Verifica delle parole: libertà e comunismo
di Emanuele Zinato
Negli ultimi due decenni in Italia ha governato il partito delle libertà mentre, tra i più letti all’opposizione, spicca un giornale che fu l’alfiere della modernizzazione ai tempi di Craxi e che molti oggi dicono “comunista”: La Repubblica. Non vi è dubbio, allora, che si rendano indispensabili delle verifiche dei nomi, mediante il cortocircuito tra passato e presente.
Scriveva nel 1936 Simone Weil, la straordinaria autrice di La Condition ouvrière, durante la guerra di Spagna:
Oggi darò uno shock a molti bravi compagni. So che provocherò scandalo. Ma quando si fa appello alla libertà, si deve avere il coraggio di dire ciò che si pensa, anche se così non si fa piacere a nessuno. Tutti noi seguiamo giorno per giorno, col fiato sospeso, la lotta che si svolge al di là dei Pirenei. Cerchiamo di recare aiuto alla nostra parte. Ma ciò non ci assolve dal dovere di trarre insegnamenti da un’esperienza che tanti operai e contadini pagano là con il loro sangue. Un’esperienza di questa specie è stata già fatta una volta in Europa: quella russa. Anch’essa costò molto sangue. Lenin esigette allora, in faccia a tutto il mondo, uno stato in cui non dovessero esservi più né esercito, né polizia, né burocrazia, che si distinguessero dalla popolazione stessa. Quando egli e i suoi furono giunti al potere, costruirono, nel corso di una guerra civile lunga e dolorosa, la più opprimente macchina burocratica, militare e poliziesca sotto cui mai abbia sofferto un popolo infelice […]. In ogni modo era evidente che tra gli scopi proclamati da Lenin e la struttura del suo partito esistesse una contraddizione. Le necessità della guerra civile e la sua atmosfera prendono il sopravvento sulle idealità per la cui realizzazione è stata iniziata la guerra civile.[1]
Si tratta di una diagnosi implacabile, che avrebbe dovuto esser studiata e discussa a fondo all’indomani del 1989. Anziché limitarsi a mutare in fretta nomi e simboli per adottare le bandiere e le parole dell’avversario, sarebbe stato più opportuno interrogarsi senza riserve sulla “condizione umana” ossia sui modi in cui la socializzazione delle ricchezze può assumere (o meno) le forme di uno stato di polizia. Una risposta è nascosta tra gli appunti di Simone Weil, un’altra nelle pagine del romanzo Vita e destino di Grossman. Né l’una né l’altro, con la loro forza di verità e la loro verticale, irriducibile lucidità, possono essere arruolati tra gli antesignani di Forza Italia…
Analogamente, alcuni scrittori italiani del secondo Novecento, con la loro “sociologia immaginativa” e in condizione di supplenza rispetto a una sinistra sempre più miope e afasica, hanno saputo sondare con furore cognitivo la “landa sconosciuta che chiamiamo modernizzazione” (Bollati).
Nel 1991, mentre si sgretola il “socialismo reale” e la parola “comunismo” diventa prima desueta e poi impronunciabile, lo scrittore e dirigente olivettiano Paolo Volponi reagisce controcorrente. Se nel successivo ventennio il termine “comunista” sarà affibbiato in forme caricaturali a ogni minima forma di dissenso all’egemonia del Partito-Azienda, Volponi cercò da subito di salvare del comunismo la sua radice, “la speranza nella liberazione del mondo”:
Il “comunismo” di Volponi non è molto diverso dal suo ideale di riforma industriale e di decentramento partecipativo e democratico. Il filo conduttore della sua proposta e, al contempo, il vero motivo del suo allontanamento dalla “stanza dei bottoni” dell’industria italiana è il riconoscimento della centralità del lavoro umano rispetto agli appetiti del capitale.
Negli stessi anni, Franco Fortini, il poeta e saggista le cui verifiche dei nomi e dei poteri sono state classificate come “oscure” e “estremiste”, definì comunismo “il processo materiale che vuol rendere sensibile la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di saper leggere e interpretare nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo”. Ciò significa che, per sottrarsi alla falsificazione, ci si può identificare con le “miriade degli scomparsi” fino a “riconoscersi nei passati nei venturi”, evitando al contempo “l’errore ottimistico che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali”.
Riflettendo dialetticamente su “libertà” e “comunismo”, l’’oscuro’ Fortini chiariva, insomma, e con largo anticipo, come mai anche da noi grandi masse erano ormai pronte ad applaudire alla guerra nel Golfo, a offrire la gola a Berlusconi, a identificarsi nel razzismo delle leghe o a accontentarsi della tecnocrazia di “centrosinistra”: