L’antifilosofia della storia di Karl Marx
Raffaele Alberto Ventura
Marx senza fine
Uccidere la Storia. Porre fine alla fine. Se Karl Marx ha inteso un senso al suo cammino intellettuale, era nient’altro che questo. Un cammino che partiva da Hegel, certo – ma per scappare il più lontano possibile. Lasciare lì morto il padre crudele che l’ha cresciuto a cinghiate di metafisica, e mai più tornare sul luogo del delitto.
Ma sul luogo del delitto si torna continuamente. E la cosa peggiore è che quando sulla scena arrivano i testimoni, nessuno crede alla confessione, mista di orrore e fierezza. – Si, l’ho ucciso io! – Ma no, si calmi, lei è sotto shock, non ricorda, ha fatto il possibile, ma ora è troppo tardi: Hegel è morto. – Certo che si, l’ho ucciso io! – Suvvia, se ne vada, lei intralcia le indagini. Questo è un lavoro da professionisti. E pensano: dovevano fare fuori anche lei. – Guardate almeno, le mie mani lorde del suo sangue, e guardate come l’ho rovesciato, con la testa in giù. [1] – La testa in giù? E loro tranquillamente: ma certo, per la circolazione. Un uomo rovesciato resta pur sempre lo stesso uomo.[2] – Lo stesso uomo, si; però morto.
Alcuni furono così commossi dalla vicenda che dedicarono la vita a dimostrare l’innocenza di Karl Marx, e l’amorevole cura con la quale aveva accudito il padre morente, tenendo viva la fiamma della dialettica hegeliana.
Presero il nome di marxisti. Marx aveva scritto il Capitale pensando a loro: aveva scritto un tomo bello grosso, così che fosse doloroso da ricevere sui denti. Ma era davvero troppo grosso, e si faceva fatica ad armeggiarlo. Sicché i marxisti restarono integri, fecero la rivoluzione, e aspettarono con fiducia la fine della Storia – la fine che avrebbe “ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza”, come da lettera ai Corinzi. Marx aveva fondato scientificamente il cristianesimo paolino! Oggettivamente dimostrato il mito del progresso! La fiamma della dialettica hegeliana era in buone mani.
Uccidere la Storia. Porre fine alla fine. Se questo era il senso, Marx ha fallito. La sua critica radicale si è risolta in una correzione: via Dio, entri la base materiale; via la Provvidenza, entri una teleologia determinista; via la Dialettica, entri la lotta di classe. E ancora, di male in peggio: via Adamo ed Eva, ed ecco l’uomo prima del Capitale; via la seconda Venuta, ed ecco la Rivoluzione. Via Marx, lunga vita al marxismo! Cambiano gli attori, ma lo spettacolo è lo stesso: secolarizzato al gusto fin de siècle, una mistica positivista per il secolo a venire. E questo spettacolo ha un nome: filosofia della Storia.
Marx aveva fallito: la fine era sopravvissuta. E la Storia avrebbe vissuto l’ultimo suo periodo di fulgore. Un secolo nel quale titaniche congetture sull’avvenire avrebbero guidato la condotta delle masse. Ma se la fine era sopravvissuta, era malgrado Marx.
L’avventura del marxismo è la vicenda di un ricongiungimento con la metafisica hegeliana, un ricongiungimento mostruoso con l’idea di fine. Non stupisce l’interesse per Hegel da parte dei marxisti sovietici: se non ci sono i fini, i mezzi con cosa si giustificano? E (di rimbalzo) da parte comunisti europei, folta schiera di marxisti più o meno immaginari[3]: le storture al materialismo vengono compensate dal buonumore della dialettica, e il finalismo è sempre più rassicurante della sola causalità. Gli intellettuali francesi del Novecento si formano sulla lettura kojèviana di Hegel[4]: premessa a una lettura hegeliana di Marx, e quindi marxista. Senso della Storia, filosofia della Storia, fine della Storia. Teleologia. Escatologia, addirittura: è la lettura löwithiana[5]. Una lettura che lucidamente coglie i presupposti metafisici della filosofia marxista: ma non una lettura di Marx. Versione materialista della dialettica dello Spirito. La filosofia hegelo-marxiana.
Può darsi che il pensiero di Marx sia stato schiacciato su altri: da una parte su Hegel, da una parte su Engels, con le sue grandi ali piumate – poi Marx è ebreo, e lo si schiaccerà pure sul messianismo ebraico (è il marxismo utopista di Ernst Bloch[6]). Ed ecco, metafisica al punto giusto, e convincente come un’equazione. Ma già il fatto che la definizione ‘materialismo dialettico’ l’abbia coniata Engels nel 1892[7] qualcosa suggerisce. Può darsi che Marx non cercasse un nome perché fosse convinto di non dovere nominare nessuna filosofia: era certo d’avere debellato la filosofia della Storia.
