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La trasformazione dei valori in prezzi di produzione

Il capitolo IX del Terzo libro del Capitale

di Giorgio Bellucci

Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019

pinturaModernistaI.

Sono passati più di 120 anni dall’uscita del III libro del Capitale di Marx a cura di F. Engels. Fin da subito, quel testo fu oggetto e bersaglio delle più forti critiche, da destra e da sinistra, da parte di tutte le più varie specie di economisti e filosofi, da parte di antimarxisti come da parte di marxisti eterodossi, ortodossi, rinnovatori o riformisti. Per onestà intellettuale bisogna riconoscere che una tale sequela, lunga più di un secolo, non ha eguali in letteratura né in economia.

Delle molte soluzioni che si sono tentate di dare al famoso problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, si può discettare quale sia, o possa essere, la più vicina all’originale; nessuna però, in ogni caso, si presenta basata sui calcoli del Capitolo nono o sui ragionamenti impliciti ed espliciti dello stesso capitolo. La materia è dunque ancora incandescente e da parte degli studiosi, accademici o meno, il rischio di scottarsi è sempre alto.

Sono convinto da tempo che se anche si trovasse una soluzione logicamente coerente al problema della trasformazione, essa non sarebbe comunque considerata valida e validante ai fini dell’interpretazione della società capitalistica. Sono anzi convinto che essa scatenerebbe ulteriore livore verso l’opera di Marx. D’altronde, le continue accuse di falso che percorrono le pagine di Bortkievicz o di Steedman stanno lì a dimostrarlo. Come già avvenuto in passato, quando alcuni pezzi dell’intellettualità marxista e di quella keynesiana attribuirono addirittura a Marx e al suo esercito industriale di riserva le radici analitiche alla base delle teorie dell’inflazione legate alla curva di Philips, anche oggi la storia potrebbe ripetersi.

Come è noto, in Marx i prezzi di produzione non sono affatto prezzi di mercato ed anzi li precedono. È anche noto che la cosiddetta uniformità del saggio di profitto è un principio considerato definitivo in tutte le dottrine economiche che affrontano i modelli della libera concorrenza. Secondo Marx questo principio si afferma in maniera sotterranea e contraddittoria e, soprattutto, viene mascherato dalle apparenze che si manifestano nella società capitalistica. Nel Capitale si parla per la prima volta di prezzi di produzione nel cap. IX del III libro. Così a pag. 208: «[…] assistiamo allo sviluppo di una nuova forma del valore, il prezzo di produzione della merce»1. Ciò che colpisce è la “pretesa” di Marx di agganciare il valore-lavoro contenuto nella merce a una nuova forma di valore, cioè i prezzi di produzione. Senza questa “pretesa” la categoria del valore perderebbe significato, essenza e qualsivoglia caratteristica che la lega al lavoro umano. E naturalmente questo è uno dei motivi, sicuramente non l’unico ma certo il principale, di tanto accanimento.

La critica di fondo è la seguente: non è possibile conoscere i prezzi prima di conoscere il saggio di profitto, e viceversa; e quindi il ragionamento di Marx entrerebbe in un circolo vizioso. Marx trasforma l’output ma non gli input: i valori delle merci che escono dal processo produttivo vengono trasformati in prezzi mentre ciò non accade per le merci che entrano e quindi tutto il ragionamento risulterebbe incoerente e viziato da contraddizioni logiche. Molti studiosi si sono pertanto orientati alla ricerca di una soluzione che, risolvendo simultaneamente prezzi e profitto, potesse chiudere la questione.

Se la rincorsa del capitale non muovesse verso saggi del profitto più alti ma verso l’accumulo del plusvalore, bisognerebbe ammettere che i capitali si spostano verso produzioni a più bassa composizione organica, ovvero con più alto capitale variabile rispetto al capitale costante impiegato. È la scoperta di questo movimento del sistema capitalistico che fa la differenza. In Marx l’idea del tr apasso dal plusvalore al profitto è fondamentale e non serve solo a mostrare come i valori passano nei prezzi, e quindi a validare la legge del valore, ma a disegnare scenari ben più ampi, fra cui anche la caduta tendenziale del saggio di profitto.

 

II.

Detto ciò, partiamo da un ragionamento condotto direttamente sulle Tabelle del III libro del Capitale.

