Eccesso di capitale e finanziarizzazione
Antiper
In questa evoluzione
'lo stato del rigoglio finanziario [...] sembr[a] annunciare [...] una sorta di maturità' [3]
Le espansioni finanziarie
'sono il segnale dell'autunno' [4] ” [5].
Nella sezione di Caos e governo del mondo che contiene il brano precedente Giovanni Arrighi e Beverly Silver fanno un'operazione al tempo stesso meritevole e discutibile.
E' certamente meritevole aver sottolineato la contestualità tra eccesso di capitale (“accumulazione di capitali superiore alle normali occasioni di investimento”) ed espansione della sfera finanziaria. Braudel, da buon storico, non poteva non osservare questa ricorrente contestualità e se avesse avuto un approccio marxista avrebbe osservato qualcosa di più della contestualità - ovvero la causalità - esistente tra eccesso di capitale e finanziarizzazione, con quest'ultima che diventa periodicamente una sorta di “valvola di sfogo” per capitali incapaci di valorizzarsi adeguatamente nell'ambito dei settori produttivi [6].
In altro contesto, sempre a proposito del rapporto tra finanziarizzazione e cicli egemonici, Giovanni Arrighi è ancora più esplicito
La parte discutibile del ragionamento di Arrighi e Silver è quella in cui attribuiscono al proprio “maestro” - Fernand Braudel, appunto - la virtù di aver capito per primo che la inadeguata valorizzazione dei capitali nella sfera produttiva/commerciale alimenta la finanziarizzazione.
Va bene che certi autori non vanno più tanto di moda, ma ben prima di Braudel già il povero Karl Marx aveva abbozzato piuttosto brillantemente il rapporto tra sovrapproduzione, valorizzazione insufficiente del capitale in eccesso, finanziarizzazione, crisi finanziaria, ritorno della crisi sull'economia dei settori produttivi, ecc...
Dunque: non solo le ricorrenze evidenziate da Braudel non sono casuali; si potrebbe anzi dire, al contrario, che si tratta di ricorrenze causali
Guglielmo Carchedi va oltre e mostra come la finanziarizzazione sia causata, in ultima istanza, dalla caduta del tasso medio di profitto, ma non ne costituisca che una soluzione passeggera
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A questo punto, la de-regolamentazione - che viene considerata la causa dell'ipertrofia dei mercati finanziari - diventa, più che una scelta ideologica (come tendono a pensare gli “anti-neo-liberisti”), una scelta obbligata, attraverso la quale tentare di 1) evitare che mercati finanziari troppo regolamentati offrano tassi di profitto troppo bassi e 2) attendere che un rilancio su vasta scala dell'economia produttiva venga a sostituire le precarie toppe apposte dalla finanziarizzazione al ciclo di valorizzazione del capitale.
La moltiplicazione degli strumenti di “finanza creativa” non è, dunque, né un problema di “legalità” né, tanto meno, un problema di “etica” [10], ma risponde semplicemente ad una ben precisa necessità di fase: evitare la sovrapproduzione assoluta [11], il blocco totale delle forze produttive, mantenere i profitti sufficientemente alti per un tempo sufficientemente lungo [12] nonostante la caduta tendenziale del saggio di profitto.
Cioè a dire: una gallina oggi.
Per la stessa ragione, anche la “madre” di tutte le de-regolamentazioni della seconda metà del '900, ovvero la rottura del gold standard exchange, decisa dagli USA nel 1971, deve essere analizzata prima come conseguenza della caduta del saggio di profitto nella precedente “golden age” e poi come causa della successiva turbolenza finanziaria.
Braudel avrà certamente intuito “per primo” tante cose interessanti, ma non il fatto che la “finanziarizzazione” e la crisi finanziaria sono anzitutto la conseguenza (e solo in un secondo tempo la causa) della crisi della cosiddetta “economia reale”, ammesso che, nell'epoca dell'imperialismo, possa essere stabilita una distinzione molto netta tra questi due tipi di “economia”.
Ovviamente, il problema fondamentale non è “chi ha capito cosa” per primo, ma avere o non avere capito qualcosa. E il fatto che Braudel e Marx abbiano capito un punto essenziale va a loro merito. E per quale ragione il punto sia essenziale è presto detto: se la finanziarizzazione - la “sovraspeculazione” - è principalmente un effetto della crisi di valorizzazione del capitale allora la soluzione di tale crisi non risiede nella regolazione dei mercati finanziari la quale regolazione, quando e se avverrà, avverrà solo e comunque nell'interesse del profitto, non certo per proteggere i “cittadini” o i “piccoli risparmiatori” delle conseguenze della speculazione.
A dire il vero, la soluzione delle crisi non risiede neppure nella de-regolamentazione dei mercati finanziari perché questa può solo ritardare, ma non risolvere, il problema anche se, ovviamente, quando non si riesce proprio ad risolverlo, un problema, si può sempre tentare, almeno, di scaricarlo su qualcun altro. E questo è uno dei motivi per cui troviamo incredibilmente ipocriti e retorici i rimbrotti ai top manager delle banche coinvolte nel crack finanziario, dal momento che questi manager sapevano benissimo cosa stavano facendo - un sacco di soldi – ed avevano chiarissimo il proprio target - far durare la giostra il più a lungo possibile -; del resto, del doman non v'è certezza... e una speculazione finanziaria che si ponesse il problema del destino al lungo termine del sistema capitalistico nel suo complesso piuttosto che quello dell'immediata [13] realizzazione di un surplus che speculazione sarebbe?
Questo, e non l'accanimento anti-operaio o la naturale cattiveria del padrone, spiega come mai il “governo tecnico” di Mario Monti (come, beninteso, quelli che lo hanno preceduto e quelli che lo seguiranno) si occupi con tanta diligenza di salario (diretto), salario (indiretto) e ancora salario (differito): perché la riduzione del salario sociale di classe è sempre la più diretta contro-tendenza alla caduta del saggio di profitto [14] sebbene anche questa sia una soluzione necessariamente transitoria perché nel capitalismo un equilibrio stabile a tempo indeterminato è, semplicemente, impossibile.
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