Ne era convinto perché aveva proposto un’alternativa: lo studio causale dei fenomeni economico-sociali. Aveva cancellato ogni interpretazione finalistica, metafisica ma anche umana (determinando anche i processi politici, ovvero di matrice teleologica, a partire dalla base materiale). Aveva eliminato ogni idea di origine e di fine, ogni norma metafisica. Non soltanto Dio, ma ogni suo surrogato.
Nessun destino che guidi il corso degli eventi umani. Ma processi, regole, cause, necessità. Non profezie, ma teorie ‘scientifiche’ (e in quanto tali falsificabili, magari falsificate[8]): sarebbe dunque “empirico” rilevare, scrive Marx ne L’ideologia tedesca, che gli individui sono sempre più asserviti a un potere a loro estraneo, il “mercato mondiale”. E sarebbe altrettanto fondato empiricamente che questo potere, così misterioso per gli studiosi tedeschi, svanirà dopo il rovesciamento dell’ordine sociale con la rivoluzione comunista[9]. Infatti il comunismo “non è un sistema (Zustand) che debba venire istituito o un ideale secondo il quale la realtà debba essere diretta. Noi chiamiamo comunismo il movimento reale che toglie di mezzo il sistema attuale. Le condizioni di questo movimento risultano da presupposti attualmente esistenti”[10]. La retorica della scientificità è centrale per comprendere la specificità del programma marxiano.
Il processo studiato secondo gli strumenti della scienza empirica esibisce un punto di collasso, una caduta esponenziale rilevata in pagine di occulte simbologie matematiche – differenziali, incremento, plusvalore. Il capitalismo testimonia in ogni sua manifestazione il prossimo avvento della rivoluzione – in un senso quasi copernicano, quasi astronomico (ma i maligni suggeriscono: astrologico). È la “tendenza storica dell’accumulazione capitalistica”, come descritta nel capitolo ventiquattresimo del Capitale:
Qui è la rottura, o piuttosto la partecipazione di Marx a una rottura più grande, che scaccia il significato dall’interpretazione dei processi, liberandoli dalla loro forma narrativa. Così come il concetto d’evoluzione, nella teoria darwinista, ha permesso di fare a meno delle oscure teorie (finalistiche) del progresso, nello stesso modo Marx scardina l’idea che gli eventi umani e naturali, articolati nel tempo, siano partecipi di una Storia universale e con ciò complessivamente diretti ad uno svolgimento. La Storia resterà semmai come modello, arrivando a cose fatte per descrivere secondo le sue forme processi le cui leggi sono ben altre.
Le teorie che Marx formula, le ha tratte secondo il metodo della scienza: osservazione e generalizzazione. Fa continuo riferimento all’empirico e al causale, per smarcarsi dalla filosofia della Storia, con i suoi modelli metafisici e ideologicamente determinati, che saccheggiano gli archivi della memoria umana per rimontare la realtà come una favola a lieto fine. Marx compie quindi quello stesso salto che nello studio della filogenesi s’era fatto abbandonando l’idea di sviluppo per l’evoluzione: la rinuncia al modello finalistico d’interpretazione del divenire. Nel caso del divenire sociale e culturale, questo significa rinunciare all’idea di Storia.
Interludio: la Storia come racconto
Scrisse Jacques Lacan che ci rappresentiamo la realtà sotto forma di finzione.[12] Con ciò intendeva la supremazia del significante sul significato, l’idea (già freudiana) che le griglie nelle quali si rende nota la realtà – quel garbuglio schiumoso là fuori – sono degli a priori narrativi. Qualcosa accade, ma ciò che ne rimane è un racconto: degli agenti, delle azioni, una situazione iniziale e una fine. Sicché non abbiamo modo di esprimere la nuda esistenza senza ridurla nei subdoli canoni drammatici che la grammatica nasconde.
Alle regole di organizzazione dello spazio, indagate dalla psicologia della Gestalt, farebbero seguito delle regole di organizzazione del tempo. Non si tratta soltanto di ordinare gli eventi o dare loro un senso: ma di produrli. L’evento (la cellula temporale) è altrettanto artificiale dell’oggetto (la cellula spaziale): si tratta di una delimitazione della percezione. Linee immaginarie cingono porzioni di materia, e immaginari inizi ed immaginarie fini cingono porzioni di movimento.
La Storia è il genere in cui si esplica la conoscenza dei processi. Pur nell’esercizio della più strenua epoché, risulterebbe difficile immaginare questi processi al di fuori del genere che li manifesta. E questo genere ha caratteristiche vincolanti. Queste strutture articolano l’organizzazione dei processi, e perciò ne determinano il significato. La necessaria forma narrativa incide sull’interpretazione dei processi rappresentati. Si accennava sopra, innanzitutto ad una distribuzione dei ruoli precisamente drammatica:
Conseguenza della drammatizzazione è l’antropomorfizzazione dei processi. Il concetto stesso di soggetto non può che suggerire una proiezione animistica. Inoltre il linguaggio è una continua metafora umanizzante; ma questa è semantica, dove il gioco è fin troppo semplice.
