver luogo. Ritornerò su questo punto in maggiore dettaglio, ma penso che il ragionamento di Marx sia, in estrema sintesi, il seguente. Nel processo lavorativo capitalistico, la totalità dei lavoratori salariati riproduce i mezzi di produzione impiegati e produce un prodotto netto. Il prodotto netto è «esibito» sul mercato in un neo valore che si aggiunge al valore dei mezzi di produzione. Questo vero e proprio «valore aggiunto» è nient'altro che l'espressione monetaria del tempo di lavoro (socialmente necessario) «oggettualizzato» in merci dai lavoratori salariati nel periodo attuale. Il «valore della forza-lavoro» con riferimento all'intera classe lavoratrice è dato dal lavoro contenuto nei salari monetari, che è regolato dal tempo di lavoro (produttore di merci) richiesto alla riproduzione della capacità di lavoro, e quindi dal tempo di lavoro che è richiesto per (ri)produrre i mezzi di sussistenza acquistati sul mercato. Perciò, il plusvalore proviene dal «pluslavoro»: la differenza positiva tra, da una parte, tutto il lavoro vivo speso nella produzione del prodotto netto del capitale, e, dall'altra, la quota di lavoro vivo necessaria alla riproduzione dei salari, che Marx chiama lavoro necessario.


2. Il valore come lavoro astratto: il denaro come merce come mediazione necessaria

2.1 L'espressione monetaria del tempo di lavoro astratto

La riconduzione del plusvalore al pluslavoro può essere meglio compresa volgendosi verso la maniera peculiare attraverso la quale Marx sviluppa e capovolge la teoria del valore-lavoro formulata originariamente dagli economisti «classici», Smith e Ricardo6. Il punto di partenza del ragionamento è che il capitalismo è un'economia di scambio generale di merci: per questo, l'analisi dello scambio «in quanto tale» (scambio «generale», o scambio «semplice») si dà prima dell'analisi dello scambio «capitalistico». Nello scambio semplice, i produttori particolari sono separati e in competizione l'uno con l'altro. Il lavoro di questi «individui» è immediatamente privato e può diventare sociale soltanto sul mercato finale delle merci. Questo avviene indirettamente: ogni merce è uguale alle altre in certe proporzioni quantitative, ha tanto «valore di scambio» quanto è espresso dal denaro, nella sua qualità di «equivalente generale». Il denaro è una merce particolare con potere d'acquisto generale; essa si è originata attraverso un processo di selezione ed esclusione che viene sanzionato dallo stato. Questa uguaglianza dei prodotti che si ha sul mercato è anche, nello stesso movimento, l'uguaglianza dei lavori che li producono. Così, il lavoro non è sociale ex ante ma solo in quanto il suo prodotto finale è denaro: ricchezza «generica» o «astratta». Il lavoro particolare, che è sempre anche «lavoro concreto», che produce un oggetto di una qualche utilità per altri, dunque un «valore d'uso», vale per il produttore come il suo opposto, come lavoro «astratto», come una quota del lavoro aggregato la cui socializzazione ex post è esposta nel valore monetario della produzione (e, quindi, come una quota del lavoro concreto che produce il denaro come merce). Non di meno, sebbene sia soltanto attraverso il denaro che il lavoro privato diventa lavoro sociale, non è il denaro che determina la commensurabilità delle merci. Al contrario: le merci hanno un valore di scambio perché, anche prima dello scambio finale sul mercato delle merci, esse hanno già acquisito la proprietà ideale di essere universalmente scambiabili, e possiedono quindi la «forma di valore». Tale proprietà, per così dire, scaturisce dal lavoro «astratto» oggettualizzato come «sostanza del valore». Il denaro non è nient'altro che valore resosi autonomo nello scambio, separato dalle merci ed esistente al loro fianco: e come tale esso è l'«espressione» esterna del lavoro astratto indirettamente sociale.

Quest'analisi qualitativa dello scambio in generale ha una precisa controparte quantitativa. La «grandezza di valore» di una merce è determinata dal lavoro «socialmente necessario» alla sua produzione, che dovrà essere esposto in denaro. In una determinata branca della produzione, ogni merce di un dato tipo e qualità è venduta allo stesso prezzo monetario. Quindi, la grandezza di valore è determinata non dal tempo di lavoro individuale realmente speso dal singolo produttore (che determina il suo «valore individuale»), bensì dal tempo di lavoro che deve essere speso in condizioni normali e con un grado medio di abilità e intensità del lavoro (che determina il suo «valore sociale»). La grandezza di valore è anche inversamente proporzionale alla forza produttiva7 del lavoro che produce la merce. Come si è detto, i "valori" delle merci si esibiscono necessariamente come prezzi monetari nello scambio. La quantità di denaro che è prodotta da un'ora di lavoro, in un dato paese e in dato periodo, può essere definita come l'«espressione monetaria del lavoro»: il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre una merce, moltiplicato per l'espressione monetaria del lavoro, ci dà ciò che è stato chiamato in seguito il suo prezzo «semplice» o «diretto».

Il valore di scambio relativo tra due merci è in Marx il rapporto tra i loro prezzi semplici: esso è quindi proporzionale al rapporto tra i loro valori «intrinseci». In questo modo di vedere le cose, è sempre possibile tradurre la misura «esterna» della grandezza di valore di ogni merce, esibita in termini monetari (idealmente anticipata, cioè «rappresentata», dai produttori già prima dello scambio), nella misura «immanente», cioè in unità di tempo di lavoro. Si noti, comunque, che il valore non è identico al prezzo definito arbitrariamente come quel qualsiasi rapporto tra la merce e il denaro che si fissi accidentalmente sul mercato. Il valore «espone» una relazione necessaria con il tempo di lavoro (astratto) che è stato speso nella produzione delle merci. Per essere assunto come «regolatore» effettivo dei prezzi di mercato, a questo stadio iniziale e ancora molto astratto dell'indagine, il concetto di valore implica una coincidenza tra la domanda e l'offerta delle varie merci. D'altro canto, il concetto di valore implica anche l'opposto, cioè che l'allocazione spontanea dei lavori immediatamente «privati» dei produttori autonomi ed indipendenti si affermi solo a posteriori sul mercato, come una «divisione sociale del lavoro». Astraendo da ciò, e dalle possibili divergenze tra domande e offerte, «prezzo» è il nome-monetario preso dalle merci: il tempo di lavoro che esso esibisce può differire dal lavoro socialmente necessario contenuto nella merce. La massa complessiva delle nuove merci prodotte nel periodo è vista da Marx come una quantità omogenea di valore, la cui espressione monetaria deve necessariamente essere uguale al loro prezzo totale in denaro. Qualsiasi divergenza tra i valori e i prezzi non può che ridistribuire il lavoro diretto complessivo tra i produttori, il «contenuto» nascosto dietro la «forma» di valore presa dal prodotto netto.

2.2 Il ruolo fondamentale del denaro come merce

Nell'argomentazione che ho appena riassunto, ciò che voglio sottolineare, con l'aiuto di alcune citazioni, è come l'idea secondo la quale il valore non esibisce nient'altro che lavoro si basa, per Marx, sulle seguenti tesi: (i) i prodotti sono merci (e quindi hanno valore) in quanto sono venduti sul mercato in cambio di denaro; (ii) il denaro è una merce (molto particolare); (iii) questa necessaria «validazione» monetaria ex post è, contemporaneamente, una «espressione» passiva, esterna, della «sostanza» intrinseca, cioè del tempo di lavoro «astratto» omogeneo cristallizzato nelle merci, che deve confermare (e misurare) esse stesse nella sfera della circolazione; (iv) i valori sono una pre-condizione della circolazione monetaria (quest'ultima tesi, si badi, sembra contraddire la prima).

«La forma generale del valore» scrive Marx «sorge soltanto come opera comune del mondo delle merci» e «l'oggettività di valore delle merci [...] può essere espressa soltanto mediante la loro relazione sociale onnilaterale» (Capitale, I: 98-99)8. Alcune pagine prima si precisa che «le proprietà di una cosa non sorgono dal suo rapporto con altre cose, ma anzi SI limitano ad agire in tale rapporto» (Capitale, I: 90). Soltanto all'interno dello scambio effettivo tutte le merci si presentano come qualitativamente uguali, come valori in generale, e come valori di differente grandezza quantitativa. Nella sfera della circolazione, quindi, i lavori immediatamente privati, concreti, si presentano come una quota del lavoro sociale astratto attraverso la loro metamorfosi in denaro. Ma Marx afferma esplicitamente che «[l]e merci non diventano commensurabili per mezzo del denaro. Viceversa, poiché tutte le merci come valori sono lavoro umano oggettualizzato, quindi sono commensurabili in sè per sè, possono misurare i loro valori in comune in una stessa merce specifica e, in tal modo, trasformare questa nella loro comune misura di valore, ossia in denaro. Il denaro come misura di valore è la forma fenomenica necessaria della misura immanente di valore delle merci, del tempo di lavoro» {Capitale, I: 127).

Poiché in generale «[i]l corpo della merce che serve da equivalente, vale sempre come incarnazione di lavoro astrattamente umano ed è sempre il prodotto di un determinato lavoro utile, concreto», e poiché il «lavoro concreto diventa forma fenomenica del suo opposto, di lavoro astrattamente umano» (Capitale, I: 90-1), nell'oro, in quanto «equivalente generale», il lavoro concreto che produce l'oro diventa la forma fenomenica del suo opposto, il lavoro umano astratto. Sebbene lavoro di un produttore «privato», esso funge da lavoro che ha forma immediatamente sociale. La misura del valore di una merce in oro, la sua forma-denaro, è il «prezzo». Una volta che il denaro venga considerato come standard «convenzionale» del prezzo, quantità di metallo con peso determinato, il prezzo diventa il nome-denaro del lavoro oggettualizzato nella merce. In questo modo il lavoro astratto intrinseco alle merce è «esposto» dal lavoro concreto che produce l'oro come denaro. Ma il prezzo delle merci è «come loro forma di valore in generale, una forma distinta dalla loro forma corporea tangibilmente reale, quindi è solo forma ideale ossia rappresentata. Il valore del ferro, della tela, del grano, ecc., esiste, sebbene invisibile, proprio in queste cose; viene rappresentato mediante la loro uguaglianza con l'oro: relazione con l'oro, che, per così dire, s'aggira fantasmagoricamente solo nelle teste delle merci» (Capitale, I: 128). Mentre «l'oro può servire come misura dei valori soltanto perché anch'esso è prodotto di lavoro» (Capitale, I:131), il valore delle merci è già «espresso» nei loro prezzi come denaro ideale - cioè come una data quantità del lavoro che produce l'oro - prima che essi entrino nella circolazione. Il valore è, in questo senso, una pre-condizione della circolazione, non il suo risultato: la teoria del denaro come merce rende questa affermazione compatibile con l'idea che il valore alla fine viene alla luce, o si attualizza, nell'intersezione della produzione e della circolazione9.

Questo filo di ragionamento rimanda ad un aspetto cruciale dell'argomentazione marxiana, che non possiamo sviluppare in questa sede, e per cui rimandiamo ad altri lavori. Per Marx, il «valore» che sta dietro il valore di scambio, prima della metamorfosi con il denaro, a stretto rigore, non esiste ancora, è una entità solo latente, un vero e proprio fantasma. Deve «incorporarsi», nel senso di «prendere corpo», una vera e propria «possessione»; Marx parla anche di «incarnazione». Marx, infatti, mentre non parla mai, a proposito del lavoro astratto, di lavoro incorporato, parla invece di «valore incorporato»: incorporato nel denaro come merce - a quel punto, la metafora del fantasma si muta in quella della crisalide.

In effetti, il valore «intrinseco» della merce10, come denaro ideale, deve ancora «realizzarsi», cioè rendersi attuale, venire concretamente all'esistenza11. Quando ciò avviene, il lavoro astratto nelle merci si espone (ed esprime), nel lavoro concreto che produce la merce-denaro, l'unico lavoro che Marx definisce «immediatamente sociale». Cionondimeno, nello scambio effettivo, «[n]ei loro prezzi, le merci sono già identificate a determinate quantità ideali di denaro [...] la massa di mezzi di circolazione richiesta per il processo di circolazione del mondo delle merci è già determinata dalla somma dei prezzi delle merci. Di fatto il denaro non fa che esporre realmente la somma d'oro già rappresentata idealmente nella somma dei prezzi delle merci» (Capitale, I:149, trad. modificata). La circolazione monetaria è «aperta» dal baratto iniziale dell'oro come merce contro un'altra merce: cioè l'oro come denaro, «entra come merce di valore dato. [...] Questo valore è presupposto nella funzione del denaro come misura del valore, quindi nella determinazione del prezzo [...] In quanto segue, il valore dell'oro viene presupposto come dato, come di fatto è dato nel momento della stima dei prezzi (Capitale, I: 150-51). Ancora, nel primo libro, questo valore di scambio è spiegato presupponendo che i rapporti quantitativi di scambio siano proporzionali al lavoro «incorporato»:

Come ogni merce, il denaro può esprimere la propria grandezza di valore solo relativamente, in altre merci. II suo proprio valore è determinato dal tempo di lavoro richiesto per la sua produzione e si esprime nelle quantità di ogni altra merce nella quale si è coagulato altrettanto tempo di lavoro. Questa fissazione della sua grandezza relativa di valore ha luogo alla sua fonte di produzione nel traffico immediato di scambio. Appena entra in circolazione come denaro, il suo valore è già dato (Capitale, I: 124, trad. modificata).


2.3 Alcune risposte alle critiche


Questa argomentazione, che è espressa nel modo più chiaro nelle pagine iniziali del Capitale, muove dal valore di scambio al valore, dal valore al denaro, e dal denaro al lavoro (anche se, va ammesso, nel primo paragrafo del primo capitolo, Marx compie sfortunatamente un cortocircuito connettendo valore e lavoro prima di avere introdotto la forma di valore e il denaro). Proprio per questo, la sue esposizione può essere attaccata da vari punti di vista.

Così, Bohm-Bawerk non è stato in grado di comprendere l'essenziale aspetto monetario della teoria marxiana del valore, ed ha solo prestato attenzione a ciò che gli appariva come una deduzione lineare valore di scambio/valore/lavoro astratto. Ne ha concluso, abbastanza ragionevolmente, che astrarre dai valori d'uso specifici non significa di per sé astrarre dal valore d'uso «in generale». E ha obiettato che, visto che le merci non prodotte hanno anch'esse dei valori di scambio, le proprietà comuni che permettono lo scambio sul mercato e che sono nascoste dietro il concetto di valore sono l'utilità e la scarsità. Questa prima critica deve trovare una risposta più forte rispetto a quella di Marx; questo verrà fatto nel prossimo paragrafo.

Una seconda critica, più recente e meglio disposta nei confronti di Marx, proviene dal campo marxiano. Molti teorici che fanno parte della corrente della «forma-valore» (incluso Geert Reuten e Nicola Taylor) sottolineano che, mentre la connessione del valore al denaro come equivalente universale (ma non la connessione del valore al denaro come merce) è in generale convincente, meno lo è l'idea di un valore «intrinseco» o «assoluto» determinato dal dispendio di lavoro come entità socialmente omogenea che si costituisce prima della vendita dei prodotti sul mercato delle merci. Di fatto, secondo questa posizione, Marx stesso indicherebbe che l'uguaglianza sociale tra i lavori si compie soltanto nella circolazione, quando la merce è realmente venduta: i lavori concreti nella produzione immediata sono insomma eterogenei, e quindi non-addizionabili. A me pare che in questa interpretazione, come in molte altre, vi sia una sottovalutazione della rilevanza della teoria del denaro come merce, vera e propria «fondazione» del nesso inseparabile stabilito da Marx tra il valore e il lavoro, e secondo il quale il primo (necessariamente «esposto» in denaro secondo un valore già dato) non è nient'altro che la «materiatura» del secondo12.

Alcuni interpreti, marxisti e no, hanno sostenuto che i valori regolerebbero i prezzi soltanto in un'«economia mercantile semplice», dove i lavoratori posseggono i mezzi di produzione e dove il reddito è interamente devoluto ai produttori. Una tale economia mercantile semplice può essere vista come un precedente storico del capitalismo oppure come una finzione, una prima e imperfetta approssimazione all'analisi del capitalismo. Poiché nel capitalismo i prezzi di concorrenza che fungono da centri di gravità dei prezzi di mercato sono «prezzi di produzione» (incorporano, cioè, un uguale saggio di profitto) e divergono in generale dai prezzi semplici, e poiché la «trasformazione» di questi ultimi nei primi è problematica, questa è diventata una terza ragione di attacco contro la teoria del valore di Marx. Questa posizione ignora il fatto che, per Marx, lo scambio di merci è generale soltanto quando il modo di produzione capitalistico è dominante - cioè, soltanto quando i lavoratori sono sistematicamente costretti a vendere la propria forza-lavoro in cambio di denaro come capitale (variabile), che diviene così valore autovalorizzantesi. Di conseguenza, il lavoro è la "sostanza" celata dietro la forma-valore a causa di una sequenza più fondamentale che va dal denaro (-capitale) al lavoro (vivo) al (plus) valore. Gli «individui» privati - separati e opposti l'uno all'altro nel mercato delle merci, dove diventano sociali attraverso la metamorfosi dei loro prodotti in denaro - possono adesso essere interpretati come lavoratori collettivi, organizzati dai capitali particolari in concorrenza tra di loro.

Tuttavia, come ho argomentato altrove, la teoria del denaro come merce proposta da Marx a partire dall'indagine della sfera della circolazione delle merci, all'inizio del Capitale, deve essere ridiscussa non appena l'analisi muove a considerare il processo di produzione capitalistico. Giunti a questo punto, si deve riconoscere che nel capitalismo il ciclo capitalistico si apre con una anticipazione di moneta nella forma di credito bancario, che finanzia la produzione delle imprese e che è creata dal nulla', appoggiandosi soltanto sull'attesa di una valorizzazione futura. E questo un motivo ulteriore che ci spinge alla ricerca di un differente fondamento - più solido di quello di Marx - della riconduzione dei valori delle merci a nient'altro che espressione (monetaria) del solo lavoro.

Ma prima di affrontare direttamente tale questione dobbiamo ripercorrere l'argomentazione marxiana dell'origine del plusvalore. Un'argomentazione in cui Marx procede ancora riducendo le grandezze monetarie all'oro, e in forza di ciò "traducendo" i prezzi monetari che esibiscono i valori in quantità di tempo di lavoro.


3. L'origine del plusvalore e il «metodo della comparazione»

3.1 Marx sull'origine del plusvalore

Il processo di valorizzazione può essere riassunto quantitativamente con l'aiuto di alcune definizioni. Marx chiama la parte del capitale monetario anticipato dalle imprese e usato per comprare i mezzi di produzione «capitale costante» perché, attraverso la mediazione del lavoro come lavoro concreto, il valore delle materie prime e degli strumenti di produzione viene puramente e semplicemente trasferito al valore del prodotto. Marx chiama la porzione rimanente del capitale monetario anticipato - più precisamente, la forma monetaria presa dai mezzi di sussistenza che va a comprare i lavoratori, consentendo così di «incorporarli» (questa volta non nel senso di «prendere possesso» ma nel senso di «includerli») nel processo di valorizzazione - «capitale variabile», perché, quando il lavoro vivo, come lavoro astratto, è estratto dalla capacità di lavoro dei lavoratori, esso non solo restituisce il valore anticipato dai capitalisti nella compera della forza-lavoro, ma produce anche valore oltre questo limite, e, quindi, dà vita a un plusvalore. Il rapporto del plusvalore con il capitale variabile è definito da Marx «saggio di plusvalore». Quest'ultimo corrisponde al «grado di sfruttamento», inteso quale appropriazione da parte del capitale di un «pluslavoro» all'interno della giornata lavorativa sociale: più alto (basso) è il rapporto, più (meno) ore di lavoro i lavoratori spendono per la classe capitalistica rispetto alle ore che spendono per produrre il proprio consumo. Una ripartizione simile tra capitale costante, capitale variabile e plusvalore può essere scovata nel valore dell'output prodotto dai singoli capitali come componenti del capitale complessivo.

Dall'altro lato, Marx chiarisce nel terzo libro del Capitale come i capitalisti non possono che mettere in rapporto il plusvalore con il capitale complessivo che hanno anticipato. Il plusvalore, in quanto riferito alla somma del capitale costante e del capitale variabile, prende il nome di «profitto», e questo nuovo rapporto è perciò definito «saggio di profitto». Poiché esso mette in relazione il plusvalore non soltanto al capitale variabile, ma anche a quello costante, il saggio del profitto oscura, dunque nasconde e dissimula, la necessaria relazione interna tra il plusvalore, come effetto, e il lavoro vivo, come causa. Il profitto a questo punto viene compreso come prodotto dal capitale complessivo quale cosa (vuoi come somma monetaria, vuoi come insieme dei mezzi di produzione, che include i lavoratori come cose tra altre cose) e non come rapporto sociale tra classi. Tuttavia, questa mistificazione «feticistica», che pare far discendere il profitto da una proprietà naturale dell'oro o degli strumenti di produzione, non è mera illusione, essa discende anzi direttamente dal «carattere di feticcio» del capitale, dalla natura «cosale» e «reificata» del rapporto sociale in questione, storicamente determinato. Dipende, nel caso specifico, anche dal fatto che, per sfruttare il lavoro, il capitale deve, allo stesso tempo, essere anticipato nella forma di capitale costante, moneta e mezzi di produzione. Di conseguenza, il lavoro salariato è davvero una parte del capitale, come lo sono gli strumenti di lavoro e le materie prime, sebbene il lavoro vivo dei salariati sia al tempo stesso davvero il tutto dal quale il plusvalore, e quindi il capitale stesso, provengono. Da questo punto di vista, il saggio di profitto esprime esattamente il «grado di valorizzazione» di tutto il valore anticipato come capitale.

Torniamo al primo libro del Capitale13. Per comprendere come si produce capitale secondo la teoria di Marx, per intendere cioè la «genesi» dei profitti monetari lordi, è necessario assumere, come fa Marx, che le imprese capitalistiche producano al fine di soddisfare una domanda effettiva di merci, che è l'elemento trainante a cui l'offerta risponde. I «metodi di produzione» (inclusi l'intensità e la forza produttiva del lavoro), l'occupazione e il salario reale sono tutti a questo punto da considerare «dati» conosciuti. Marx a questo punto procede attraverso quello che è stato chiamato da Rubin il metodo della comparazione14. In questo almeno simile a tutte le altre merci, la merce particolarissima forza-lavoro ha un valore di scambio e un valore d'uso. Il primo esibisce il «lavoro necessario», che è considerato da Marx come un dato già prima della produzione, e corrisponde al lavoro «incorporato» nel capitale variabile monetario anticipato. Il secondo è il «lavoro vivo», ovvero il lavoro in movimento, la prestazione lavorativa durante la produzione immediata. Se il lavoro vivo estratto dai lavoratori fosse pari al lavoro necessario - se, cioè, il sistema economico consentisse una riproduzione tale da soddisfare soltanto il consumo dei lavoratori secondo la «sussistenza» - non ci sarebbe plusvalore e, quindi, nemmeno profitti (monetari lordi). Sebbene capitalisticamente impossibile, questa situazione è significativa e reale nello stesso capitalismo, poiché un processo di produzione capitalistico che sia vitale deve reintegrare il capitale anticipato al fine di riprodurre la popolazione lavoratrice secondo lo standard di vita storicamente dato. In questa situazione, analoga al «flusso circolare» di Schumpeter, i prezzi relativi si riducono al rapporto tra i prezzi semplici, sono cioè proporzionali alle quantità di lavoro «contenute» nelle merci.

Il lavoro vivo dei lavoratori salariati non è una grandezza costante, ma è per sua natura variabile. E' un «fluido». La quantità della sua «materiatura» effettiva15 è ancora da determinare quando il contratto di lavoro viene stipulato. Quel fluido «congelerà»16 solo come esito della produzione in senso stretto. La lunghezza della giornata lavorativa può evidentemente essere estesa oltre il limite del lavoro necessario, cosicché vi sia un pluslavoro. E lo è, di fatto. Infatti, il controllo e l'obbligo al lavoro imposto dal capitale ai lavoratori garantisce che questa estensione potenziale della giornata lavorativa sociale oltre il tempo di lavoro necessario abbia luogo nella realtà effettuale. In questo modo emergono quelli che, con Napoleoni, possiamo chiamare «profitti originari». Marx assume qui che la lunghezza della giornata lavorativa sia la stessa per ogni lavoratore, cosicché i profitti originari siano proporzionali all'occupazione. La loro somma è il plusvalore complessivo. Per non confondere l'indagine sull'origine del plusvalore capitalistico con quella relativa alla sua distribuzione tra i molti capitali in concorrenza, Marx si attiene alla medesima regola di determinazione del prezzo adottata in precedenza: i «prezzi semplici» proporzionali al lavoro contenuto nelle merci. Egli può quindi sottrarre dalla quantità complessiva del lavoro vivo che è stato realmente estorto nel processo lavorativo capitalistico e oggettualizzato nel nuovo valore («sociale») aggiunto, la quantità minore di lavoro che i lavoratori devono realmente svolgere per produrre l'equivalente del salario monetario che è stato loro pagato.

Si noti che la comparazione che Marx fa non è svolta tra una situazione in cui sono presenti produttori non capitalistici di merci, il cui reddito da lavoro («salario») esaurisce il prodotto, e una situazione dove sono presenti capitalisti che guadagnano profitti grazie a una riduzione proporzionale del «salario». E piuttosto tra due situazioni effettivamente capitalistiche, dove il fattore determinante dal punto di vista della costituzione della situazione capitalistica effettiva consiste nella «continuazione», cioè nel prolungamento della giornata lavorativa sociale (mentre si mantiene costante la regola del prezzo). Si noti, inoltre, che un'implicazione della regola di determinazione del prezzo adottata da Marx17 è che il tempo di lavoro esposto nel valore del monte salari monetario è lo stesso del tempo di lavoro necessario a produrre i mezzi di sussistenza acquistati sul mercato. Se il consumo che i salariati possono effettuare sul mercato delle merci, in termini reali, tramite la spesa dei salari monetari che ricevono sul mercato del lavoro, è posto come un «dato», al livello di sussistenza, e se le aspettative di vendita delle imprese si assumono, per ipotesi, confermate, allora il processo di autoespansione del capitale può essere visto come determinato in modo teoricamente trasparente dallo sfruttamento della classe lavoratrice nella produzione, qualcosa che non fa che riflettersi nella circolazione «finale» quale luogo dove vengono guadagnati i profitti monetari.

Naturalmente, la possibilità di un pluslavoro esiste fin dall'inizio, una volta che la forza produttiva del lavoro abbia raggiunto un certo livello. Comunque, la questione fondamentale per Marx è che, poiché il carattere specifico della merce forza-lavoro è quello di essere inestricabilmente legata ai corpi dei lavoratori, essi possono resistere alla costrizione del capitale al (plus)lavoro. Nel capitalismo c'è «creazione» di valore solo in quanto c'è «creazione» di plusvalore, ossia valorizzazione; la valorizzazione potenziale attesa dall'acquisto della forza-lavoro sul mercato del lavoro si realizza solo in quanto la classe capitalista vince la lotta di classe nella produzione e riesce a far lavorare i lavoratori (e a condizione, naturalmente, che le imprese siano poi anche in grado di vendere i loro prodotti come merci, anche qui in conformità alle aspettative).

Sono convinto che stia qui la giustificazione ultima e adeguata dell'identità marxiana tra valore e lavoro, via denaro, che ridefinirei, sulla base del Marx del capitolo 5 del primo libro del Capitale, in questo modo: il lavoro vivo è la sola sorgente del neo valore. A questo punto, la «crisalide», il valore che si è impossessato del corpo del denaro come merce, si è tramutata in «farfalla»: non però come Soggetto che pone i propri presupposti in analogia all'Idea hegeliana (secondo la lettura marxiana di Hegel), senza uscire dalla dimensione monetaria o del lavoro morto; ma come «fantasma» che si è tramutato in «vampiro», che «succhia»18 lavoro vivo dai lavoratori che sono stati «annessi» o «incorporati» nel mostro meccanico del capitale, e che vengono «messi al lavoro», sicché di riflesso quel mostro si mette a «lavorare» esso stesso «come se avesse amore in corpo».

Questa, a me pare, è la sola risposta forte alla critica di Bohm Bawerk che ho ricordato nel paragrafo 2.3. Il valore non esibisce in denaro nient'altro che lavoro «morto», «oggettualizzato», perché il plusvalore - che è a ben vedere l'unica autentica ricchezza per il capitale — dipende causalmente dalla «oggettualizzazione», o «materiatura», del fluido del lavoro vivo dei lavoratori salariati, estratto e prolungato oltre il limite del lavoro necessario nei processi capitalistici di lavoro, intesi questi ultimi quale terreno di possibile contestazione in cui i lavoratori sono sempre potenzialmente recalcitranti, e dove il capitale ha bisogno di assicurarsi il lavoro per ottenere il pluslavoro. Nel capitalismo la «capacità di generare» surplus è insomma una variabile endogena da ricondurre alla determinazione di forma della produzione quale produzione di un plusvalore che deve realizzarsi sul mercato.

Con certi metodi di produzione, e assunto che la concorrenza sul mercato del lavoro determini un salario reale uniforme, lo stesso «lavoro necessario» va considerato un dato. Su questo sfondo, l'estrazione del plusvalore viene indagata, all'inizio, come conseguente a un prolungamento della giornata lavorativa. Marx definisce questo processo mirato all'ottenimento del plusvalore come estrazione di «plusvalore assoluto». Quando la lunghezza della giornata lavorativa viene limitata legalmente o attraverso il conflitto sociale, il capitale può aumentare il proprio plusvalore attraverso una estrazione di «plusvalore relativo», cioè introducendo innovazioni tecnologiche e/o accelerando il ritmo della produzione (ovvero intensificando il lavoro rispetto alla norma. Il cambiamento tecnico, che conduce ad un incremento della forza produttiva del lavoro, diminuisce il valore unitario delle merci. Nel momento in cui il cambiamento dell'organizzazione della produzione influenza direttamente o indirettamente le condizioni della produzione dei beni salario, il lavoro necessario decresce perché scendono i «prezzi semplici» delle merci che compongono il salario reale di sussistenza; ne consegue una riduzione del valore della forza-lavoro. L'abbassamento del lavoro necessario fa spazio ad un maggiore pluslavoro all'interno della giornata lavorativa e, quindi, consente l'estrazione di un maggiore plusvalore. Il cambiamento delle tecniche di produzione che dà luogo all'incremento del plusvalore relativo (che comprende l'aumento della forza produttiva del lavoro, la quale spesso e volentieri si porta dietro una maggiore intensità del lavoro) è una modalità di controllo dell'attività del lavoratore molto più efficace rispetto al semplice controllo personale da cui sgorga il plusvalore assoluto, o anche rispetto alla pura e semplice accelerazione del ritmo della produzione su base tecnica data (se sconnesso, cioè, dall'introduzione di innovazioni tecnologiche). Nel capitalismo, dunque, progresso tecnico e più alta intensità di lavoro vanno di norma di pari passo19.

Il modo di produzione specificamente capitalistico si sviluppa attraverso gli stadi della «cooperazione», della «divisione manifatturiera del lavoro», del «macchinismo e della grande industria». In quest'ultimo, il lavoro non è più sussunto solo «formalmente» al capitale - con l'estrazione del plusvalore che si dà all'interno di una struttura tecnica storicamente ereditata e immutata - ma viene sussunto anche «realmente», in un sistema di produzione che è stato «disegnato» sin dall'inizio capitalisticamente20. I lavoratori diventano «appendici» dei mezzi di produzione, che a loro volta fungono da strumenti di «assorbimento» della forza di lavoro in movimento, di «estrazione» del lavoro vivo. I lavoratori sono soltanto dei «portatori» della sorgente da cui fluisce il fluido del lavoro vivo, la sorgente del valore. E chiaro a questo punto che le proprietà e le abilità concrete del lavoratore derivano da una struttura produttiva continuamente rivoluzionata al fine anche di un più efficace comando del lavoro vivo all'interno del processo di valorizzazione.

Adesso il lavoro, non solo «conta» come, ma è puramente astratto, indifferente alla sua forma particolare (che è dettata dal capitale): e questo già nel momento della produzione, dove i capitalisti, nella loro incessante ricerca di (extra) profitti, provano a «manipolare» i lavoratori come se la loro attività fosse riducibile a oggetto passivo21. Il processo attraverso il quale il lavoro è spogliato di tutte le sue determinazioni qualitative, di tutte le sue «proprietà», e viene ridotto a mera quantità, comprende sia la tendenza storicamente dominante alla dequalificazione e frantumazione che le fasi periodiche di parziale e momentanea ri-qualificazione e riunificazione. Il lavoro astratto non può quindi essere identificato con il lavoro «degradato» alla Braverman, e neppure con un lavoro «de-concretizzato»22.

3.2 Una nuova visione dello sfruttamento


E' necessario un momento di riflessione per apprezzare appieno le caratteristiche peculiari di questa realtà sociale unica. Il conseguimento del profitto lordo avviene grazie ad uno «sfruttamento» dei lavoratori, e questo in un duplice senso. C'è senz'altro sfruttamento per la divisione della giornata lavorativa sociale, nella quale i lavoratori scambiano più lavoro vivo contro meno lavoro necessario «oggettualizzato» nel salario. Questo è però il punto di vista tradizionale, «distributivo», sullo sfruttamento. Corretto, ma limitato. Esso prende in considerazione la spartizione della quantità di lavoro «sociale»23 incorporata nel neo valore aggiunto in un dato periodo. La sua misura «immanente» è il pluslavoro oltre il lavoro necessario. Si tratta però soltanto dell'esito finale di un ben più significativo «sfruttamento» dei lavoratori in altro senso. La ricchezza capitalistica proviene dall'uso della capacità lavorativa dei lavoratori: tale uso inverte la natura del lavoro, che è reso astratto - «puro e semplice» perché «eterodiretto» - già nella produzione immediata. La misura quantitativa di questo secondo concetto «produttivo» di sfruttamento - un concetto che si riferisce dilla formazione, piuttosto che alla spartizione, di tutto il neo valore aggiunto - non può che essere l'intera giornata lavorativa sociale, esito della «lotta di classe nella produzione». Da questa seconda prospettiva, lo sfruttamento si identifica con l'astrazione/estrazione del lavoro vivo - cioè con tutto il lavoro estratto dai lavoratori.

Marx mostra nel primo libro del Capitale, e ancora di più nel Capitolo sesto inedito, che il lavoro astratto riflette una vera e propria «inversione di soggetto e oggetto». Più precisamente, una «ipostasi reale», che si approfondisce nel suo percorso teorico ed espositivo: che muove dal mercato finale delle merci, che torna indietro al mercato del lavoro, e che prosegue in avanti al processo di produzione immediato. Nello scambio sul mercato finale delle merci, il lavoro «oggettualizzato» è qualificato come «astratto» perché, quando si esprime ed espone come valore nel denaro, il prodotto dell'attività lavorativa umana in quanto merce si presenta come una realtà indipendente ed estraniata, separata dalla propria origine nel lavoro vivo. La conseguente «alienazione» degli individui è l'altra faccia della «reificazione» e del «feticismo», inevitabili conseguenze del «carattere di feticcio» tipico dello scambio generale e monetario. Reificazione: perché i rapporti di produzione tra le persone prendono necessariamente la forma di uno scambio tra cose in un'economia di mercato (capitalistica). Feticismo: perché i prodotti del lavoro sembrano provvisti di proprietà sociali come se queste ultime fossero donate loro dalla natura.

Queste caratteristiche ricompaiono in tutta evidenza anche nelle altre due fasi del circuito capitalistico. Sul mercato del lavoro, gli esseri umani altro non sono che «personificazioni» della merce che vendono, la forza-lavoro, che è lavoro in «potenza». Nella produzione immediata, il lavoro «in divenire» è organizzato e foggiato dal capitale, in quanto «valore in processo», e viene incluso in una organizzazione materiale determinata, che è progettata per imporre l'estrazione del plusvalore. Per accumularsi, il lavoro morto deve «incorporare» il lavoro vivo. Il lavoro morto «che succhia» il lavoro vivo nel processo di astrazione è, in effetti, il vero Soggetto, per il quale i singoli lavoratori concreti valgono come meri predicati. Si è anticipato che in questo modo di vedere le cose il capitale, in quanto valore autovalorizzantesi, rischia di ridursi alla Idea Assoluta di Hegel, che cerca di rendersi attuale e di riprodurre le proprie condizioni di esistenza, come totalità «chiusa», nel circolo continuo del presupposto posto. Se non fosse per la circostanza cruciale, e distintiva della critica marxiana dell'economia politica: che il capitale si costituisce davvero come tale soltanto «annettendosi» i lavoratori, facendoli divenire suo momento interno; e che però al tempo stesso, proprio in forza di ciò, è lui a dipendere dalla loro attività, dal fluido del lavoro non-oggettualizzato, non-morto, vivo24.

3.3 La concorrenza «dinamica» nel primo libro


Prima di procedere, è necessario anche sottolineare il ruolo cruciale svolto dalla concorrenza nella teoria di Marx. La concorrenza è per lui una caratteristica essenziale della realtà capitalistica. Ciò che tutti i capitali hanno in comune, la tendenza interna del «capitale in generale», è la loro capacità sistematica di far aumentare il denaro. Abbiamo visto che ciò avviene attraverso lo sfruttamento della classe lavoratrice da parte del capitale. La natura del capitale, comunque, si realizza soltanto attraverso l'interrelazione dei molti capitali in opposizione l'uno all'altro. Questo era già chiaro nella definizione fondamentale del lavoro astratto e del valore. Il «lavoro socialmente necessario» si determina attraverso la socializzazione ex post, nello scambio tra produttori (capitalisti) di merci, separati l'uno dall'altro. La determinazione dei «valori sociali», in quanto regolatori della produzione che guidano ad una qualche allocazione d'«equilibrio» del lavoro sociale - la «legge del valore» -, si afferma al livello dei capitali individuali soltanto attraverso la mediazione dell'interazione reciproca sul mercato.

Il concetto marxiano di concorrenza è originale rispetto a quello dei Classici, perché di due tipi. Il concetto ricardiano di concorrenza, che è presente anche in Marx, è ciò che può essere definito concorrenza inter-settoriale (o «statica»). Esso esprime la tendenza alla perequazione del saggio del profitto tra i settori. Questo tipo di concorrenza sarà il centro dell'analisi nel terzo libro, specialmente nella seconda sezione. Ma in Marx, già nel primo libro (quarta sezione, decimo capitolo), c'è anche una concorrenza infra-settoriale (o «dinamica»). Questa parte dell'eredità marxiana è stata una fonte di ispirazione fondamentale per Schumpeter25. La lotta per assicurarsi, anche se solo temporaneamente, un plusvalore extra esprime una tendenza a diversificare il saggio del profitto all'interno di un dato settore.