Non è vero che i numeri di Marx siano del tutto arbitrari, come scrive Bortkiewicz2. È vero invece che dell’osservazione di Marx secondo cui il saggio di profitto non può entrare due volte nei prezzi di produzione non si tiene conto. Le divergenze prezzi-valori servono a descrivere il movimento redistributivo dal plusvalore al saggio di profitto: senza di esso non c’è movimento nel sistema capitalistico.

Ad un certo punto del ragionamento, Marx inserisce il capitale costante consumato. L’esperimento serve a null’altro che a dimostrare che il saggio del profitto non può essere inserito due volte e che le divergenze rimangono identiche a quelle della Tabella nella quale non è presente il capitale costante consumato. E, infatti, anche dalle Tabelle di Bortkiewicz è possibile espungere togliere il capitale costante consumato senza nocumento alcuno: esse rimangono perfettamente identiche, per somma e per colonna, sia nella Tabella del calcolo dei valori che in quella del calcolo dei prezzi. Ritorneremo su questa questione. È chiaro però che lo schema di Marx incorpora già un saggio di profitto e che, se dovessimo introdurlo anche nel capitale costante consumato, dovremmo senz’altro scorporarlo da un’altra parte.

Al di fuori del percorso analitico di Marx, l’unico ancoraggio all’economia dello sfruttamento è David Ricardo, con tutte le sue contraddizioni, e la sua descrizione dell’economia capitalistica mutuata dalla proprietà fondiaria, a partire dalla quale approcciava l’economia politica. Bortkiewicz non fa altro che riproporre il medesimo schema per sviluppare la sua critica a Marx: la cosa straordinaria è proprio il fatto che la sostanza di quella critica del 1906 sia rimasta quasi del tutto inalterata.

Nel suo saggio Calcolo del valore e calcolo del prezzo, Bortkiewicz compie due operazioni sulle famose Tabelle del capitolo nono. In primo luogo cambia due numeri della colonna del capitale costante consumato, ovvero sostituisce 51 e 51 della Tabella di Marx con 50 e 52, sostenendo che l’operazione è legittima in quanto la somma rimane identica e i numeri di Marx sono del tutto arbitrari. In secondo luogo, divide le cinque sfere di produzione di Marx in tre settori (mezzi di produzione: sfere III e IV; mezzi di sussistenza: sfere I e V; merci di lusso: sfera II). Infine, applicando il suo cambiamento numerico, egli dimostra facilmente che i conti non tornano più.

Bortkiewicz omette qui di considerare l’avvertimento (chiarissimo) di Marx, il quale aveva spiegato che il saggio di profitto non può essere rappresentato due volte, e infatti, non riesce a capire a che altezza avvenga il riparto del saggio medio del profitto. In assenza di una precisazione, Bortkiewicz si esercita in conteggi sulla differenza fra Tabella dei valori e Tabella dei prezzi, per arrivare alla conclusione che, per tenere in piedi il ragionamento di Marx, prezzi e saggio del profitto debbano essere determinati simultaneamente (naturalmente facendo a meno del valore). Come già detto, egli ritiene che le Tabelle di Marx contengano numeri arbitrari. Sostituendo a 51 e 51 i suoi 50 e 52 (relativi al capitale costante consumato), confonde però se stesso e il ragionamento di Marx: 50 e 52 vengono infatti aggiunti a capitali sotto la composizione organica media. Bortkiewicz modifica così proprio i dati sul capitale costante consumato che Marx aggiunge alle sfere II e III, ovvero alle due sfere sotto la composizione organica media (II: 70 c e 30 v e III: 60 c e 40 v).

Certamente non per caso, Marx aggiunge alle due sfere lo stesso capitale costante consumato: 51 e 51! Questo avrebbe dovuto essere un indizio sufficiente a farle considerare come un unico settore, visto che subiscono in Marx lo stesso processo, cioè devono ubbidire alla legge della concorrenza che le obbliga ad avvicinarsi alla composizione organica media: la II è infatti sotto la media di 8 punti e la III di 18 punti. Bortkiewicz non si interroga neanche su questo dettaglio solo apparentemente piccolo e, anziché far “domandare” alle sfere II e III l’acquisto dei mezzi di produzione, assegna alle sfere III e IV la produzione dei mezzi di produzione, con tutte le distorsioni che ne seguono. Dunque, in Bortkiewicz, le sfere III e IV producono mezzi di produzione. Tuttavia, una sfera (IV) è sopra la composizione organica media, mentre l’altra (III) è sotto; pertanto la III deve acquistare mezzi di produzione per potere vendere in regime di concorrenza (ovvero con un saggio di profitto oscillante attorno al profitto medio).