La delimitazione dell’evento ha effetti del tutto simili, poiché identificando nel processo un inizio e una fine, lo rappresenta come superficie di uno sviluppo finalizzato. La linguistica ottocentesca ha fissato questa forma nella categoria dell’aspetto: ovvero la collocazione temporale di ‘inizio’, ‘sviluppo’ e ‘fine’ dell’azione definisce diversi tipi aspettuali (perfettivo, durativo, risultativo, eccetera). L’evento non può essere inteso – ovvero non esiste – in termini che prescindano da questa articolazione più o meno scoperta (semmai, e così si definisce ogni tipo aspettuale, si può cancellare o focalizzare una o più fasi della durata). Anche in questo caso sul processo incombe una proiezione animistica, o perlomeno vitalistica.
Il processo, delimitato e drammatizzato in forma di storia, si trova costretto nei limiti di una certa struttura: una griglia universale, nelle cui caselle prendono posto gli elementi della narrazione. Ogni storia ha delle funzioni invarianti, poiché essenzialmente la storia è il modello di realtà che si costruisce a partire da queste funzioni. Le più elementari sono state enunciate, e sono d’ordine temporale (inizio, sviluppo, fine) e drammatico (agente, agito, azione).
Una struttura narrativa è presente, a livello sintattico, in qualsiasi descrizione di processi. In questo senso l’enunciato è già una storia. Ulteriori funzioni intervengono, o si mostrano scopertamente, a livello di sequenze di enunciati. Queste funzioni sono oggetto di studio della narratologia.
L’idea del genere come forma, di programmatica ispirazione goethiana, nasce con la teoria morfologica della letteratura di Propp: idea di strutture narrative profonde, immanenti alle narrazioni di ogni cultura. L’indagine empirica, ovvero il confronto tra centinaia di fiabe, ha permesso la formulazione del seguente schema generale:
La narratologia strutturalista ha proceduto nel solco di questa intuizione, astraendo regole vieppiù universali, che approssimano una definizione di ‘essenza della storia’, un modello di forma originaria – una Ur-Geschischte immanente alle varie occorrenze del fenomeno. A grandi linee nello schema attanziale di Greimas[15] rimane valida, per ogni narrazione, la struttura proppiana: situazione iniziale, danneggiamento, fase intermedia, risoluzione, soluzione finale.
Questo modello narrativo è valido fino alle unità minime dell’enunciazione. Nota Roland Barthes, rilevando l’isomorfismo di frase e discorso, che “la tipologia attanziale di A. J. Greimas ritrova nella moltitudine dei personaggi del racconto le funzioni elementari dell’analisi grammaticale”[16]. Infatti la struttura narrativa formalizzata è presente a livello proposizionale: la triade ‘danneggiamento – fase intermedia – risoluzione’ è coperta nell’articolazione aspettuale, la situazione iniziale è lo stato dell’agente e la situazione finale (sovrapposta alla risoluzione) il risultato dell’azione.
La forma narrativa è immanente a qualsiasi descrizione di processi, resi noti in una struttura finalizzata e antropomorfica. Ciò significa che ogni processo si descrive in questa forma. Rappresentare l’evento in una lingua naturale – ovvero raccontare – implica la produzione di un processo delimitato e drammatizzato: una storia. Accade però che ad un certo punto questa modello, questo genere, s’ipostatizzi – diventi cosa. Con un gioco di parole, vano perché assai poco divertente, e gioco per sola ironia delle sorti etimologiche, possiamo dire che ci risulta difficile immaginare la Storia (history) se non come storia (story).
È difficile immaginare di fare a meno delle storie. Gli archivi della memoria umana – memoria degli uomini e memoria dei popoli – sono collezioni di storie. È difficile immaginare di fare a meno delle storie; ma non per questo è impossibile fare a meno della Storia. Ad ogni modo, si tratta di cose ben distinte. La letteratura bizantina distingueva due generi di letteratura sul passato dell’umanità: la cronografia e la storiografia[17]. Le storie sono narrazioni su periodo limitato a pochi secoli, di eventi spesso contemporanei, ossequiosamente calcate sul modello della storiografia greca; le cronache partono dalla creazione del mondo, raccontano la Storia degli uomini da Adamo ai giorni loro. Inoltre, tengono in conto la scansione del tempo, rivolto all’aspettativa escatologica. La distinzione bizantina può valere come caricatura della distinzione tra la storia come genere di rappresentazione dei processi (come metodo di archiviazione), e la Storia come “grande narrazione” onnicomprensiva e unitaria – come proiezione del modello sulla realtà.
La differenza tra scrivere una Storia e scrivere storie, è che nel primo caso si considera l’intero passato come una Storia: ovvero con un inizio, uno sviluppo, e una fine. Non si sfugge a questo meccanismo, dacché s’intende fare una Storia, dacché ci si rivolge ad un oggetto chiamato Storia. Che il divenire sociale e culturale della razza umana sia una Storia, è certo il prodotto di una vistosa interferenza del significante sul significato – del quale sarebbe opportuno tracciare la genealogia. Questa idea ha una sua origine e una sua fine: ha cioè una storia.