All'interno di un dato settore, c'è una stratificazione delle condizioni di produzione e le imprese possono essere classificate in relazione alla loro produttività: alta, media o bassa. Il valore sociale di un'unità di prodotto tende verso il valore individuale delle imprese che producono la massa dominante delle merci vendute in quel settore (questo, naturalmente, implica che uno spostamento sufficientemente forte della domanda possa interessare indirettamente il valore sociale). Quelle imprese, il cui valore individuale è più basso (più alto) del valore sociale, ottengono un plusvalore che è più alto (più basso) del normale. C'è quindi, per i singoli capitali, un continuo incentivo all'innovazione, alla ricerca di un plusvalore extra, qualunque sia l'industria coinvolta. Questo determina un micro-meccanismo che tende alla produzione sistematica del plusvalore relativo, indipendentemente dalle motivazioni coscienti dei capitalisti individuali. I nuovi e più avanzati metodi di produzione che incrementano la produttività del lavoro sono incorporati nei processi lavorativi più meccanizzati. In questo modo la «composizione tecnica del capitale», ovvero il numero dei mezzi di produzione in relazione al numero dei lavoratori impiegati, sale. Questo è rappresentato da una crescita nel rapporto tra capitale costante e capitale variabile, entrambi misurati ai loro valori correnti prima dell'innovazione, che Marx chiama «composizione organica del capitale». Ma la «svalutazione» (la riduzione del valore unitario) delle merci, derivante dall'innovazione, si diffonde anche al settore dei beni capitale e potrebbe determinare una caduta della «composizione di valore del capitale», cioè del valore della composizione del capitale misurata ai valori predominanti in seguito al cambiamento.

3.4 Verso una teoria del denaro non-merce: il finanziamento come una ante-validazione monetaria del lavoro astratto

A questo punto è possibile comprendere come dietro l'anarchica «divisione sociale del lavoro», che si svolge tra produttore privati separati ed autonomi, che si connettono per il tramite del mercato, per così dire a posteriori, opera una «divisione tecnica del lavoro», che si svolge invece all'interno della produzione. Quest'ultima è soggetta all'impulso della valorizzazione: qui, un piano dispotico a priori delle imprese capitalistiche conduce ad un eguagliamento tecnologico e organizzativo e ad una precommisurazione sociale della spesa di forza-lavoro, che anticipa provvisoriamente la validazione finale sul mercato delle merci26. Questo processo impone al lavoro - già entro la produzione diretta, e dunque prima dello scambio «finale» - le proprietà quantitative e qualitative di essere lavoro astratto che deve essere erogato nella quantità socialmente necessaria. In una teoria monetaria in cui il denaro non è merce - dove l'idea che i valori non siano altro che «materiatura» di lavoro (contenuto nel denaro come misura del valore) non regge più - la dicotomia problematica tra l'eterogeneità dei lavori concreti nella produzione e l'omogeneità del lavoro astratto che si compie in modo finale nella circolazione, attraverso la «attualizzazione» dei valori nel denaro, può essere superata. Infatti, il finanziamento bancario alle imprese non è nient'altro che una ante-validazione monetaria che permette ai capitalisti industriali di dar luogo ad una precommisurazione del lavoro nella produzione: cosicché, ancora di più che nell'approccio originale di Marx, il processo capitalistico deve essere visto come «denaro in movimento», un processo monetario sequenziale che nasconde dietro di sé il «lavoro in movimento». Il circuito monetario capitalistico e l'astrazione del lavoro non sono che due facce di una stessa medaglia.

Una volta che il capitalismo ha raggiunto la propria piena maturità nell'industria su larga scala e nel sistema di macchine, la soggezione del lavoro vivo dei lavoratori salariati al capitale e la conseguente astrazione preliminare del lavoro nella produzione devono essere viste come il vero fondamento essenziale dell'astrazione del lavoro che ha poi luogo nello scambio finale sul mercato delle merci. Tale astrazione del lavoro che si verifica nella produzione non potrebbe aver avuto luogo senza un precedente anticipo di denaro come capitale monetario, sulla base di un incontro delle aspettative di banchieri e imprenditori in relazione all'esito atteso della produzione non in quanto generico processo lavorativo, ma in quanto momento centrale della valorizzazione capitalistica.

Il valore e il plusvalore hanno dunque una pre-esistenza «ideale», prima della circolazione «reale». Come in Marx, questi valori attesi hanno già una determinata dimensione quantitativa in termini monetari e di tempo di lavoro. Ma la loro condizione di possibilità è adesso esplicitamente il finanziamento bancario della produzione in quanto ante-validazione monetaria del processo di lavoro capitalistico come processo di valorizzazione. La precondizione monetaria della produzione capitalistica di merci è l'anticipo di denaro (non-merce) nella forma di capitale monetario, necessaria perché possa essere attivata la produzione. La natura monetaria della teoria marxiana non può che uscire rinforzata, e non indebolita, da questa prospettiva ricostruttiva, che lungi dal danneggiare dà un più solido fondamento alla teoria del valore-lavoro intesa in primo luogo come teoria dell'origine del plusvalore, cioè come teoria dello sfruttamento.


4. Il denaro non-merce e il valore della forza-lavoro


4.1 La valorizzazione capitalistica come sequenza monetaria

C'è però un altro problema che si determina con l'abbandono della teoria marxiana del denaro come merce, ed è il seguente: se si assume che il denaro sia merce, come avviene nel primo libro del Capitale, ne consegue che: (i) il potere d'acquisto del denaro (che in seguito per brevità definiremo «valore del denaro», sebbene il termine sia ambiguo) può essere preso come un dato prima del processo di produzione; (ii) il capitale variabile, in quanto grandezza monetaria, può essere convertito in una grandezza in tempo di lavoro prima dell'inizio della produzione; (iii) inoltre, assumendo che non si verifichino problemi di realizzazione del prodotto-merce, quest'ultimo può essere calcolato in termini di tempo di lavoro contenuto prima dello scambio effettivo sul mercato finale delle merci. Lo sfruttamento - sia come estensione della giornata lavorativa sociale, oggettualizzata dal lavoro vivo, che come pluslavoro nascosto dietro il plusvalore - è in questo ragionamento definito con grande accuratezza. Una volta che lasciamo cadere l'idea del denaro-merce, potrebbe sembrare che tutto questo non sia più vero. A mio parere, questa difficoltà può essere superata con un'analisi più accurata del significato di «valore della forza-lavoro» nel primo libro.

Abbiamo visto che Marx adotta una duplice determinazione di questa grandezza. Essa è, ad un tempo, (a) l'ammontare del tempo di lavoro (concreto) speso per produrre il denaro come merce (che ha un valore dato) e che, in quanto denaro, è anticipato come capitale variabile, e (b) l'ammontare del tempo di lavoro (astratto) materializzato nel paniere di sussistenza, che il denaro non fa che «esporre». Detto altrimenti: il tempo di lavoro concreto «contenuto» nella merce denaro è la forma fenomenica (necessaria) del tempo di lavoro astratto contenuto nei beni salario. Non c'è contrasto tra le due definizioni se ci atteniamo alla legge del prezzo secondo la quale i prezzi relativi sono proporzionali al lavoro (socialmente necessario) incorporato nelle merci. Le cose cambiano se cambia la legge del prezzo. Nel primo libro, i salari sono il dato conosciuto, ad un qualche livello della sussistenza, che è fissato dalle determinanti «storiche e morali» e dal conflitto sociale. Su questo sfondo, quando, nel terzo libro, si introducono prezzi di produzione che divergono dai c.d. valori-lavoro, cioè dai prezzi «semplici», allora il capitale variabile, che è una grandezza espressa in termini monetari, deve essere ripensato nei termini dei medesimi beni-salario di sussistenza assunti come dati, ma che vanno ora valutati a prezzi di produzione. Se al contrario i salari vengono assunti come «dati» quali grandezza monetaria che non ha alcuna connessione con la sussistenza «storica e morale», allora il passaggio ai nuovi prezzi non potrà che mutare l'ammontare dei valori d'uso che i lavoratori possono acquistare, se si ipotizza che il monte salari monetari al nuovo livello di astrazione (terzo libro) debba essere considerato della medesima grandezza quantitativa del precedente livello di astrazione (primo libro). Negli ultimi due decenni è diventato di moda percorrere la seconda strada. E ciò che fa anche Moseley. Nelle pagine seguenti, analizzerò il significato del ciclo del capitale monetario come «formula generale del capitale» nel Capitale e presenterò argomenti testuali che dimostrano che Marx considerava il salario reale di sussistenza come «dato», il dato conosciuto, nel primo libro.

Il primo punto è quello di fornire una migliore comprensione dell'argomento marxiano della valorizzazione capitalistica in quanto produzione di (più) denaro a mezzo di denaro. Moseley legge questo argomento come se il valore dovesse essere identificato solo con la forma di denaro (per di più identificata sempre e comunque con la moneta), e dunque come se la forma di merce non potesse essere essa stessa una forma di esistenza del valore - quindi, come se i beni di produzione e i beni-salario in quanto merci non fossero essi stessi modi di esistenza del valore. Marx afferma esplicitamente l'opposto: «nella circolazione D-M-D', l'una e l'altra, merce e denaro, funzionano soltanto come differenti modi di esistere del valore stesso: il denaro come modo di esistenza generale, la merce come modo di esistenza particolare, per così dire, solo in travestimento» (Capitale, I: 187). Il capitale quindi non può essere ridotto al denaro come tale - ancora meno, naturalmente, alle merci come tali. Esso è in realtà il movimento del passaggio di queste forme l'una nell'altra per produrre più ricchezza astratta, plusvalore da reinvestire e far crescere in una spirale:

Il valore trapassa costantemente da una forma all'altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto automatico. Se si isolano le forme fenomeniche particolari assunte alternativamente nel ciclo della sua vita dal valore valorizzantesi, si hanno le dichiarazioni: capitale è denaro, capitale è merce. Ma di fatto qui il valore diventa soggetto di un processo nel quale esso, nell'assumere forma di denaro e forma di merce passando continuamente dall'una all'altra, altera anche la propria grandezza, e, in qualità di plusvalore, si stacca da se stesso in qualità di valore iniziale; valorizza se stesso [...] Come soggetto prepotente di tale processo, nel quale ora assume ora dismette la forma di denaro e la forma di merce, ma in questo variare si conserva e si espande, il valore ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo nel denaro. Quindi il denaro costituisce il punto di partenza e il punto conclusivo d'ogni processo di valorizzazione. Era cento sterline, ora è centodieci sterline, e così via. Ma qui il denaro, per sé preso, conta solo come una forma del valore, poiché esso ha due forme [...] Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto possano aver aspetto miserabile o per quanto possano aver cattivo odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente circoncisi, e per di più mezzi taumaturgici per far del denaro più denaro [...] Il valore diventa dunque valore in processo, denaro in processo, e come tale capitale (Capitale, I: 187-88).


Come è possibile pensare il processo di produzione come denaro che produce denaro anche quando il capitale ha abbandonato la forma esplicita di denaro e ha preso la forma travestita delle merci?. La risposta è la seguente. Nella analisi dell'origine del plusvalore, il capitale costante, che acquista i mezzi di produzione, viene dapprima assunto a valore zero da Marx; per quanto, in realtà, i beni di produzione agiscano quali portatori di lavoro morto che «succhia» il lavoro vivo dai lavoratori. In questo modo, la metamorfosi dalla forma di denaro in quella di merce è irrilevante per il capitale costante. Il capitale variabile, a sua volta, non interviene nel processo lavorativo capitalistico, né nella sua forma denaro né in quella di merce, perché i compratori dei mezzi di sussistenza spendono il proprio salario monetario, che fuoriesce dalla produzione come tale. Ciò che entra nel processo di produzione sono i lavoratori in carne e ossa che il monte salari monetario è in grado di comprare, e ciò che conta qui è l'estrazione del lavoro vivo. Il valore delle merci che essi producono è determinato dalla quantità di lavoro in esse contenuto, dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrre i valori d'uso. Questo valore è calcolato prima dello scambio effettivo come grandezza monetaria attraverso il suo prezzo atteso, che esprime direttamente — come lavoro sociale medio, come lavoro immediatamente sociale - il lavoro indirettamente sociale contenuto nelle merci. Abbiamo così l'«oggettualizzazione» del lavoro vivo espressa in una quantità monetaria prima dello scambio finale sul mercato delle merci. Avendo la merce denaro un potere d'acquisto dato, questa quantità nominale esprime soltanto ciò che il lavoro nelle sue dinamiche «fluide» ha «congelato» nelle merci prodotte: qualcosa che potrebbe essere ridotto «idealmente» ad una certa quantità di tempo di lavoro prima che la circolazione effettiva abbia luogo. Per la stessa ragione i salari monetari dei lavoratori sono conosciuti in quanto espressione di una data quantità di tempo di lavoro, sia perché per Marx (come già sappiamo) il denaro è una merce, sia perché (come mostrerò) per lui il livello dei salari è determinato dal lavoro necessario a produrre il paniere reale di sussistenza.

E chiaro allora che il capitale in qualsiasi delle sue forme è denaro «in fede e in verità». E tale perché, in qualsiasi delle sue forme, è «ricchezza astratta» che produce più «ricchezza astratta». La ricchezza astratta deve necessariamente prendere la forma del denaro: ma quest'ultima non è nient'altro che l'espressione esterna del lavoro astratto che rimane latente nella forma di esistenza «reale» delle merci create dal lavoro vivo, e che lotta per «venire all'esistenza» come denaro reale nella circolazione (ancora un tema rubiniano27). Il capitale non e né denaro né merci, e una sostanza automoventesi per la quale il denaro e le merci sono semplici forme. Questa sostanza automoventesi è il valore che crea più valore. In ultima istanza il valore non esibisce che una quantità di lavoro sociale «oggettualizzato». Il denaro nella circolazione «espone» questo valore, che però è già dato prima dello scambio finale come grandezza «latente» nelle merci.