I capitali sopra la composizione organica media possono migrare per avere accesso al plusvalore più alto prodotto nelle sfere dove la composizione organica è più bassa, ma l’acquisto dei 7 punti di costante dalla sfera IV non è sufficiente. Bortkiewicz, per procedere nelle sue elucubrazioni, avrebbe dovuto dapprima andare a vedere la differenza dei plusvalori e della composizione organica nelle sfere III e IV e, quindi, rifare i conti.

Nel passaggio dai valori ai prezzi Marx non intende in nessun modo presupporre condizioni di equilibrio: tanto meno intende farlo con l’inserimento del capitale costante consumato. Tutti i conti di Bortkiewicz sono tesi invece a dimostrare che nel sistema di Marx non c’è equilibrio e quindi è falso: cercare di dimostrare la validità della legge del valore attraverso una condizione di equilibrio significa però stravolgere completamente Marx.

 

III.

Come è noto, le ipotesi di soluzione del problema dette “simultaneiste”, a partire da Bortkiewicz, hanno avuto un grande impulso e una grande legittimazione dopo la pubblicazione del libro di Sraffa Produzione di merci amezzo di merci, del 1960. Tutte le soluzioni “simultaneiste” hanno però il difetto di rendere impossibile l’aggancio al valore e, perciò, di essere scarsamente utilizzabili ai fini della questione posta da Marx. La critica di incoerenza interna avanzata da Bortkiewicz è rimasta immutata, ma l’analisi rigorosa e sofisticata di Sraffa, anche facendo a meno della teoria del valore, ha avuto la forza di far ritenere che una soluzione simultanea di prezzi e profitti è in grado di far rilevare lo sfruttamento.

La soluzione estratta dal testo di Sraffa farebbe supporre che, trovando simultaneamente prezzi e saggio di profitto, si possa risolvere la questione:

«[…] possiamo dire che se R è il rapporto tipo, cioè il massimo saggio del profitto, e w la proporzione del prodotto netto tipo che va ai salari, il saggio del profitto sarà

r = R (1-w)

Ne deriva che quando il salario venga gradualmente ridotto da1 a 0 il saggio del profitto aumenta in proporzione diretta della riduzione complessiva del salario»3.

La simmetria di movimento (la relazione lineare inversa tra profitti e salari) starebbe lì a dimostrare una teoria dello sfruttamento anche facendo a meno della teoria del valore.

Se alla diminuzione del salario verifichiamo aumento del profitto è chiaro che fra i due fattori esiste una relazione di sfruttamento. Ma a quale teoria dello sfruttamento si fa riferimento? Questa formula può descrivere i rapporti di sfruttamento nelle società precapitalistiche oppure i residui che ne sono rimasti (ad esempio la mezzadria), ma è del tutto inadeguata a descrivere i rapporti di sfruttamento fra capitale e lavoro. In Marx non c’è nulla che faccia pensare allo sfruttamento come a un rapporto di mezzadria.

È in questo senso che esce di scena il prodotto netto, così come il lavoro datato o il saggio di interesse composto e qualunque altra ipotesi di distribuzione fra profitti e salari che contempli l’idea di scambio fra quantità fisiche di merci, cosa che darebbe ragione del Marx “mezzadro”. Quella formula non può essere usata per spiegare il movimento redistributivo verso un saggio del profitto uniforme all’interno del sistema produttivo capitalistico. D’altronde, l’idea che prodotto netto e sovrappiù possano subire ulteriori movimenti redistributivi verso un livellamento del saggio di profitto presupporrebbe altre applicazioni analitiche.

Nel Capitale non c’è un prodotto netto da redistribuire al termine del processo produttivo fra profitti e salari. Estrazione del plusvalore e distribuzione in saggio del profitto sono processi interni alla produzione capitalistica: non c’è un ponte, o un deposito, dove far trapassare i valori in prezzi. In Marx l’onda d’accumulo del plusvalore si spiaggia attorno al saggio medio di profitto. Il sistema capitalistico diventa però incomprensibile se si assume l’idea che non c’è redistribuzione di plusvalore in profitto. Ciò significherebbe, infatti, che i capitali non si spostano dove il saggio del profitto è più alto, ma dove il plusvalore è più alto.

 

IV.