Erodoto scrisse delle Storie, e con ciò inaugurò ciò che chiamiamo la Storia – secondo il motto ciceroniano[18]. In verità scrisse dei ‘logoi’, dei discorsi, che vennero raccolti e montati molto più tardi, in epoca alessandrina nella forma che conosciamo. Due cose vanno rilevate in quel titolo, che pur non originale, funge da atto di fondazione di una disciplina (la storiografia) e del suo oggetto (la Storia). Innanzitutto il doppio significato del verbo historein: indagare, e raccontare. Ovvero l’idea che la conoscenza sia tutt’una cosa con la rappresentazione. L’idea che conoscere sia nient’altro che rappresentare. Insomma, nei nostri termini, che sia proprio drammatizzando e delimitando, costruendo il processo come oggetto linguistico, che si hanno le condizioni della conoscenza, che è sempre conoscenza di quell’oggetto che si è costruito.[19]
La seconda cosa che ci dice quel titolo è nel suo plurale: Erodoto non scrive una storia, ma delle storie. Il pater historiae è in realtà piuttosto pater historis, quindi semmai pater ‘delle’ historiae. C’è un passaggio dal plurale al singolare, tra Erodoto e Cicerone, che non è per nulla evidente: nel senso che in Erodoto non troviamo l’idea di una Storia – una storia unica, la Storia – ma appunto soltanto delle storie, una galleria disordinata quanto affascinante di racconti, testimonianze, aneddoti, cronache e nomi buffi – una tassonomia borgesiana del passato dell’umanità. Ognuna di queste storie è delimitata e drammatizzata: ma appunto non c’è una delimitazione o una drammatizzazione complessiva.
Erodoto non può quindi essere il padre della Storia: semmai, della storiografia – ovvero dell’arte di raccontare eventi passati, raccoglierli e interrogarli. La distinzione può apparire nominalistica, come quando soltanto per pretestuoso cruccio di chiarezza definiamo storiografi coloro che, spontaneamente, avremmo chiamato storici. In verità il suo senso è: in Erodoto non c’è l’idea di un oggetto come la Storia. L’oggetto è il passato, prima di essere delimitato e drammatizzato sotto forma di Storia. E dal passato possiamo raccontare delle storie.
Mentre Erodoto meticolosamente s’occupava di archiviare i racconti attorno al secolare conflitto tra Greci e Persiani, altri cantavano l’origine degli uomini – ed erano i poeti. L’intento dichiarato di Esiodo era di raccogliere e ordinare in un sistema la massa d’idee sull’Origine. Senza origine non ci sarebbe stata Storia. Altrove ancora si collegava l’origine ad una promessa di risoluzione, si descrivevano cadute, si dava un senso ad ogni cosa, e si prometteva una Fine che avrebbe ricomposto l’infranta norma originaria. Lì nasceva davvero la Storia, ovvero la narrazione della totalità del divenire umano in un racconto unitario, nel quale gli eventi particolari assumessero significati funzionali ad una fine prevista. La Storia, come disciplina e come oggetto, nasce quando la storiografia si mette al servizio del mito.
E poiché ogni Storia si stabilisce nella tensione tra un’origine e una fine, la filosofia della Storia è il dispositivo che determina l’origine e la fine; ovvero ciò che da fuori, investe di senso il divenire umano. Una storia essendo sempre ideologica (nella scelta di valore dei poli tra cui si esplica), ad ogni storia (come articolazione formata di contenuti) è necessaria una (più o meno coperta) filosofia della storia (come giustificazione dell’ideologia). L’origine e la fine sono sempre fissate sporgendosi al di là dell’empirico: sull’ideale, e perciò sull’ideologico. La filosofia della Storia è il tentativo di razionalizzare l’irrazionale, di mimare la determinazione logica di ciò che è determinato ideologicamente.
Dopo la Storia
Verso la fine del primo libro del Capitale, nel quale si è meticolosamente lavorato allo stabilimento di ferree leggi, o viziose regolarità, Marx compie un salto improvviso fuori dal sistema capitalistico – un salto ipotetico, quasi teologico come riconosce lui stesso. Ma dal circolo della legalità capitalistica bisogna uscire per illustrarne la genesi (che ovviamente a quelle leggi non risponde), “supponendo un’accumulazione ‘originaria’ [...] che viene prima dell’accumulazione capitalistica, accumulazione che non è il risultato del modo di produzione capitalistico, bensì il suo punto di partenza”.
Questo salto fuori dalla legalità, fuori dalla scienza, lo fa raccontando una storia. Esiste un Marx storiografo, accanto al Marx studioso di società e di economia politica: ovvero esiste un Marx che racconta storie. È il Marx del Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, il Marx soprattutto di questo capitolo ventiquattresimo del primo libro del Capitale, nel quale s’indaga sulla “Cosiddetta accumulazione originaria”. Si tratta di una storia dell’origine del capitalismo, un’origine che “ha nell’economia politica una parte pressoché identica a quella del peccato originale nella teologia”.
Marx sottolinea il carattere ipotetico della sua ricostruzione, e con ciò intende evitare il primo tranello della metafisica: non pretende di applicare alcun metodo oggettivo al suo racconto. Anzi rivendica il carattere pre-scientifico, ma più profondamente meta-scientifico, di quella necessaria fondazione del sistema all’interno del quale sono valide le leggi da lui studiate. D’altronde la storiografia non può che essere pre-scientifica, ad occupare quei vuoti che l’economia politica lascia in minuscole quantità, a rappresentare in forma di racconto le coordinate di processi assai più profondi – laddove la loro limpida legalità sfugga.
Il secondo tranello della metafisica, il più pericoloso, nel quale continuamente ci si illude che Marx sia caduto, l’evita invece negando di narrare un’origine universale e normativa. Non è l’origine della Storia, ma la genesi dell’accumulazione capitalistica; non si tratta di un’origine idilliaca alla quale tornare (il sistema feudale!) ma di un modo di produzione differente, e diversamente violento. Secondo i canoni dei bizantini, Marx non stava facendo cronografia, ma storiografia (che non per nulla era ramo della retorica: ovvero un metodo di espressione, e non di produzione del vero).[20] Identicamente, il ‘metodo scientifico’ non si applica alla Storia, ma al processo noto come modo di produzione capitalistica.
Non è questa una narrazione dell’origine della Storia, così come altrove le previsioni sul collasso del sistema capitalista non erano profezie sulla fine dei tempi. Marx avvertiva: “Il comunismo è la forma necessaria e il principio energico del prossimo avvenire, senza essere in quanto tale il fine dell’evoluzione umana: la forma realizzata della società umana”[21]. Nessun uomo nuovo, ideale, rousseaiano. Nessuna evoluzione finalizzata – ma la sola necessità del determinismo. Ancora più esplicitamente, non è la fine della Storia: “Con questa formazione sociale si chiude, dunque, la preistoria della società umana” [22]. Poi si vedrà.
Löwith riassumeva così il pensiero hegeliano, con una frase che sembra già pronta ad essere tradotta in marxiano: “Che non soltanto si possa aspettare un fine ultimo della storia tutta quanta, sperarvi e credervi, ma anche saperlo e concepirlo filosoficamente, è stata la tesi della filosofia della storia di Hegel”[23]. E aggiunge: “Ma questa è anche la tesi del materialismo storico di Marx”. Eppure, non basta sostituire quel “filosoficamente” con “scientificamente” per descrivere il pensiero di Marx; bisogna perlomeno rinunciare a quel “fine ultimo”, bisogna limitare quel “storia tutta quanta”. E di conseguenza non è il caso di parlare né di “filosofia”, né di “storia”; e così rimane assai poco, di quella universale traducibilità di Marx in Hegel.
Sono perciò squisitamente improprie le varie versioni sulla filosofia della Storia di Marx, di vulgata comune. È necessario riconoscere nel cosiddetto marxismo (o materialismo storico) una filosofia ispirata al pensiero ‘scientifico’ di Karl Marx; non meno di quanto il pensiero di Spencer (o peggio, la teoria eugenetica di Sir Francis Galton) siano ispirati dall’evoluzionismo di Darwin; né di più. Sarà così possibile affermare, senza però coinvolgere la responsabilità di Marx stesso:
Quella di Marx non è una filosofia della Storia: innanzitutto perché intende essere scienza, e non filosofia (riflettendo in termini di cause efficienti e non di cause finali). Ma più profondamente, perché il suo oggetto non è la storia, ma un particolare processo, il modo di produzione capitalista. E per studiare quest’oggetto andava rifondata una scienza: l’economia politica.
Parlare di “scienza della Storia”[25] rileva della contraddizione, poiché applica ad un oggetto (la Storia) il termine del suo superamento (la scienza). Studiare ‘scientificamente’ i fenomeni sociali significava per Marx rinunciare alla Storia come oggetto. Parlare di “scienza della Storia”, come Marx non ebbe mai l’ardire di fare (poiché gli era ben chiaro ciò che stava facendo), significava in fin dei conti applicare metodi scientifici alla vecchia filosofia della Storia. Ovvero qualcosa d’impossibile – spiegare il falso con gli strumenti del vero. Significava una rivoluzione di superficie: armarsi del bagaglio retorico della nuova ideologia dominante (il positivismo) per fondare con l’autorità della scienza le solite vecchie promesse metafisiche. Utopismo scientifico. Menzogna ideologica.