La «formula generale del capitale», a differenza della lettura di Moseley, non mostra alcuna ragione perché si privilegi la spiegazione dei valori a partire dalla forma di denaro del capitale, piuttosto che da quella di merce come «travestimento» del denaro in movimento. Tanto più che nel primo libro del Capitale il cambiamento di forma non implica alcun cambiamento nella grandezza dei valori. Le due dimensioni, presupposto l'assunto sui prezzi relativi come prezzi «semplici», si rispecchiano l'una nell'altra senza tensioni. Marx sta costruendo un oggetto teorico di conoscenza, che ha senza alcun dubbio una dimensione quantitativa, ma tale dimensione quantitativa non è ancora pienamente specificata nel suo ammontare.

4.2 Marx sul valore della forza-lavoro


Per risolvere il problema della determinazione del salario dobbiamo analizzare le affermazioni esplicite di Marx relative al valore della forza-lavoro. Marx è cristallino, nel primo libro, nell'affermare che il salario di sussistenza è un «dato»: inoltre non lascia mai pensare che prendendo come presupposto il salario monetario, come pure fa, si contraddica il salario reale preso come dato conosciuto. Sebbene, a differenza delle altre merci, il valore della forza-lavoro incorpori un elemento storico e morale, Marx scrive, senza alcuna ambiguità, che «per un determinato paese in un determinato periodo, il volume medio dei mezzi di sussistenza necessari, è DATO» {Capitale, I: 204). Nella pagina precedente Marx precisava che «la produzione della forza-lavoro consiste nella riproduzione, ossia nella sua conservazione. Per la propria conservazione l'individuo vivente ha bisogno di una certa somma di mezzi di sussistenza. Dunque il tempo di lavoro necessario per la produzione della forza-lavoro si risolve nel tempo di lavoro necessario per la produzione di quei mezzi di sussistenza», e in questo senso «il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro» (Capitale, I: 203). La questione torna ancora a p. 265: il valore della forza-lavoro «come quello di ogni altra merce, è determinato dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione, se dunque la produzione dei mezzi di sostentamento quotidiani medi dell'operaio esige sei ore, questi deve lavorare in media sei ore al giorno per produrre quotidianamente la propria forza-lavoro, ossia per riprodurre il valore che ha ottenuto vendendola». E chiaro che qui il salario monetario deve dunque «riflettere» le merci che rientrano nella sussistenza valutate ai loro prezzi «semplici», ai c.d. valori-lavoro. Ancora a p. 567: «Il valore della forza-lavoro è determinato dal valore dei mezzi di sussistenza che per consuetudine sono necessari all'operaio medio. In un'epoca determinata di una società determinata, la massa di questi mezzi di sussistenza è data benché la sua forma possa variare,e va quindi trattata come grandezza costante. Quello che varia è il valore di questa massa. A p. 571: «Il valore della forza-lavoro è determinato dal valore di una determinata quantità di mezzi di sussistenza. Quello che varia con il variare della forza produttiva del lavoro, è il valore di questi mezzi di sussistenza, non la loro massa». In breve: ciò che è dato è il salario di sussistenza, una grandezza reale, il cui valore può certo cambiare, ma in seguito ad un cambiamento della quantità di lavoro necessario alla sua produzione. Il suo valore, a me pare, può cambiare anche in seguito al cambiamento della legge del prezzo e, quindi, della «esibizione» nel denaro del lavoro contenuto nelle merci, che fa sì che si debba valutare il paniere del consumo di sussistenza ai prezzi correnti, che deviano di norma dai prezzi «semplici».

Marx sa molto bene che i capitalisti devono anticipare i salari in forma monetaria prima che il processo di produzione inizi, sebbene in realtà il denaro funzioni qui come mezzo di pagamento e non come mezzo di acquisto, in quanto i salari sono pagati ai lavoratori soltanto dopo che il lavoro è stato svolto

Il prezzo della forza-lavoro è stabilito per contratto benché venga realizzato solo in un secondo tempo, come il canone d'affitto di una casa. La forza-lavoro è venduta benché venga pagata soltanto in un secondo tempo. Tuttavia, per una comprensione del rapporto nella sua forma pura, è utile presupporre per un momento che il possessore della forza-lavoro ne riceva subito il prezzo stabilito per contratto, ogni volta che la vende (Capitale, I: 208, traduz. modificata).


Egli sa bene anche che, nella pratica, i capitalisti provano costantemente ad abbassare il prezzo della forza-lavoro al di sotto del valore della forza-lavoro. Così, la quantità dei beni salario ricevuti dai lavoratori potrebbe scendere al di sotto del livello di sussistenza determinato. Nonostante ciò, egli vuole analizzare la nascita del plusvalore nella sua «purezza», e quindi assume che non ci sia, per così dire, inganno nei confronti dei lavoratori, e che essi ottengano ciò a cui hanno diritto secondo la «legalità» del mondo delle merci. In effetti, nel capitolo della terza sezione «La giornata lavorativa», come nei capitoli sulla «Cooperazione», «Divisione del lavoro e manifattura» e «Macchinismo e grande industria» della quarta sezione, Marx mostra come le lotte della classe lavoratrice ripetutamente impongano - «dal basso», per così dire, e in contrapposizione all'interesse dei capitalisti individuali - il paniere di sussistenza necessario alla riproduzione dei salariati. Inoltre, questo salario di sussistenza è preso da Marx come il salario (minimo) reale corrente, e le lotte dei lavoratori potrebbero riuscire ad innalzarlo28. Questa prospettiva «convenzionalista» e «conflittualista» del salario di sussistenza giustifica l'ipotesi, che è presente nel Capitale, secondo la quale l'ammontare del monte salari in termini monetari non è mai minore di quanto è necessario per acquistare il salario reale di sussistenza.

4.3 Una prospettiva luxemburghiana sul valore della forza-lavoro


Rosa Luxemburg, nel capitolo sul salario nella sua Introduzione all'economia politica, è stata probabilmente la più lucida interprete di questo punto della teoria di Marx29. Per comprendere la posizione marxiana in tutta la sua forza analitica, il punto di partenza è la differenza qualitativa, la differentia specifica, del lavoro salariato rispetto al lavoro feudale; è necessario mostrare come tale differenza qualitativa getti nuova luce sulle conseguenze della sussunzione reale del lavoro al capitale e sulla connessa estrazione del plusvalore relativo. Luxemburg sottolinea che nel feudalesimo ciò che è dato non è l'ammontare del prodotto che va ai servi della gleba, ma quello che va ai proprietari terrieri, così almeno in teoria la quota distributiva dei produttori diretti può crescere assieme al loro «sforzo» lavorativo. Nel capitalismo, al contrario, è data la sussistenza reale, e la quota che va ai lavoratori salariati è determinata principalmente e «automaticamente» dall'incessante progresso tecnico. La crescita conseguente della «forza produttiva» del lavoro abbassa di conseguenza il valore dei beni salario, il «lavoro necessario», e perciò anche la posizione relativa della classe lavoratrice rispetto alla classe capitalista per quel che riguarda la distribuzione del neovalore. Per Luxemburg si può avere una crescita del salario reale simultaneamente ad una crescita della forza produttiva del lavoro, ma la prima tende inevitabilmente a restare indietro rispetto alla seconda. Ne risulta una caduta del salario «relativo», e perciò della quota di lavoro vivo che torna ai lavoratori. E' questa, per Luxemburg, una vera e propria «legge» distributiva nel capitalismo.

Una comprensione piena della interpretazione della analisi del salario di Marx condotta da Luxemburg non può che essere incentrata sul contrasto tipico nel capitalismo tra il livello di sussistenza dei lavoratori, grandezza costante e predeterminata, e la incessante tendenza del capitale ad incrementare il plusvalore, e quindi il pluslavoro, nella massima misura possibile. Per citare ancora Marx:

La giornata lavorativa non è una grandezza costante, ma una grandezza variabile. Certo, una delle sue parti è determinata dal tempo di lavoro richiesto per la continua riproduzione dell'operaio, ma la sua grandezza complessiva cambia con la lunghezza o durata del pluslavoro. La giornata lavorativa è dunque determinabile, ma presa in sé e per sé è indeterminata. (Capitale, I: 266).


Quando le lotte dei lavoratori riescono a imporre limiti legali alla estensione della giornata lavorativa, bloccando il mero prolungamento della quantità totale delle ore lavorate, l'offensiva del capitale prende la duplice forma o di un incremento della grandezza «intensiva» della giornata lavorativa (attraverso una più alta intensità del lavoro) o di un aumento della forza produttiva del lavoro che anch'essa fa del pluslavoro un'entità variabile (qualcosa che si produce attraverso la concorrenza dinamica interna alle branche della produzione, e che conduce ad un progressivo abbassamento del valore «sociale» in tutte le industrie, e perciò anche ad un abbassamento del valore della forza-lavoro).

E importante comprendere come questa caduta tendenziale del salario relativo, che non è che l'altra faccia dell'estrazione del plusvalore relativo, è una caratteristica essenziale per comprendere il ragionamento di Marx sulla dinamica della distribuzione del reddito nel modo di produzione capitalistico. Questa interpretazione ci permette innanzi tutto di rifiutare l'idea diffusa che la teoria del valore-lavoro, in quanto teoria dello sfruttamento, implichi che nel capitalismo vi sia un peggioramento della condizione dei lavoratori dal punto di vista del valore d'uso. Questo è chiaramente insostenibile dal punto di vista di Luxemburg (e Marx) perché il salario relativo può ridursi mentre al contempo sta aumentando il salario reale. Anche ammettendo una caduta del salario monetario


a forza produttiva del lavoro in aumento, il prezzo della forza-lavoro potrebbe essere in costante caduta, mentre la massa dei mezzi di sussistenza dell'operaio potrebbe contemporaneamente e costantemente aumentare: però relativamente, cioè a paragone del plusvalore, il valore della forza-lavoro scenderebbe costantemente e così si allargherebbe l'abisso fra le condizioni di vita dell'operaio e quelle del capitalista (Capitale, I: 571).


Se e quando questo impoverimento relativo viene contrastato, ciò non è altro che il risultato delle lotte della classe lavoratrice, non una tendenza automatica ed interna alla meccanica capitalistica.

Questo modo di leggere il salario in Marx ci consente anche di intendere come Marx metta in relazione, non solo l'estrazione e la distribuzione del plusvalore, ma anche l'accumulazione capitalistica e la distribuzione del reddito: «la grandezza dell'accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario quella dipendente, non viceversa» (Capitale, I: 679). La verità che si cela dietro questa proposizione è duplice. In primo luogo, sebbene in ogni periodo il salario reale sia da prendersi come dato, l'accumulazione capitalistica è costituita da un movimento dinamico ed evolutivo che, da un lato, spinge in basso il salario relativo e, dall'altro, può tollerare, nel tempo, un incremento nel salario reale prodotto dal conflitto sociale: la crescita del salario reale può essere del tutto compatibile con una più alta redditività del capitale e con una ulteriore accumulazione. In secondo luogo, l'accumulazione capitalistica - in quanto implica un cambiamento qualitativo dei metodi di produzione, e non si limita semplicemente alla crescita quantitativa estensiva - agisce su due lati: sulla domanda e sull'offerta di lavoro. L'accumulazione capitalistica incrementa la prima e nello stesso momento rende ridondante parte della seconda, creando un esercito industriale di riserva, così da inibire la pressione sui salari.

Si deve notare, in ogni caso, che questa dipendenza «assoluta» dei lavoratori dalla classe capitalista può essere, in alcune circostanze storiche, capovolta. La determinazione dell'offerta dalla domanda - la «legge della popolazione» specificamente capitalistica - può essere ribaltata quando la «contro-produttività» potenziale dei lavoratori diviene attuale: cioè quando le loro lotte sono forti abbastanza da interrompere la tendenza all'abbassamento del salario relativo, e da limitare il comando del capitale nel processo lavorativo. Questo è ciò che è avvenuto durante gli anni sessanta e settanta, secondo alcune versioni «produttiviste» della teoria della crisi da compressione del profitto: mi riferisco qui alla versione datane dal primo Aglietta piuttosto che a quella di Glyn-Sutcliffe30. Questa prospettiva è abbastanza coerente con il Marx che sto presentando. Il conflitto all'interno del processo lavorativo capitalistico è il nucleo della valorizzazione ed è esattamente ciò a cui si riferisce gran parte del primo libro del Capitale. La lunghezza della giornata lavorativa sociale, l'intensità del lavoro, la capacità del capitale di «sfruttare» l'incremento potenziale della forza produttiva del lavoro: tutti questi aspetti sono «soggetti alla determinazione» da parte della lotta di classe nella produzione, ma in sé e per sé sono ancora «indeterminati», prima almeno della considerazione delle dinamiche interne al processo capitalistico di lavoro visto come «terreno contestato». Per determinarli il capitale deve vincere l'antagonismo dei lavoratori nel momento della produzione, ed è questo infatti l'argomento principale del primo libro (qualitativamente e quantitativamente).