La terza Tabella del capitolo IX del III libro del Capitale si presenta come se la compensazione dei diversi plusvalori in saggio medio del profitto avvenisse un minuto prima della formazione dei prezzi di produzione. Pare così che il processo di formazione del prezzo di produzione avvenga quasi per magia. Trattasi tuttavia, certamente e senza ombra di dubbio, di un valore già estratto, ovvero di plusvalore già estratto. I prezzi di produzione, infatti, «[…] sono basati sul presupposto dell’esistenza di un saggio generale del profitto, che presuppone d’altra parte che i saggi del profitto, presi in sé in ogni singola sfera di produzione, siano già stati ridotti ad altrettanti saggi medi»4.

Il punto da chiarire diventa allora quello di stabilire quando, cioè in quale momento del processo di produzione capitalistica, avviene la riduzione, cioè il passaggio al saggio medio di profitto. La precisazione che il saggio di profitto non può figurare due volte è molto importante perché sta a significare che il luogo, il momento, in cui avviene la riduzione al saggio medio di profitto non è al termine del processo di formazione del prezzo di produzione, bensì prima della sua aggiunta al prezzo di costo. La cosa è chiarita nel III libro, ma il fenomeno ancora più chiaro è che la riduzione non avviene e non può avvenire simultaneamente alla determinazione dei prezzi di produzione.

A questo punto del nostro ragionamento, le proposizioni che vengono prese a pretesto da tanti autori per affermare che Marx fosse consapevole delle contraddizioni nella trasformazione dai valori ai prezzi si rovesciano nel loro contrario, ovvero nel fatto che, con quelle frasi, Marx intendesse invece rafforzare il proprio ragionamento:

«[…] oltre al fatto che il prezzo del prodotto ad es. del capitale B differisce dal suo valore in quanto il plusvalore prodotto in B può essere superiore o inferiore al profitto aggiunto al prezzo del prodotto di B, la medesima condizione vale anche per le merci che costituiscono la parte costante del capitale B e indirettamente, in quanto sono mezzi di sussistenza degli operai, anche la sua parte variabile»5.

Ciò significa che le merci che costituiscono la parte costante del capitale di B incorporano un plusvalore superiore o inferiore al profitto aggiunto al suo prezzo di costo: è in questa sequenza di aggiustamenti che il capitale anticipato avvicina il saggio medio di profitto.

L’intuizione fondamentale di Marx è che il plusvalore estratto dall’insieme delle sfere di produzione capitalistiche viene messo in comune (a livello di sistema, si potrebbe dire oggi) e redistribuito sulla base di un saggio di profitto uniforme e delle quote possedute (come i dividendi nelle società per azioni). In questa prospettiva, somma dei plusvalori e somma dei profitti sono ovviamente equivalenti: senza questo assioma la totalità capitalistica non esiste. Marx è l’unico pensatore economista che propone questo modello interpretativo della società capitalistica.

E’ indubbio che, nella circolazione capitalistica, venga realizzato il saggio di profitto e non il saggio di plusvalore e, pertanto, dobbiamo attenerci all’idea che è la massa di plusvalore ad essere redistribuita fra le varie sfere di produzione. Le n sfere di produzione subiscono incessantemente, per effetto della concorrenza, un processo di avvicinamento verso la composizione organica media e verso saggi di profitto uniformi.

Nel caso delle Tabelle del cap. IX la composizione organica media è 78 c e 22 v; il saggio del plusvalore è il 100%; il saggio di profitto medio da perseguire è il 22%. Così Marx a commento della III Tabella: «Le merci vengono nel complesso vendute 2 + 7 + 17 = 26 al di sopra del loro valore, e 8 + 18 = 26 al di sotto [...]», ovvero «[…] una parte delle merci viene venduta al di sopra del valore nella stessa proporzione in cui un’altra viene venduta al di sotto»6. Ciò significa che le sfere di produzione sotto la composizione organica media scambiano parti di valore con le sfere a composizione organica sopra la media. Naturalmente, essendo il plusvalore che si trasforma in saggio medio di profitto, esso deve rimanere “lavoro vivo” anche nello scambio con i mezzi di produzione, diversamente r non potrebbe presentarsi in termini di lavoro omogeneo.

Il plusvalore appropriato dai capitalisti è in valore uguale a 110, così suddiviso: 40 per i settori sopra la composizione organica media e 70 per quelli sotto la media. Il capitale costante è così suddiviso: 260 sopra la composizione organica media e 130 sotto la composizione organica media. Ma in quale modo la lotta di concorrenza livella i diversi saggi di plusvalore in un saggio del profitto uniforme? Per raggiungere la composizione organica media (78 v + 22 c) i capitali sotto la media devono scambiare 26 di valore con i capitali sopra la composizione media. Lo scambio migratorio di plusvalore contro capitale costante fra le diverse sfere di produzione ci darà 70 – 26 = 44 e, conseguentemente, 40 + 26 = 66; i due settori sotto la media acquistano mezzi di produzione, cioè capitale costante, fino al raggiungimento della composizione media: devono in sostanza cedere plusvalore in cambio di mezzi di produzione. Viceversa, dal lato del capitale costante, avremo 130 + 26 = 156 e, conseguentemente, avremo 260 - 26 = 234.

E’ in questo movimento che i capitali sopra la media vengono riforniti di quanto necessario al raggiungimento del saggio medio di profitto. I tre settori sopra la composizione organica media ritraggono dallo scambio un valore di 26 e, di contro, i due settori sotto la media cederanno un valore pari a 26. Il totale del plusvalore da redistribuire rimane 110 (44 + 66), ma ora esso è già trasformato in saggio di profitto pari a 22 a motivo dello scambio avvenuto: adesso sia i capitali sotto la media che quelli sopra la media hanno a disposizione le quantità di saggio di profitto da aggiungere al prezzo di costo.

La pressione della concorrenza fa dunque sì che i capitali sotto la media, rimanendo invariate tutte le altre circostanze e acquistando merci-mezzi di produzione, ovvero capitale costante dai settori sopra la media, abbassino i propri prezzi di produzione, ma giusto quanto basta per poter vendere le proprie merci. I capitali sopra la media subiscono invece l’effetto della concorrenza da parte dei capitali sotto la media nella forma dell’aumento della composizione organica: relativamente a questo movimento diminuisce la loro composizione organica.

Nello scambio fra plusvalore e capitale costante non c’è transito di profitto per l’ovvia ragione che le sfere sotto la composizione organica media devono cedere proprie parti di plusvalore: in ciò si rintraccia: «[…] una parte delle merci viene venduta al di sopra del valore nella stessa proporzione in cui un’altra viene venduta al di sotto […]»7. Ed è precisamente a questo livello dell’analisi di Marx che va letta la famosa proposizione: «[…] il plusvalore prodotto in B può essere superiore o inferiore al profitto aggiunto al prezzo del prodotto di B […]»8. È dunque uno scambio ineguale, non uno scambio di mercato. Va infatti escluso che esso sia uno scambio di plusvalore fra le diverse sfere di produzione, poiché il PV è sempre il 100% in tutte le sfere di produzione e si suppone omogeneo il valore del capitale variabile.

Nell’ipotesi presa in discussione è dunque il capitale costante che viene scambiato al di sopra del suo valore: non ci sono fasi distinte né momenti diversi. Nella concorrenza capitalistica questo movimento non appare, ovvero appare solo nella forma del livellamento del saggio di profitto che andrà ad aggiungersi ai prezzi di costo formando il prezzo di produzione. Ed è proprio a motivo dello scambio ineguale, ovvero dello scambio migratorio di plusvalore, che le merci, che contengono un proprio plusvalore già estratto superiore o inferiore al profitto medio, cederanno con un atto di acquisto o di vendita la parte di plusvalore superiore o inferiore al profitto medio.

Questo movimento può essere qualificato come un atto d’acquisto e un atto di vendita. Non c’è nulla di male se chi ragiona in termini di equilibrio economico li assume come tali. Ma il segno sicuro che questa terminologia serva alla descrizione del movimento, ma non alla sua comprensione, è data dal fatto che questi movimenti (atto di vendita e atto di acquisto) non sono atti di mercato. E infatti “l’atto di vendita” di capitale costante e/o mezzi di produzione serve il capitale globale (100%) sotto tre diverse fattispecie: 1) incamerare il plusvalore e riequilibrare le proporzioni fra costante e variabile sia nelle sfere sopra la composizione organica sia in quelle sotto; 2) acquisire le grandezze di valore necessarie all’aggiunta del profitto uniforme ai propri prodotti nelle sfere sopra la composizione organica; 3) consentire agli acquirenti di capitale costante/mezzi di produzione di aumentare la propria composizione organica.