È innegabile che gli effetti più palpabili della teoria marxista siano il prodotto di questo semplice aggiornamento retorico, che non era in alcun modo il programma di Marx (ma piuttosto una segreta confusione alimentata nelle promesse del comunismo). E la ragione di questo malinteso è che si è entusiasticamente sostituito alla filosofia la scienza, pur non volendo rinunciare alla Storia. Ma non si può uccidere la filosofia della Storia senza uccidere la Storia stessa: l’idea di un divenire unitario, finalizzato, narrativo che la parola nemmeno ha il gusto di nascondere, ma platealmente esibisce, e continuamente rivendica. Un oggetto costruito secondo i presupposti metafisici di una disciplina – un modello di analisi soggettivo che funge da perfetto vettore per l’ideologia (dacché i fini non possono essere oggetto di determinazione oggettiva, sono sempre posti ideologicamente).
La storia è un insieme di tecniche che permette di rappresentare i processi in forma drammatica. Non è l’unico modo di costruire modelli della realtà: una curva demografica descrive processi in tutt’altra forma, secondo tendenze di variazione quantitativa. La ‘rivoluzione storiografica’ della scuola delle Annales è stata per gran parte un tentativo di liberare lo studio del passato dalle forme drammatiche della storia, intesa come memoria e racconto. Ovvero, liberare la Storia dalla storia. Fessurare il significante che l’imprigiona. Scardinare il significato per rifondarlo. Disambiguare un doppio senso. E in fin dei conti, poiché i doppi sensi non sono altro che la personalità multipla di un senso unico – rinunciare alla Storia. Frammentarla e rimontarla.
La rivoluzione delle Annales è parte di una rivoluzione più consistente, il momento culminante di una rottura che s’inaugura trasferendo nello studio del divenire sociale le stesse istanze antifinalistiche rivendicate dalla teoria dell’evoluzione. Una rottura che s’incarna pienamente nell’antifilosofia della Storia di Karl Marx. Il fallimento di Marx consiste perlopiù nel non avere costretto i filosofi a riconoscergli il merito dell’operazione, a non avere aperto loro gli occhi sulla rottura che si era compiuta. La Storia non era più la forma idonea a rappresentare i processi su lunghi periodi. Questa morte può non avere toccato la filosofia, ma assai poco tocca la filosofia: ha invece influito grandemente sulle scienze sociali.
Michel Foucault, nell’introduzione all’Archeologia del sapere, mette direttamente in relazione Marx con la rottura avvenuta negli studi storici, e alle nuove domande che si pongono dopo la fine dell’idea metafisica di Storia[26]. Altrove parlava esplicitamente di volere “uccidere la Storia dei filosofi”[27], emulando idealmente gli intenti criminosi di Marx. Pur conservando il nome di storici, gli eredi di Marx non studiano la Storia: piuttosto, accordano processi in quadri momentanei, agganciando tra loro serie disarticolate (“serie differenti che non hanno i medesimi punti di riferimento né la stessa evoluzione”[28]) in “serie di serie”.
La Storia, caso più unico che raro, è un oggetto che non ha saputo farsi da parte nel momento in cui nuovi modelli di rappresentazione (la sociologia, l’economia politica, la statistica, ecc.) sembravano in grado di soppiantarla. Non ha saputo cioè sostituire al modello del racconto il modello della legalità, o piuttosto ha voluto applicare la legalità ad un oggetto che rimaneva cristallizzato come racconto (oggettivando quindi le componenti soggettive).
Non soltanto la storia si è dibattuta tra questi due estremi – il modello del racconto e il modello della legalità – ma ogni ambito della conoscenza. Ogni disciplina ha vissuto, a un certo punto, una rottura: il passaggio dalla storia alla scienza. Come la nominazione è per Adamo la prima forma di appropriazione delle cose, il racconto è la prima forma della conoscenza. Prima d’indagare le cause, è necessario almeno descrivere il fenomeno. Lo stadio del racconto precede, nello sviluppo della scienza, l’identificazione di leggi e regolarità. La cosiddetta ‘storia naturale’ diventa biologia dacché parte dal racconto per andare oltre. Pressappoco con Buffon – che pur ancora scrive una Histoire naturelle, nella quale però avverte :
La biologia era restata storia naturale fintanto che si era limitata a raccontare; a questa lunga fase empirica è succeduto un programma induttivo: combinare le osservazioni, generalizzare i fatti. Ad alcuni parve ovvio che lo stesso balzo dovesse avvenire per la Storia tout-court, che fosse necessario superare lo stadio del racconto, che il materiale grezzo raccolto dai tempi di Erodoto venisse finalmente usato come base empirica per la fondazione di una scienza.
Se, al contrario, la storia non ha superato questo ostacolo, se ancora le varie “scienze della storia” vengono intese in relazione ad una struttura narrativa, se anzi queste spesso s’impegnano a giustificarla, rilevando con gli strumenti dell’analisi quantitativa gli indizi di sviluppi rivolti ad una conclusione più o meno metafisica – se insomma la Storia è rimasta storia, è perché non ha potuto ammettere la propria desuetudine in quanto Storia. Non ha cioè saputo rinunciare ad un termine che, rivolto ad abbracciare le discipline sociali nel loro sviluppo temporale e dando loro unità, le cinge in una prospettiva metafisica, in quanto teleologica. Risulta contraddittorio continuare a parlare di Storia, se davvero s’intende farla finita con l’idea di funzioni narrative incarnate dai processi sociali e culturali.
I due modelli presentano forme di causalità inconciliabile: il modello scientifico spiega i fenomeni in termini di causa efficiente, categorizzando classi di cause a classi di effetti; il modello narrativo distingue tra funzioni narrative e “rumore” – secondo il ruolo nella complessiva economia teleologica o escatologica. Nel primo modello si rappresenta ogni fenomeno dotato di causa efficiente, ovvero l’intero universo fisico; nel secondo il rapporto con la causa finale funge da inderogabile soglia d’interpretabilità. La matrice teleologica della Storia la pone immediatamente al di fuori da un programma scientifico conforme al paradigma meccanicista proprio dell’età moderna, il cui fondamento è il “postulato di oggettività” di Jacques Monod, ovvero l’idea di non interpretare i fenomeni in termini d’intenzionalità soggettiva[30]. Non è slegato che venendo a mancare l’idea di un’emanazione del mondo da un’entità razionale suprema, perda senso ogni interpretazione finalistica[31]. Ed è certamente rivelatore che Nietzsche, il profeta della morte di Dio sia allo stesso tempo il profeta dell’eterno ritorno, ovvero un modello di legalità regolare – contrapposto al finalismo hegeliano.
Antifilosofia della Storia
La fine della Storia. A modo suo, Hegel aveva giustamente profetizzato: la Storia è finita. Ma non nel senso che le tormentate vicende umane hanno trovato una fine e una giustificazione. Piuttosto, le tormentate vicende umane avevano finito di cercare la loro fine. Con Marx moriva l’idea di Storia. Solo una cosa aveva voluto, come filosofo: farla finita con la fine della Storia – ovvero farla finita con la Storia. Ad un modello narrativo e complessivamente teleologico sarebbe subentrata l’analisi materialista dei processi sociali. La delimitazione del modello non avrebbe più dovuto essere proiettata sulla realtà, a suggerirne destini metafisici. Non ci sarebbe più stata una filosofia della Storia perché non esisteva nessuna Storia.
Sottraendogli la Storia, si può addirittura dubitare che Marx abbia prodotto una filosofia. Ma c’è qualcosa nel suo pensiero, che prende il posto della filosofia della Storia, qualcosa la sostituisce e in qualche modo ne fa le veci. Una tenace critica dei suoi presupposti – delle sue allucinazioni prospettiche – delle sue implicazioni politiche: una filosofia della filosofia della Storia. Una filosofia contro la Storia. Un’anti-filosofia della Storia.
È consuetudine non riconoscere a Marx il merito di questa rottura, lucida e fermissima; e anzi sempre più spesso trarre dalle sue argomentazioni quelle stesse che si useranno per criticarlo, dal suo lessico le categorie della sua condanna. Caso esemplare: lo spettro dell’ideologia. O ancora, il presunto culto marxiano del progresso. A questi luoghi comuni risponde la lettera marxiana: una continua lotta per individuare le determinazioni eteronome del pensiero (intese come esclusivamente materiali) e per disinnescare i falsi miti da esse prodotti.
Una ridotta parte dell’opera marxiana, l’unica parte precisamente filosofica, è dedicata allo scardinamento dei fantasmi metafisici – come fu per il suo compagno di sinistra hegeliana, l’aborrito Max Stirner. In particolare, i fantasmi della Storia. Per Marx la filosofia della Storia è un dispositivo ideologico che ‘giustifica’ i rapporti di produzione, consolidandone la funzione metastorica nella chiave di un senso del divenire. Nello stesso tempo, tutte le categorie del pensiero storiosofico sono proiezioni retrospettive di un significato costruito artificialmente.
Grazie ad artifici speculativi, ci si può convincere che la storia che verrà è lo scopo della storia passata. Così, per esempio, s’attribuisce alla scoperta dell’America uno scopo, quello di avere permesso lo scatenamento della Rivoluzione francese. [...] Ciò che nella precorsa storia si definisce con i termini “vocazione”, “scopo”, “germe”, “Idea”, non è altro che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia precedente esercita sulla seguente. [33]
Sono passi centrali nell’opera di Marx: perché rivendicano l’inconciliabilità del suo pensiero con la filosofia della Storia hegeliana. In un certo senso, con la filosofia della Storia tout court, intesa come proiezione di correlazioni narrative sulla realtà rappresentata. L’individuazione di funzioni o indizi, che sono categorie narrative, è possibile soltanto sul testo costruito; e il testo è sempre in qualche modo un’astrazione, ovvero un prodotto dell’ideologia.
I filosofi sono dei “pecoroni”, che si limitano a “riecheggiare, filosoficamente belando” le concezioni borghesi[34]: la filosofia della Storia è una sovrastruttura che traduce le opinioni della classe dominante, o più precisamente che organizza la realtà storica in funzione dei rapporti di produzione. È del tutto logico quindi che in una società nella quale il potere politico (teleonomico) andava lasciando spazio al caos del mercato, emergessero filosofie volte a sviluppare teorie della finalità dei sistemi aleatori, come la dialettica hegeliana o la cosiddetta ‘mano invisibile’ di Smith. E laddove la bontà del modo di produzione non fosse già esplicita, era il caso di prometterla come sviluppo futuro.
Il progresso è una idea falsa, ovvero adottata non perché dimostrata, ma perché ragioni economiche e sociali spingono ad adottarla: una illusione che sostiene l’intero peso di un sistema. Il progresso è perfettamente funzionale alla borghesia, in quanto permette di ripagare lo sfruttamento con una falsa promessa. Se il lavoro viene pagato con il salario, il plusvalore viene pagato in rappresentazioni: e tanto più aumenta il valore illusorio delle rappresentazioni, quanto minore potrà essere il salario.
Capita che questi passi, tra i primi che osino mettere in crisi l’illusione storiosofica, sfuggano. Capita perché sono pochi, e di certo non sufficienti a bilanciare la retorica e il tono profetico del Manifesto del partito comunista; che potrebbe essere un errore di metodo considerare sullo stesso piano delle opere ‘scientifiche’. Ma questi passi sono forse così pochi, e fuggevoli, perché Marx aveva cessato di considerare Hegel e i filosofi della Storia come suoi interlocutori. Bastava liquidare così, in poche parole, il loro metodo.
Ma questa rottura è tra le intuizioni più grandi di Marx, intuizione che verrà raccolta dall’epistemologia storiografica del Novecento: la Storia come finzione costruita. [35] La Storia come ideologia, organizzazione del passato per posizionare un punto di fuga nel futuro che giustifica il presente (e quindi la Storia del passato come storia del soggetto dominante). La critica dell’idea di germe, e con ciò della temibile origine (nella quale cascheranno molti ‘marxisti immaginari’ come Walter Benjamin). La critica della fine, della mano invisibile che lavora dietro ad ogni cosa.
Se Marx riconosceva a Charles Darwin il merito di avere liberato la Natura da ogni proiezione teleologica, non era certo per rimetterla nella Storia. Esiste in Marx una filosofia della storia? Probabilmente no. Ma sicuramente un’idea di Storia: che non ci sia un senso della Storia (un finalismo, e nemmeno una direzione complessiva), ma che si possa cogliere la tendenza di singoli processi, e ciò con gli strumenti dell’economia politica e delle scienze sociali. Esiste in Marx una fine, o peggio un fine, della Storia? Assolutamente no. Certo non si può negare l’entusiasmo messianico, dietro una concezione della storia che coscientemente lo nega. Il piano della retorica con la quale un’idea s’impone ne influenza fino al contenuto, lo contamina, fino a sostituirlo: forse non c’è altro contenuto che la sua forma più superficiale.
Ma il ‘programma scientifico’ di Marx è tutt’altra cosa dalle speranze e dalle utopie che l’hanno prodotto, del quale è stato snodo e architettura portante. Le teorie sulla tendenza autodistruttiva del capitalismo sono senza dubbio funzionali alle intime speranze del comunismo, senza dubbio ispirate dalla passione politica di un uomo – ma non per questo non distaccabili dall’ideologia dalla quale sono emerse. L’interna logica delle scoperte scientifiche prevede la posizione della teoria prima della sua dimostrazione, fintanto che la dimostrazione non falsifichi, oltre ogni possibile accanimento, la teoria. Ma se è vero che il risultato di tendenze causali dell’accumulazione capitalistica forniva lo stesso verdetto morale di chi avesse osservato le condizioni del proletariato (tutto ciò deve finire!), non si può non riconoscere l’encomiabile sforzo intellettuale marxiano di separare questi due verdetti, di non fondare uno nell’altro, di forgiare nuovi strumenti e di criticare quelli vecchi (che saranno poi nuovamente quelli del marxismo).
Questo sforzo è in gran parte fallito, e Marx finisce per fare la figura del filosofo un po’ svanito che, dopo avere dimostrato per filo e per segno ciò che gli era già del tutto evidente, esclama: Oh, che coincidenza! Ma com’è ovvio, si fa assai più caso alle determinazioni esterne quando producono una teoria che si vuole falsa rispetto a una che si vuole vera; finendo per dimenticare che la critica della cause (determinazioni ideologiche) e degli effetti (conseguenze politiche) non è in alcun modo una confutazione della teoria. Ma soprattutto, che nessuna confutazione è mai davvero definitiva.
Venezia, Gennaio 2006
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