Possiamo concluderne che l'insistenza di Moseley sul fatto che nel primo libro i «valori» sono «dati», nel senso che sono il dato conosciuto, non può neanch'essa essere accettata. Nella analisi di Marx relativa all'estrazione del plusvalore (assoluto o relativo), l'ammontare complessivo (estensivo o intensivo) del tempo di lavoro oppure il valore delle merci che entrano nel paniere di sussistenza deve essere considerato variabile. Il primo libro ha come oggetto principale proprio la «formazione» del valore attraverso i processi intrecciati della lotta di classe e della concorrenza dinamica. La prospettiva di Moseley non cessa di essere alquanto problematica se invece i «valori» vengono presi come «dati» in un senso più debole, secondo il quale nel primo libro le quantità di lavoro sarebbero le «variabili indipendenti», che possono variare, per così dire, «dall'esterno» rispetto alle grandezze monetarie come «variabili dipendenti». Si è già visto nel paragrafo precedente come la necessaria riformulazione della prospettiva «macro-monetaria» marxiana comporta che il denaro come capitale monetario, cioè in quanto finanziamento bancario alla produzione, entri nella stessa costituzione dei valori prima che la produzione immediata abbia inizio, sicché l'esistenza di una qualche «sostanza» di valore (socialmente omogenea) dipende in realtà da questa ante-validazione monetaria.

4.4 Il potere d'acquisto del capitale monetario e il valore della forza-lavoro in una prospettiva in cui il denaro non è una merce

Traiamo alcune conseguenze dal ragionamento che precede, in una ottica meno interpretativa e più volta alla ricostruzione. Se il salario reale viene assunto come dato e costante, in quanto salario di sussistenza, all'inizio del circuito capitalistico, allora il valore del capitale monetario può essere preso come un dato in termini di quantità di tempo di lavoro, anche nel caso in cui il denaro non sia una merce. Il potere d'acquisto del capitale variabile monetario nella fase di apertura del circuito monetario marxiano - quello che possiamo definire «il valore del denaro come capitale monetario» -è regolato dal tempo di lavoro contenuto nei mezzi di sussistenza. Dato il salario reale medio giornaliero, il potere d'acquisto del capitale variabile è espresso dal numero di lavoratori acquistati da quella grandezza monetaria, e quest'ultima grandezza dipende dal paniere di sussistenza. Dato il «grado di sfruttamento» atteso, la forza-lavoro di questi lavoratori può essere idealmente «trasformata» in lavoro vivo, e quindi nel neovalore prodotto nel periodo.

Devono qui essere messi in evidenza due punti. In primo luogo, nella produzione immediata l'astrazione del lavoro è, come Marx afferma chiaramente nei Lineamenti, «in divenire». E un'astrazione che è «latente» nel lavoro «oggettualizzato» nelle merci prodotte, in attesa di una validazione sul mercato finale delle merci. Da questo punto di vista, tale astrazione è possibile soltanto grazie al finanziamento bancario che ante-valida la produzione attesa di valore e di plusvalore. E infatti solo questo processo monetario che garantisce che i lavori concreti posseggano una qualità sociale omogenea, che la prestazione lavorativa sia anche erogazione di lavoro astratto. Questo modo di vedere le cose ci obbliga evidentemente ad abbandonare la teoria del denaro-merce. In secondo luogo, poiché è soltanto nella circolazione finale che il lavoro astratto «viene ad esistere», la validazione monetaria ex post ha luogo soltanto quando la domanda effettiva fissa reddito e prezzi di mercato, indipendentemente dal fatto che questi ultimi gravitino o meno attorno ai prezzi di produzione. Di conseguenza, in un impianto categoriale dove il denaro non è merce, il potere d'acquisto del denaro speso nella fase di chiusura del circuito monetario marxiano - quello che possiamo chiamare il «valore del denaro come reddito» - è definito soltanto nel momento dello scambio finale.

Ciò significa, naturalmente, che l'affermazione di Moseley, secondo la quale il «valore del denaro» deve essere assunto come dato e costante, non può essere più accettata una volta che si abbandoni l'idea marxiana originaria del denaro come merce. Questa non è una critica; è soltanto una conseguenza logica di quanto sostenuto sin qui. Significa che, per essere coerente, il ragionamento di Moseley dovrebbe apertamente assumere la prospettiva del denaro-merce quale parte integrante della teoria del valore-lavoro, altrimenti il valore del denaro sarà fissato solo compiuta la fase finale del circuito. Dalla diversa prospettiva che qui sto proponendo, il valore del denaro ex post, può essere preso come noto ex ante soltanto se si assume che le aspettative di breve termine delle imprese relative alla loro capacità di vendere il prodotto ai prezzi monetari «ideali» siano confermate nel mercato delle merci ai prezzi monetari «reali». E' ciò che fa Marx nei tre libri del Capitale, con poche eccezioni.

Se si accetta questo filo di ragionamento, la sequenza di Marx regge perfettamente all'interno della mia «ricostruzione»: i prezzi monetari «ideali» rappresentano soltanto il lavoro astratto «congelato» nelle merci - sono lavoro «oggettualizzato», la cui socialità attesa dovrà trovare validazione finale nel denaro come equivalente generale, come potere d'acquisto generale. La sequenza ha natura monetaria in un senso più forte rispetto a quello della esposizione originaria di Marx, perché adesso il lavoro vivo acquisisce la sua qualità sociale solo per mezzo di una conferma monetaria ex ante, per il tramite del finanziamento bancario, e non soltanto grazie alla conferma ex post per il tramite del denaro come equivalente generale.


5. «Macro» e «micro» nel primo libro del
Capitale e nel Capitolo sesto inedito

Stando così le cose, è chiaro che due dei pilastri dell'argomentazione di Moseley non possono essere accettati. Nei paragrafi precedenti ho presentato una solida argomentazione testuale che dimostra, senza ambiguità, che Marx nel primo libro del Capitale assume il valore della forza-lavoro come «dato» in termini reali. Ho poi chiarito che, anche se il valore del denaro è «dato» prima della analisi della valorizzazione e della stima del prezzo, come giustamente sottolinea Moseley, questo rimane vero solo se si mantiene la originaria teoria marxiana del denaro-merce: un punto, questo, che Moseley non ha ancora chiarito adeguatamente. Per mio conto, ritengo che la teoria del denaro-merce sia insufficiente in una indagine del capitalismo come teoria monetaria della produzione: essa può essere accettata soltanto come punto di partenza del tutto provvisorio nella costruzione sistematica del Capitale, adeguato soltanto quando il rapporto sociale capitale/lavoro e la produzione capitalistica di merci non sono ancora il centro della analisi, e quest'ultima si limita ancora alla circolazione generalizzata di merci la cui natura capitalistica va ancora fondata. Se però ci muoviamo verso un approccio con moneta segno, allora il valore del denaro nel senso marxiano viene ad essere determinato soltanto ex post, quando la produzione di merci viene venduta effettivamente sul mercato. Il valore del denaro può essere assunto come una variabile nota ex ante, all'apertura del circuito monetario, soltanto sulla base di assunzioni molto precise relative all'esito atteso della lotta di classe nella produzione e della «attualizzazione» del plusvalore che prima della circolazione finale è solo in potenza, ideale.

Dobbiamo adesso passare a considerare la posizione di Moseley circa la supposta natura «macroeconomica» dell'argomentazione marxiana nel primo libro. Come ho affermato nella introduzione, condivido con Moseley l'idea che vada proposta una lettura «macromonetaria» della teoria marxiana del valore. Tuttavia, come già in precedenza per quel che riguardava gli aspetti monetari della teoria di Marx, sono in disaccordo con Moseley: in questo caso, ciò che ci divide riguarda tanto l'evidenza testuale quanto il significato da dare ad un approccio autenticamente «macroeconomico». Moseley deve in effetti tenere conto del fatto che la natura «macro» del primo libro, come deve scrivere ripetutamente, non è ovvia. La sua strategia è allora quella d'interpretare la circostanza indiscutibile che Marx analizza, molto spesso, il processo di valorizzazione al livello del capitale individuale, come se metodologicamente queste conclusioni potessero essere estese senza problemi al capitale complessivo - cioè come se il capitale individuale potesse essere inteso come un capitale «rappresentativo» dell'aggregato. Ma questo è, naturalmente, esattamente ciò che l'economia dominante intende per «macro»: in altri termini, la dimensione macroeconomica come nient'altro che la mera somma degli elementi microeconomici che la costituiscono.

Dal mio punto di vista, la dimensione macroeconomica è qualcosa di più della mera aggregazione delle sue parti costituenti. La fondazione «macroeconomica» e i suoi risultati non sono soltanto antecedenti, ma anche opposti alla logica microeconomica: in un certo senso la «micro» distorce e capovolge la prospettiva «macro». In questo modo di vedere le cose, la priorità e l'autonomia della logica «macroeconomica» stanno a significare che l'analisi deve prima scoprire le leggi di sopravvivenza e di crescita del sistema, e solo in seguito mostrare come i comportamenti individuali inverino o contraddicano quelle «leggi» di riproduzione. L'originalità della posizione di Marx, se la traduciamo in un dizionario concettuale a lui posteriore, non sta soltanto nella sua fondazione macro-sociale della microeconomia, ma anche nella sua accurata indagine del meccanismo micro-concorrenziale che realizza la tendenza sistemica: sta cioè nel suo procedere circolare, dalla «macro» alla «micro», e dalla «micro» alla «macro». Questi due movimenti non possono non scomparire in una lettura come quella di Moseley, in questo simile agli altri nuovi approcci alla teoria monetaria marxiana: dove il capitale «totale» non è altro che la somma dei capitali individuali; e dove a questo punto, in modo del tutto arbitrario, questa supposta dimensione «macro» viene presa come un «dato» nell'analisi del comportamento «micro» degli agenti. La questione non può essere sviluppata in modo adeguato nello spazio che mi rimane. Ciò che mi limiterò a fare sarà fornire alcuni chiarimenti preliminari sul modo in cui Marx introduce la dimensione «macroeconomica» nel primo libro. Questo modo di procedere è giustificato dalla circostanza che non sono numerose, anche se sono trasparenti ed esplicite, le citazioni che ci permettono di comprendere come e perché la logica «macro» è, in alcuni casi, opposta e invertita rispetto a quella «micro». E comunque significativo che questi passi discutano proprio la determinazione del salario per la classe lavoratrice.

Nell'analisi della produzione del plusvalore assoluto, Marx sviluppa esplicitamente la propria argomentazione in un modo «macro», e in questi luoghi sembra che il suo approccio possa essere in effetti letto nei termini di una semplice aggregazione. Marx scrive: «Il lavoro che viene messo in movimento, giorno per giorno, dal capitale complessivo di una società può essere considerato un'unica giornata lavorativa. Se, per esempio, il numero degli operai è di un milione e la giornata lavorativa media di un operaio di dieci ore, la giornata lavorativa sociale sarà di dieci milioni di ore» (Capitale, I: 345). In questa direzione vanno in genere le citazioni di Moseley. Questa lettura può trovare conferma se guardiamo come è definito in seguito il plusvalore prodotto da un dato capitale: esso è «uguale al plusvalore fornito dal singolo operaio moltiplicato per il numero degli operai occupati nello stesso tempo [...] è chiaro che la giornata lavorativa complessiva di un numero piuttosto considerevole di operai occupati nello stesso tempo, divisa per il numero degli operai è in sé e per sé una giornata di lavoro sociale medio (Capitale, I: 363-64). Sul fondamento della divisione macrosociale tra la classe capitalista e classe lavoratrice, assumendo che il processo lavorativo vada avanti senza intoppi secondo le attese, e escludendo dall'analisi tanto la concorrenza dinamica quanto il cambiamento strutturale, Marx può costruire la giornata di lavoro sociale come niente altro che la somma dei tempi di lavoro socialmente necessari spesi nelle differenti branche della produzione. Da questo punto di vista, l'analisi dell'estrazione del lavoro vivo dai lavoratori individuali da parte dei capitalisti individuali potrebbe essere senza problemi estesa al capitale totale (tenendo però sempre a mente che ciò che viene addizionato sono quantità di tempo di lavoro socialmente necessario, e che deve ancora essere chiarito che cosa significhi con precisione questo «socialmente»).

Le cose però cambiano negli ultimi capitoli - e, come anticipato, è significativo che questo accada proprio nello studio degli aspetti monetari del processo capitalistico e della natura nascosta del salario. Si veda, per esempio, la seguente citazione:

L'illusione generata dalla forma di denaro scompare subito, appena invece del singolo capitalista e del singolo operaio vengono considerate la classe capitalista e la classe operaia. La classe capitalista dà costantemente alla classe operaia, in forma di denaro, assegni su una parte dei prodotti che questa ha prodotto e che la classe capitalista si è appropriata. Gli operai restituiscono anch'essi costantemente quegli assegni alla classe capitalista sottraendole così la parte del proprio prodotto che spetta loro. La forma di merce del prodotto e la forma di denaro della merce travestono la transazione. Dunque il capitale variabile è soltanto una forma storica fenomenica particolare nella quale si presenta il fondo dei mezzi di sussistenza ossia il fondo di lavoro del quale l'operaio abbisogna per il proprio mantenimento e la propria riproduzione, e che egli deve sempre produrre e riprodurre da sé in tutti i sistemi della produzione sociale, (Capitale, I: 623, traduzione modificata).
 
