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il rasoio di occam

Marx, il caso e la giustizia

Giuseppe Panissidi*

Il processo di estrazione del plusvalore non interpella nessuna questione di giustizia e non richiede nessun principio morale per essere “corretto”. “Giusta” è solo la società che riesce a sviluppare appieno le potenzialità che le sono intrinseche. Ed è su questo terreno che il capitalismo, specie quello finanziarizzato della nostra contemporaneità, sta mostrando la corda

Chi trova un operaio, trova un tesoro. Una boutade solo apparente, se si considera che racchiude il valore e il significato che Marx annette alla sua analisi critica del modello di produzione con capitale. “Il fatto che dall’impiego del lavoro salariato il capitalista, quale semplice agente del capitale, ricavi più di quanto investe, costituisce una particolare fortuna per lui, non un’ingiustizia per il lavoratore”. Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. L’intero fenomeno del “plus-lavoro”, dunque del profitto, non inerisce alla dimensione morale. Non integra violazioni dell’etica. Non interpella questioni di giustizia. Astrazioni indeterminate. Il capitalista è semplicemente un uomo “fortunato”. Come funzionario del capitale, si trova ad agire in condizioni sommamente vantaggiose, che gli consentono di ottenere il più dal meno, e nel modo più “naturale”. Da qui, a ben vedere, la ferma opposizione di Marx alle distorsioni ottiche di ogni reverie utopistica, a ogni versione teorica della società capitalistica che si ispiri all’idea di giustizia. E qui, altresì, il limite radicale, se non il divieto, del ricorso al principio morale nell’analisi delle “contraddizioni di struttura” del sistema. Qui, insomma, il discrimine, aspro e forte, tra lo slancio lirico e sofferto dell’anima bella e il volo alto della morale evangelica, da una parte, e il rigore laico e umano dell’intelletto scientifico, o che tale si presuma, dall’altra. S’impone, perciò e una volta di più, l’esercizio del Rasoio di Occam.

Ne discende un’idea di “società giusta” profondamente diversa dalle immagini sottese all’ampia costellazione delle filosofie politiche contemporanee, tutte più o meno classicamente, ancorché talora inconsapevolmente, intrise dell’”idea del bene”, pur declinata, in modo spesso raffinato, come ciò che è socialmente “necessario” o “utile” o “giusto” tout court.

L’idea, per intendersi, di un’economia sociale “etica”. “Giusta”, invero, non è la società conforme a questo o quel modello “separato” ed astratto, normativo o empirico che sia, e più o meno razionale e sofisticato. “Giusta” è la società che riesca a realizzarsi e svilupparsi in conformità ai suoi propri meccanismi di working, in modo corretto ed efficiente. Marxiana precondizione, quest’ultima, del transito a una forma storica più evoluta di organizzazione sociale. Indefettibile presupposto, in assenza del quale non c’è “grande riforma”, men che mai “rivoluzione”, che tenga. Se, nel corso dello sviluppo storico, il capitalismo, anziché evolvere verso la sua piena realizzazione “progressiva”, ha attraversato, inabissandosi, ogni possibile inferno, ciò non è dovuto all’”ingiustizia” o “immoralità” della sua configurazione sistemica. Perversioni siffatte sono imputabili unicamente alla dissennata gestione del sistema, dei sistemi, da parte dei suoi stessi “amministratori”, a quel conflitto, sovente carsico, del e nel capitale capace di generare esiti estremi – non solo guerra – se non, a dir poco, tragicomici. Basti pensare alle grottesche avventure dell’odierna finanza speculativa e virtuale, magicamente pari a dieci volte il prodotto globale dell’economia reale. Altro che “bolle” keynesiane. Potente produzione di Storia, comunque, almeno pari a quella storicamente emersa dal conflitto di classe, seppure ontologicamente cieca alla luce sublime della ragion pratica. Senza escludere dalla contabilità, va da sé, le fatali, “naturali” negatività della Storia.

Sul punto, Marx è esplicito. I modi di produzione evolvono sempre nella relazione che li stringe con l’assetto dinamico delle forze produttive. Perché “la società non è fatta di uomini. Essa consiste piuttosto nella trama delle relazioni che gli uomini intrecciano reciprocamente”.

Il vizio, dunque, non risiede tanto o soltanto nell’ossimoro pratico della legale estorsione di plus-lavoro, in contesti di potere di comando sul lavoro, quanto piuttosto nelle modalità empiriche di un utilizzo che continua a rivelarsi incapace di assicurare uno sviluppo delle forze produttive, se non “razionale”, almeno ad un “accettabile” tasso di alienazione, “mediamente normale”, per usare la terminologia freudiana. Ed è proprio questo corno dello sviluppo che è mancato, a vantaggio non indispensabile di quello materiale ed acquisitivo, limitato e ridotto a una sola dimensione. Con previa e conseguente distorsione/amputazione della crescita delle condizioni favorevoli alla grande trasformazione, il marxiano “ingresso nella Storia”, appunto, volano di una fase di Storia e di Cultura opportunamente scevra da idealistiche nostalgie e da improbabili cariche millenaristiche e messianiche. Il grande salto qualitativo. Quando, allora, e solo allora, l’Angelo di Klee e di Benjamin potrebbe (ri)volgere lo sguardo in avanti. Enfin.

Il monotono refrain del “non è giusto” ha finora prodotto soltanto, e nel migliore dei casi, rimpianti e tristezza, rabbia e impotenza. Grande “cultura”, indubbiamente, ma, altresì, involontario viatico e sostegno alla dissennata gestione di cui sopra. Eterogenesi dei fini. Queste le specifiche che rendono a Marx del tutto estranei, nelle condizioni date, un interesse e un’attenzione salienti per il tema classico della giustizia e della moralità, perciò annesso allo spazio della ”interpretazione”, necessaria certo, ma impotente, di per sé. Finanche nella prospettiva della devianza sociale e antigiuridica, egli opportunamente osserva che anche “questo è lo Stato”, nell’insieme dei suoi apparati regolativi e repressivi. I quali, in mancanza di quel fenomeno, non avrebbero ragione di esistere. Questo Stato non avrebbe ragione di esistere.

L’universo del capitale ha già la sua “legge morale”, ontologicamente soggiacente, che perciò si erode, si è erosa sempre più: la “morale del pagamento in contanti”. L’”altra moralità” è finora apparsa soltanto come sogno e aspirazione, desiderio e pulsione. Non poteva che essere così. Perché una nuova, effettuale moralità può sorgere esclusivamente sul terreno di mondi sociali, culturali e umani, nuovi, non mai come pura contrapposizione/sovrapposizione all’esistente di idee e sentimenti “superiori” e allotri. Disancorati da “ciò che è”, interfacce, tutt’al più. Sempre che non si versi in tema di conclamata e, purtroppo, anche esaltata ipocrisia, naturalmente. Perché, come Hegel conclusivamente argomenta, al riguardo: “Chi si crede migliore di questo suo mondo, non può che esprimerlo nel modo più alto”. Incarnare l’idea di giustizia e la pura coscienza morale, pur nell’intera gamma del dolore universale, non cambia, non ha mai cambiato il corso del mondo. No, fuori dal mondo non è possibile (neppure) cadere.

*Ricercatore al Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria

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