Se questo “servizio”, che le diverse sfere di produzione svolgono le une verso le altre, venisse interpretato come atto di mercato, tutto il processo sarebbe dominato da un’intrinseca potenza deterministica. Il punto d’approdo diventerebbe allora il raggiungimento dell’equilibrio finale attorno alla composizione organica media, ovvero attorno al saggio medio di profitto. Dentro questo recinto anche le ragioni di scambio paiono determinate dai prezzi di equilibrio delle merci. La rappresentazione degli schemi della trasformazione attraverso i settori produttivi darà origine ai prezzi di equilibrio. Naturalmente anche l’idea di una merce, il cui valore gravita attorno alla composizione organica media, riflette un ragionamento basato sull’equilibrio.

In queste siffatte interpretazioni Marx viene costretto dentro gli schemi classici di domanda/offerta e dell’equilibrio di mercato. Ma il fatto certo che questo non fosse l’intendimento di Marx sta nel commento che segue la III Tabella del capitolo nono: la redistribuzione dei plusvalori non passa attraverso i prezzi di equilibrio. Proprio per questo , salta anche l’assioma per cui le uguaglianze (somma dei valori = somma dei prezzi e somma dei plusvalori = somma dei profitti) sono verificate solo a condizione dell’uguale composizione organica in tutte le sfere di produzione. Ma la composizione organica media esiste indipendentemente dal fatto se essa si manifesti in una o in tutte le sfere di produzione.

Nella realtà capitalistica non esiste e non può esistere un’uniforme composizione organica media in tutti i capitali: non esisterebbero più la libera concorrenza e il libero mercato. E non c’è nulla in Marx, nel commento alla III Tabella, che faccia pensare ad un prezzo di equilibrio con cui le merci, prodotte sotto la composizione organica media, si scambiano con quelle prodotte sopra la composizione organica media. Il plusvalore incamerato anche da parte delle sfere sotto la composizione organica media non può essere redistribuito, sotto forma di profitto medio, fino a che serve al capitale globale, cioè al 100% del capitale globale, rappresentato dalle 5 sfere di produzione. Ad incamerare il plusvalore in eccesso (rispetto al saggio medio di profitto) saranno le sfere sopra la composizione media.

Marx chiarisce addirittura che le merci sopra la composizione organica media vengono vendute per 26 sopra il loro valore, mentre le altre per 26 sotto il loro valore: non c’è prezzo di equilibrio. Il movimento è duplice: da una parte si alza la composizione media, dall’altra si abbassa. La tendenza ad un saggio di profitto uniforme muove di conseguenza anche la grandezza di valore del capitale variabile, ma l’approdo all’uniforme saggio di profitto è una condizione instabile e casuale. Il fatto è che sullo scambio di plusvalore contro capitale costante (che semplificando a fini esplicativi abbiamo definito atto d’acquisto e atto di vendita) gravano contraddizioni e violente perturbazioni.

Lo svelamento numerico serve pertanto a indicare una legge di movimento cui è sottoposto il sistema e a cui il sistema sottopone effettivamente le sfere a bassa composizione organica interne al sistema, come pure le aree precapitalistiche e residuali. L’esempio numerico è anche pertanto lo svelamento di una particolare legge della concorrenza intercapitalistica, ovvero del fatto che essa non è semplice domanda e offerta, cioè quantità domandate e quantità offerte ma, in quanto legge, essa ha forza coercitiva, cioè obbliga i diversi capitali a muovere la propria composizione organica. L’esempio numerico di un atto di vendita e di acquisto di capitale costante/mezzi di produzione è cioè la descrizione di un movimento coercitivo della concorrenza che obbliga i diversi capitali ad alzare la propria composizione organica. Questo movimento racchiude “l’enigma” della trasformazione e consegue il passaggio dall’economia mercantile semplice alla concorrenza capitalistica.

L’insieme di queste azioni concrete, movimenti incessanti di equilibrio e di disequilibrio, descrive l’estrazione del saggio di profitto nella sfera della produzione delle merci e determina i prezzi di produzione, fermo restando arbitrii, disuguaglianze e violenze nella sfera della distribuzione del reddito.

 

V.

Può anche darsi che a Marx piacesse fare la parte del Mefistofele, come ci dice Bortkiewicz, ma è innegabile che la vexata quaestio della trasformazione dei valori in prezzi di produzione possa essere definita a partire dalle stesse Tabelle di Marx.


Note
1 MARX 1973, p.208.
2 BORTKIEWCZ 1971, p. 44.
3 SRAFFA 1960, p. 28.
4 MARX 1973, p. 202.
5 Ivi, p. 206.
6 Ivi, p. 202.
7 Ivi, p. 202.
8 Ivi, p. 206.

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