Qui è ovvio che il capitale variabile, in quanto anticipo monetario, nasconde l'essenziale processo di classe della distribuzione del reddito, che può essere compreso soltanto una volta che il salario reale - si badi: non del lavoratore individuale, ma della intera classe lavoratrice - è preso come un dato. Come in altri modi di produzione precapitalistici, «il fondo dei mezzi di sussistenza» deve essere preso come un presupposto noto, come la «la parte del proprio prodotto che spetta loro» - la differentia specifica del capitalismo è centrata piuttosto sulle dinamiche della durata (intensiva e/o estensiva) del tempo di lavoro e della forza produttiva dei lavoratori. E chiaro inoltre che questa verità può essere afferrata solo se, per parafrasare Marx «noi non contempliamo più il singolo capitalista e il singolo operaio, ma la classe capitalista e la classe operaia, non più il processo isolato di produzione della merce, ma il processo di produzione capitalistico in pieno movimento e in tutto il suo ambito sociale» (Capitale, I: 627). Poiché la logica «macro» e quella «micro» sono opposte, e la seconda distorce la prima, l'indagine non può che essere incardinata su metodo ben diverso da quello inizialmente appropriato per la produzione di merci: «invece del capitalista singolo e dell'operaio singolo teniamo presente il complesso, la classe dei capitalisti e di fronte ad essa la classe degli operai» (Capitale, I: 642). In questo modo, per utilizzare una frase di Marx nella stessa pagina, «la cosa si presenta in maniera del tutto differente» dalla prospettiva «micro». Infatti, traducendo nel linguaggio contemporaneo, il percorso di Marx nel primo libro è stato da (ciò che inizialmente appare come) un'analisi del processo di produzione dalla prospettiva «micro» e «individuale» alla costruzione teorica, da una prospettiva «macro-sociale», della produzione e della riproduzione del plusvalore nel suo complesso, e poi della costituzione e riproduzione dello stesso rapporto di classe. Di fatto, abbiamo qui un esempio del metodo, che Marx riprende da Hegel, del presupposto posto.


In effetti, una volta che si prenda in considerazione l'intera struttura teorica del primo libro del Capitale, emerge chiaramente che l'estrazione conflittuale del lavoro vivo nella produzione, in quanto terreno contestato, piuttosto che essere un processo «micro», è un processo «macro», incluso in un più largo e complesso rapporto sociale tra capitale e lavoro. Questa relazione sociale fondamentale - la cui analisi è al centro del primo libro del Capitale - comprende la contrattazione sul cosiddetto «mercato del lavoro», che a sua volta dipende dai rapporti infra-capitalistici tra il capitale monetario e il capitale industriale. Il fondamento della tesi, secondo la quale il reddito monetario non rappresenta nient'altro che lavoro astratto, segue necessariamente dall'idea che la classe capitalistica nel suo complesso può ottenere ricchezza astratta soltanto se è in grado di controllare l'estrazione del lavoro vivo dalla classe lavoratrice nel suo complesso. Una volta che questo punto sia stato fermamente afferrato, si può allora comprendere che è questo «macro» processo, di divisione di classe, che, attraverso la lotta di classe, determina o una più alta intensità del lavoro, o un prolungamento della giornata lavorativa sociale, o un incremento della sua forza produttiva. Si noti comunque che quest'ultimo si ottiene attraverso la costante ricerca di un extraprofitto - una concorrenza non tra, ma entro le industrie, che tendono a differenziare i propri saggi di profitto. Questa concorrenza dinamica opera qui come il processo «micro» che definisce la configurazione produttiva e lo stato delle tecniche, quindi come ciò che alla fine determina gli stessi valori delle merci.

Ne discende che i «valori» non soltanto sono costituiti monetariamente, attraverso l'ante-validazione del finanziamento bancario: come si è sottolineato nel paragrafo precedente, essi sono anche l'esito di un processo sociale, la concorrenza infrasettoriale che definisce il tempo di lavoro socialmente necessario; possono dunque essere presi come «dati» soltanto temporaneamente. Il conseguente cambiamento strutturale non fa che realizzare la tendenza sistemica che, per Marx, è implicita nel rapporto sociale tra capitale e lavoro: ma quest'ultima non si realizzerebbe senza l'operare di questo tipo di concorrenza. Il Capitale, allora, può essere letto come una macro-fondazione dei micro-comportamenti, in una spirale: una macro-fondazione costruita su di un concetto di concorrenza profondamente diverso tanto da quello classico quanto da quello neoclassico pur con tutte le loro differenze e controversie.

Questa integrazione reciproca della prospettiva macro-sociale con il micro-meccanismo che la realizza è un'altra ragione per cui, nel primo libro, le quantità di lavoro non possono essere prese semplicemente come «date», e del perché il sistema «macro» non può essere ridotto alla aggregazione dei «micro» processi di valorizzazione. L'adozione di una prospettiva macro-sociale come opposta a quella micro-individuale è chiarissima nella trattazione del salario nel Capitolo sesto inedito. Analizzando l'origine del plusvalore al livello «individuale», il teorico è costretto a guardare al salario soltanto come ad una grandezza monetaria, la cui controparte dipende dal prezzo delle merci e dalle scelte individuali di consumo dei lavoratori. Quando invece il processo capitalistico è descritto nei termini dell'intero sociale le cose cambiano drasticamente.

Il lavoratore «libero», scrive Marx, riceve il salario «in forma di denaro, di valore di scambio, forma sociale astratta della ricchezza [...] nient'altro che la forma argentata o dorata, cuprea o cartacea, dei mezzi di sussistenza in cui esso deve costantemente risolversi» (Capitolo sesto inedito: 66). E' il lavoratore che converte il denaro nei valori d'uso che desidera: e «come possessore di denaro, come acquirente di merci, egli sta nei confronti dei venditori di merci nello stesso rapporto che tutti gli altri acquirenti» (Capitolo sesto inedito: 67). Questa è la prospettiva «micro».

Marx aveva però scritto, poche pagine prima, in un brano che Moseley stesso cita, ma con tagli che ne fanno perdere la sostanza del ragionamento: «se consideriamo l'intero capitale, cioè l'insieme degli acquirenti di forza-lavoro, da un lato, e l'insieme dei venditori di forza-lavoro, cioè l'insieme dei lavoratori, dall'altro» allora «I'intera ricchezza oggettiva si contrappone [al lavoratore] come proprietà del possessore di merci», le imprese capitaliste. «Che il capitalista n. 1 possieda denaro e comperi mezzi di produzione dal capitalista n. 2, mentre il lavoratore, col denaro ricevuto dal capitalista n. 1, compera mezzi di sussistenza dal capitalista n. 3, non cambia in nulla il fatto che i capitalisti 1, 2, 3 sono tutti insieme proprietari esclusivi del denaro, dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza» (Capitolo sesto inedito: 34). Cosi anche nell'atto iniziale della circolazione, quando il capitale monetario sta di fronte ai lavoratori come forza-lavoro sul mercato del lavoro, e quindi prima del reale processo di produzione, «ciò che imprime ad essi [al denaro e alle merci] come suggello un carattere di capitale non è né la natura di denaro del primo, né la specifica natura, il valore d'uso materiale delle seconde come mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, ma il fatto che quel denaro e quelle merci, mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, si ergono di fronte alla forza-lavoro spogliata di qualunque ricchezza materiale come potenze autonome impersonate dai loro proprietari» (Capitolo sesto inedito: 34-35). E conclude:

Le merci figurano come acquirenti di persone. Il compratore di forza-lavoro non è se non la personificazione di un lavoro oggettualizzato che presta ai lavoratori una parte di se stesso, sotto forma di mezzi di sussistenza, per incorporare all'altra parte di se stesso forza-lavoro viva, e, grazie a questa incorporazione, conservarsi nella sua integrità e crescere al di sopra della sua massa originaria. Non è il lavoratore che acquista mezzi di sussistenza e mezzi di produzione; sono i mezzi di sussistenza che acquistano il lavoratore per incorporarlo ai mezzi di produzione (Capitolo sesto inedito: 35, traduzione modificata).


Marx non poteva essere più chiaro.


Al posto di una conclusione


Fred Moseley sottolinea, a ragione, gli aspetti «macro-monetari» della teoria di Marx. E vero che per Marx il valore e il denaro sono inestricabilmente connessi. E vero anche che alcuni punti dell'esposizione possono, oggi, essere compresi come «macroeconomici» nella loro struttura concettuale. Ma Moseley non sottolinea in modo adeguato come la formulazione marxiana originaria della teoria monetaria del valore-lavoro sia costruita sull'idea del denaro come merce, che è a fondamento della affermazione secondo la quale il valore del denaro è già «dato» all'inizio del ciclo del capitale monetario, una tesi che si fonda inoltre sullo scambio in condizione di baratto tra merce e oro al punto di origine di quest'ultimo. Inoltre Moseley non ha preso in considerazione, almeno fino ad oggi, le varie citazioni, prive di ambiguità, dalle quali risulta con chiarezza che la teoria del salario di Marx si basa sull'idea che il salario reale di sussistenza debba essere preso come una grandezza nota alla apertura del circuito. Più in generale, Moseley considera le quantità aggregare di «denaro» (capitale costante e variabile più plusvalore) come un semplice velo delle quantità di lavoro che esse rappresentano; e interpreta la prospettiva «macro» come la mera somma dei capitali e dei lavoratori individuali.

Ho cercato di presentare una ricostruzione alternativa di Marx, dove la fondazione macro-monetaria della microeconomia è ridefinita all'interno di una teoria in cui il denaro non e una merce.

Ho affermato che l'antevalidazione bancaria della valorizzazione è un presupposto necessario per l'omogeneità sociale dei vari lavori vivi spesi nei differenti processi lavorativi capitalistici. Grazie a questo, ciascuno di essi è parte dello stesso lavoro astratto (latente) prima della circolazione delle merci (che deve essere definitivamente validato ex post attraverso l'equivalente generale). Questo mi ha permesso di mantenere l'esplicita sequenza marxiana che va dal valore espresso come denaro ideale al valore espresso come denaro reale, dove il denaro è «forma fenomenica necessaria» di nient'altro che quantità di tempo di lavoro. Abbiamo qui una nuova prospettiva dello «sfruttamento» capitalistico che interessa la giornata lavorativa nel suo complesso, una prospettiva che riesce, meglio di quella di Marx, a fondare la tesi che il (neo) valore prodotto è l'«oggettualizzazione» e la «materiatura» di nient'altro che lavoro (vivo) estratto conflittualmente nella produzione immediata all'interno dell'economia nel suo complesso. Inoltre ho mostrato come questa prospettiva «macro» sia necessaria per comprendere adeguatamente la teoria marxiana della determinazione del salario e la dipendenza della distribuzione dalla accumulazione. Seguendo questa linea di ragionamento, ho provato che il consumo reale di tutti i lavoratori, deciso di fatto (sebbene inconsciamente) dalla classe capitalista, sia rigorosamente marxiano, sebbene questo sembri contraddire ciò che suggerisce la prospettiva «micro».

È interessante notare che, in questa diversa prospettiva, gli aspetti «monetari» della teoria marxiana sono l'esempio più importante di ciò che Schumpeter (1954: 276-78) definiva analisi monetaria nella sua Storia dell'analisi economica: una analisi nella quale il denaro e la moneta non sono aspetti secondari, bensì sono introdotti nel momento fondativo della struttura analitica. Non possono essere ridotti a velo dei prodotti in quanto merci, perché hanno una vita ed una rilevanza loro proprie, e segnano tutte le caratteristiche essenziali del processo capitalistico, a partire dalla stessa costituzione e determinazione quantitativa delle grandezze reali. E interessante inoltre osservare come in Marx si trovi già quella idea tipica di Keynes secondo la quale la logica «macro» non soltanto precede, ma si oppone e in molti casi capovolge la logica «micro».

Ma come interpretare, allora, il fatto che nel Capitale siano dati sia il monte salari monetario che la sussistenza reale? E questo un segnale di una contraddizione implicita nel sistema marxiano, che Marx stesso non aveva afferrato completamente? Non credo; ed anche assumendo una tale linea argomentativa, questa supposta contraddizione dovrebbe essere superata all'interno della teoria macro-monetaria del valore così come è stata da me delineata. Una volta che il primo libro del Capitale venga interpretato e ricostruito lungo le linee di questo saggio, e una volta che si sia tenuto conto del risultato della trasformazione dei valori di scambio nei prezzi di produzione31, possiamo guardare al processo capitalistico in un modo diverso da quello consueto. Il circuito del capitale monetario si «apre» e si «chiude» con grandezze monetarie. La quantità di lavoro «esibita» dal capitale costante e variabile (intesi come quantità di moneta date) deve essere determinata applicando ai mezzi di produzione e ai mezzi di sussistenza i prezzi di produzione. Nello stesso tempo, il valore prodotto complessivamente nell'economia non è nient'altro che lavoro «esibito» dal capitale costante più il lavoro vivo estratto dalla classe capitalista da tutti i lavoratori, il neo valore, esibito nel reddito monetario. Sottraendo da questa grandezza il lavoro rappresentato dal monte salari monetario, abbiamo il plusvalore come una quantità di lavoro «esibito» nei profitti monetari lordi. Ma nascosta dietro questa deduzione vi è la divisione reale del prodotto complessivo, realizzata attraverso il comportamento inconscio che porta la classe capitalista a fissare il salario reale dato per la classe lavoratrice, il cui livello minimo è la «sussistenza». In altre parole, dietro il lavoro «esibito» nei salari monetari e nei profitti monetari lordi, ritroviamo la divisione del prodotto-merce complessivo che deriva dalla lotta di classe nella produzione, e che corrisponde alla divisione della giornata lavorativa sociale tra il «lavoro necessario» congelato nei mezzi di sussistenza (il tempo di lavoro necessario alla loro produzione) ed il «pluslavoro» residuale, una volta che il lavoro necessario sia sottratto dal lavoro vivo prestato dai lavoratori.

L'apparenza - più precisamente, il monte salari monetario dato e i profitti monetari lordi, un una volta «tradotti» nella quantità di lavoro che tali grandezze sono in grado di «comandare» sul mercato a seconda della regola dei prezzi adottata - maschera il processo essenziale: la suddivisione «macro» e di classe del prodotto-merce reale tra le classi. Il processo «essenziale» di sfruttamento così concepito corrisponde con tutta evidenza a quello che leggiamo nel primo libro del Capitale. Un processo essenziale che è colto pienamente e senza approssimazioni dal ragionamento in «valori», cioè attenendosi strettamente alla assunzione marxiana relativa alla «legge del prezzo» in quel volume: una assunzione necessaria all'analisi della «formazione del capitale» nella sua purezza. Questo processo essenziale, in quanto nucleo della valorizzazione capitalistica, non viene modificato dalle successive concretizzazioni, e rimane il medesimo nel prosieguo della costruzione sistemica complessiva tipica di Marx.


*In AA.VV. Marx in questione, La Città del Sole, 2009, a cura di Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi

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Note:

1 Cfr. Moseley (1993, 1997, 2002, 2003 e 2004).

2 Per una rassegna più estesa del pensiero economico marxiano, cfr. Bellofiore (2001).

3  I più rilevanti sono Bellofiore (1989) [cfr., in italiano, Bellofiore (1993)] e Bellofiore e Finelli (1998) [cfr., in italiano, Bellofiore (1996)].

4  Sebbene l'aspetto finanziario del quadro che sto fornendo non sia sviluppato nel primo libro del Capitale e sia esplicitamente introdotto soltanto nel terzo libro, nella mia prospettiva deve esser considerato fin dall'inizio come una caratteristica determinante del rapporto sociale capitalistico. Tale questione sarà chiarita in seguito in questo saggio. Per un'esposizione più dettagliata della posizione secondo la quale Marx è un precursore della teoria del circuito monetario, si vedano i saggi raccolti in Bellofiore (1997) e soprattutto Graziani (1983a, 1983b). Cfr. inoltre Bellofiore (2004). Per una breve rassegna della teoria del circuito monetario, cfr. Bellofiore e Seccareccia (1999).

5 Che le imprese divideranno con i capitalisti finanziari, i capitalisti mercantili, i proprietari terrieri e i rentier. Non tratterò qui la questione di come una maggiore quantità di denaro (in quanto maggiore ricchezza astratta) prodotta dai lavoratori salariati si realizzi effettivamente nella circolazione in una quantità di denaro (come mezzo di scambio) maggiore di quella immessa nel sistema all'inizio del circuito dai capitalisti monetari (attualmente le banche). Il modello iniziale di Marx non sembra essere corretto dal punto di vista della teoria del circuito monetario, secondo la quale la totalità delle imprese può recuperare, alla fine del circuito, soltanto il medesimo ammontare di finanziamento che gli è stato fornito dal sistema bancario. Suggerimenti interessanti che possono fornire una risposta migliore vengono da Luxemburg e Kalecki: tuttavia questa è un'area ancora aperta alla ricerca.

6 Questa lettura è molto diversa da quella tradizionale proposta da Dobb (1937) e Sweezy (1942), ed è fortemente influenzata da Colletti (1969) e Napoleoni (1972). Su questo cfr. Bellofiore (1999).

7 In molte traduzioni, inclusa quella italiana, si tende a considerare equivalenti le nozioni di «forza produttiva» e di «produttività» del lavoro. Così non è in Marx. Spesso, «produttivo» ha a che vedere con la produttività di plusvalore del lavoro comandato dal capitale. Quando attiene alla dimensione del valore d'uso, la «produttività» del lavoro può accrescersi per un tempo di lavoro più esteso o più intenso.

8 Nelle citazioni da Marx presenti in questo saggio, il corsivo, assente nella traduzione inglese e presente in quella italiana, è stato ripristinato. Il corsivo è fondamentale per comprendere meglio l'andamento del pensiero marxiano. Per tale ragione, quando voglio evidenziare alcune parti le scriverò in maiuscoletto, in modo tale che il lettore possa distinguere i miei accenti da quelli di Marx.

9 Questa prospettiva è sviluppata nel mio commento a de Brunhoff in Bellofiore (1998 e in Realfonzo-Bellofiore (2003). Nel testo utilizzerò quasi sempre l'espressione «teoria del denaro come merce» e non la più diffusa «teoria della merce denaro», o della merce-moneta. La ragione sta nel sottolineare la differenza da Ricardo. In Ricardo, il denaro è una merce perché esso è simile a tutte le altre merci, poiché ha in comune con loro il fatto di essere prodotto del lavoro, senza alcuna qualificazione particolare. In Marx il denaro è merce in quanto esso è escluso da, ed opposto a, l'intero mondo delle merci. E questa la ragione per cui il lavoro concreto che produce il denaro come merce è il solo tramite attraverso il quale il lavoro astratto «latente» in tutte le altre merci può alla fine «giungere all'esistenza».

10 In altri saggi, invece di valore «intrinseco» ho utilizzato (seguendo Napoleoni, e in pochi casi lo stesso Marx) valore «assoluto», ma anche valore «potenziale» (cfr. Bellofiore 1996). Potenziale va inteso nel senso di latente e ideale. Questa «potenzialità», come provo a mostrare in questo saggio (e nell'altro saggio appena citato), deve essere vista nel contesto più ampio della realtà del valore in tutte le fasi del circuito capitalistico. Inoltre, è trattando tutto il lavoro come astratto nella produzione in senso stretto, cioè nel momento centrale del ciclo del capitale, che si vede come si produce capitale. Un risultato del genere è conseguente, per così dire, all'imprinting della forma valore, e dunque del denaro, sulla produzione immediata, da entrambi gli estremi del circuito monetario capitalistico: dal finanziamento iniziale, «in avanti»; dallo scambio monetario finale sul mercato delle merci, «all'indietro». Questo punto sarà meglio chiarito in seguito attraverso la ricostruzione e lo sviluppo della teoria «macro-monetaria» del valore-lavoro.

11  E in questo senso che impiegheremo sempre l'espressione «realizzazione» del valore/plusvalore.

12 La necessaria connessione interna che si dà in Marx tra, da un lato, il valore come nient'altro che espressione di una oggettualizzazione del lavoro vivo, e dall'altro il denaro come merce, è contestata anche da Martha Campbell nei suoi molti scritti sull'argomento.

13 In seguito utilizzerò il termine «profitto», anticipando il terzo libro, come indicato nel paragrafo precedente.

14  Come ho spiegato in Bellofiore (2002: 107-8); ma cfr. anche Bellofiore (1996: 45-55 e 65-77), la mia lettura del metodo della comparazione di Marx, qui riassunto, differisce in molti punti da quello di Rubin. Il paragone controfattuale lì delineato è anticipato in Bellofiore (1980: 81-82): questa linea di ricerca è stata ripresa da Stefano Perri.

15 Marx parla di «materiatura», più che semplicemente di «materializzazione», con riferimento all'incorporazione «passiva» (dal punto di vista del materiale adeguato in cui la materializzazione deve avvenire) nel denaro come merce, in ipotesi l'oro.

16 Marx parla più precisamente di «gelatina».

17 Per una argomentazione che chiarisca in dettaglio come e perché Marx adotti implicitamente e preliminarmente nel primo libro del Capitale una regola di determinazione del prezzo di questo genere - che implica condizioni tecniche e sociali medie (ma non uguaglianza nelle composizioni organiche del capitale) - rimando a Bellofiore (1996), Bellofiore e Finelli (1998) e a Bellofiore (2002). Una regola del prezzo del tipo «prezzi semplici» = «valori intrinseci», e per la quale i prezzi relativi sono proporzionali ai lavori «contenuti», discende in modo immediato dal «metodo della comparazione» adottato esplicitamente da Marx. Essa è il presupposto logico necessario su cui si erge la spiegazione marxiana dell'origine del plusvalore. Come risulterà più chiaro in seguito, una simile regola del prezzo sta alla base anche dalla teoria marxiana del salario nel suo lato macroeconomico e, perciò, fa da fondamento alla sua teoria della distribuzione. In ogni caso, essa corrisponde ad una delle più importanti assunzioni marxiane quale risulta da una nota fondamentale del primo libro: «la formazione del capitale deve essere possibile anche se il prezzo delle merci è eguale al valore delle merci. Non può essere spiegata con la differenza fra i prezzi e i valori delle merci. Se i prezzi differiscono realmente dai valori, occorre ridurre i prezzi ai valori, cioè fare astrazione da questa circostanza come casuale, se si vuole avere davanti a sé puro il fenomeno della formazione del capitale sulla base dello scambio di merci, e se non si vuole essere confusi nell'osservarlo da circostanze secondarie perturbatrici ed estranee al vero e proprio andamento del fenomeno» (Capitale, I: 198-9). Marx aggiunge che tutti coloro che sono interessati al pensiero «disinteressato» relativo al problema della formazione del capitale devono procedere in questo modo: «data la regolazione dei prezzi mediante il prezzo medio, cioè in ultima istanza, mediante il valore della merce, come può nascere capitale? Dico "in ultima istanza", perché i prezzi medi non coincidono direttamente con le grandezze di valore delle merci, come credono A. Smith, il Ricardo, ecc.» (Capitale, I: 199) Hic Rhodus, hic salta!

18 Le traduzioni italiane rendono spesso questa espressione ringentilendola, parlando p. es. di «assorbimento» del lavoro da parte del capitale.

19  Su questo punto insistono giustamente i lavori di Massimiliano Tomba.

20  La sussunzione reale del lavoro al capitale è il punto nodale degli scritti di Patrick Murray, in particolare cfr. Murray (2004).

21  Si veda il paragrafo 3.3 per alcune osservazioni sulla concorrenza in Marx.

22  Secondo Marx, il lavoratore individuale nel capitalismo, in quanto lavoratore parziale, non eroga lavoro concreto. Ciò non vale però per il lavoratore complessivo organizzato dai singoli capitali in concorrenza, il cui lavoro è tanto concreto quanto astratto.

23  A proposito di lavoro «sociale», Marx distingue varie categorie. Innanzitutto, il lavoro astratto, che è lavoro sociale solo «in potenza» (in quanto lavoro immediatamente «privato», cioè «sociale» solo mediatamente, per il tramite dello scambio sul mercato): si tratta di un lavoro già commensurabile prima della circolazione finale, e che si «esprime» nel denaro come merce. Poi, il lavoro «immediatamente sociale», ovvero il lavoro concreto che produce il denaro come merce, e che passivamente «espone» quel lavoro astratto. A queste due si era già accennato nel testo. Vi è poi il lavoro immediatamente socializzato: ad esempio, il lavoro di una comunità di produttori associati, ma anche il lavoro all'interno di una «fabbrica» capitalistica. Il lavoro «sociale» di cui si parla nel testo corrispondente a questa nota è invece il lavoro «comune» prestato nell'intera società: il lavoro totale prestato dai lavoratori in un certo periodo, che è dunque sociale dal punto di vista dell'intera classe capitalistica, ma che viene nondimeno speso nelle singole imprese, quali produttori «separati» e «indipendenti», dunque comandato dai capitalisti in concorrenza, secondo modalità immediatamente «private».

24 Su questo Chris Arthur (1993, 1999) segue da tempo una linea di indagine parallela, e che conduce alle medesime conclusioni.

25 Henryk Grossmann (1941) ha il merito di avere sottolineato questo punto, recentemente ripreso da Tony Smith in molti dei suoi scritti. Cfr. anche Bellofiore (1985a, 1985b).

26 La questione relativa alla «precommisurazione» che era già stata intuita da Napoleoni (1973), è al centro di Reuten-Williams (1989), specialmente nel primo capitolo. Nei capitoli 2 e 5, i due autori introducono una nozione di «pre-validazione» che corrisponde, grosso modo, alla mia «ante-validazione». Le mie fonti di ispirazione primarie sono qui comunque autori come Suzanne de Brunhoff (dalla quale il termine è preso in prestito) e Augusto Graziani (per il suo concetto di «finanziamento iniziale»).

27 Cfr. Rubin (1928), in tutto il libro ma soprattutto nel Capitolo 13.

28 Per gli sviluppi di questa idea del salario e della distribuzione all'interno della tradizione della teoria del circuito monetario, cfr. Bellofiore e Realfonzo (1997) e Bellofiore et al. (2000).

29 Cfr Luxemburg (1925). Spero si rimedi presto all'assenza di una traduzione inglese completa del libro. Rosdolsky (1968) nella sua appendice al capitolo XX, sulla teoria marxiana del salario, fornisce alcuni estratti del libro della Luxemburg.

30 Cfr. Aglietta (1976) e Glyn e Sutcliffe (1972).

31 Cfr. Bellofiore (2002).

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