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Krugman, il «socialismo reale» e il trionfo del capitalismo

di Sebastiano Isaia

Ho letto l’edizione «aggiornata» del saggio di Paul Krugman sul Ritorno dell’economia della depressione pubblicato per la prima volta nel 1999 (Garzanti), dopo le crisi finanziarie che sconvolsero diverse economie dislocate un po’ su tutto il globo: dall’Asia all’America Latina, passando per la Russia. Avevo letto quell’interessante edizione, rispetto alla quale la nuova (Garzanti, 2009) non aggiunge niente di sostanzialmente nuovo, e piuttosto conferma la lettura post-keynesiana (o «liberal», come preferisce definirla l’autore) delle crisi passate, presenti e future. Per l’economista di successo la crisi internazionale partita alla fine del 2007 dagli Stati Uniti nasce, «come negli anni Trenta», dal sistema finanziario per abbattersi successivamente sull’«economia reale», provocando gravi sconvolgimenti in tutta la struttura sociale.  Tesi ribadita anche nel saggio La coscienza di un liberal (Laterza, 2009), un vero e proprio manifesto per «un nuovo New Deal». Com’è noto, il Presidente Obama ha fatto di tutto per deludere le aspettative del guru economico.

Sembra che i nessi interni che legano inscindibilmente il sistema finanziario alla cosiddetta «economia reale», alla cui sfera occorre peraltro ricondurre, «in ultima istanza», i fenomeni – speculazione compresa – che hanno fatto di quel sistema il Moloch che conosciamo, continuano a rimanergli per l’essenziale ignoti, nonostante il Nobel agguantato nel 2008. Ho sempre pensato che la comprensione dell’essenza storica e sociale del Capitalismo è troppo importante perché sia lasciata nelle mani degli scienziati sociali, e che solo la coscienza – «di classe» – è in grado di afferrare la cosa alle radici.

Ma non è su questo aspetto “dottrinario” che intendo adesso fermare brevemente la mia attenzione.

Ciò che nuovamente mi ha colpito leggendo il saggio del 1999 sono le pagine iniziali dedicate al «trionfo del capitalismo», le quali a mio avviso rendono giustizia, per così dire, al mio modesto lavoro teso a fare chiarezza sul significato del «socialismo reale» e del “comunismo” di matrice stalinista.

Per il premio Nobel «L’evento politico fondamentale degli anni Novanta» è stato infatti «il crollo del socialismo, considerato non soltanto come ideologia dominante, ma come ideale in grado di far muovere la mente degli uomini». Qui si coglie in pieno la tragedia rappresentata dallo stalinismo, in tutte le sue varianti nazionali (maoismo compreso), il cui miserabile fallimento ha annichilito l’idea stessa di emancipazione rivoluzionaria, di affrancamento dell’uomo da ogni forma di oppressione sociale. Il «socialismo reale» ha confermato in pieno la tesi di Churchill secondo la quale il Capitalismo fa certamente schifo, ma rimane pur sempre il miglior sistema sociale inventato dagli uomini.

Che servizio senza pari ha reso il «socialismo reale» al Capitalismo mondiale! Particolarmente odioso mi è apparso il tentativo di molti ex o post “comunisti” dalla lunga coda di paglia di dimostrare che, nonostante tutto, anche il Capitalismo non se la passava poi così bene: «l’ha detto persino Wojtyla!» Ricordo che questo fu il risibile mantra dei rifondatori dello statalismo guidati da un certo Fausto Bertinotti.

Di qui, il mio sforzo teso a dimostrare come il cosiddetto «socialismo reale», non importa se con «caratteristiche» cinesi, coreane, russe, jugoslave, albanesi, cubane, emiliane, ecc., non sia in realtà stato altro che un capitolo particolarmente escrementizio del Libro Nero del Capitalismo mondiale. Un Capitalismo di Stato (peraltro nemmeno con tutte le carte in regola: vedi, ad esempio, il ruolo che la cosiddetta «economia informale», cioè privata, ha giocato nell’economia russa) e un Imperialismo (vedi l’Unione Sovietica) spacciati per “socialismo” e “internazionalismo proletario”: una fantasmagorica balla speculativa che non smette di pesare sull’attualità, come dimostra l’esemplare citazione attinta dal libro di Krugman.

Il plus di ripugnanza va appunto ricercato nell’ideologia posta al servizio del reale Capitalismo dei paesi cosiddetti socialisti. Di questo fondamentale acquisto teorico e politico sono debitore a quei pochi comunisti europei che già negli anni Venti del secolo scorso seppero denunciare davanti al proletariato mondiale il ripiegamento controrivoluzionario dell’Ottobre Sovietico, a causa dell’isolamento internazionale in cui venne a trovarsi la stremata Russia rivoluzionaria alla fine della guerra civile (*). Coraggio (non è facile nuotare controcorrente, soprattutto quando si è presi tra due fuochi: fascismo e stalinismo, nella fattispecie) e coscienza  di classe, insieme.

«La ragione per cui l’Unione Sovietica sia finita così all’improvviso, senza esplosione, ma con solo un leggero brontolio, va considerata uno dei grandi misteri dell’economia politica». Un “mistero” che tuttavia si spiega perfettamente alla luce della storia della moderna società russa. Mi permetto di citare alcuni passi di un mio opuscolo (A carte scoperte) scritto nel 1990, a macerie berlinesi ancora fumanti, dedicato appunto al crollo del «socialismo reale».

«[…] La perestrojka, ossia la politica delle riforme strutturali, non è un concetto nuovo in Unione Sovietica: di ristrutturazione dell’obsoleto apparato economico russo si iniziò infatti a parlare nella seconda metà degli anni sessanta, quando il gap che separava l’economia sovietica da quella dei paesi capitalistica menta più avanzati apparve in tutta la sua imbarazzante e problematica dimensione. D’altra parte, la forza gravitazionale esercitata sul blocco orientale da Paesi in forte espansione economica come Germania, Francia e Italia non ha smesso di crescere dal secondo dopoguerra in poi, mettendo l’Unione Sovietica nelle condizioni di dover compiere delle scelte sistemiche assai complesse e delicate.

Esperimenti di apertura economica furono tentati sia nel settore agricolo, in crisi praticamente da sempre, sia nel comparto industriale; timidi tentativi che tuttavia riscossero un certo successo. Si osservò, in particolare, che introducendo nuove tecnologie (importate dalla Germania e dall’Italia), organizzando con maggiore flessibilità il processo di produzione, licenziando la forza-lavoro in esubero e aumentando i salari dei lavoratori occupati cresceva tanto il volume della produzione agricola e industriale, quanto la produttività del lavoro per singolo addetto. Nei colcoz sottoposti a ristrutturazione, le rese agricole aumentarono in quantità e qualità, e al contempo gli agricoltori assunti in regime di libera contrattazione arrivarono a guadagnare in un anno un compenso pari a undici volte quello ottenuto dai contadini a salario fissato per legge.

Si capì allora che per risanare l’economia del Paese bisognava passare a una nuova fase dell’economia sovietica, caratterizzata da un forte dinamismo, da una marcata flessibilità e da una ben più alta produttività del lavoro rispetto alla fase precedente, che pure aveva consentito alla nazione un possente sviluppo capitalistico, teso soprattutto a sostenerne la struttura imperialistica. Le “riforme strutturali” dovevano innanzitutto spezzare il circolo vizioso fatto di bassa produttività, parassitismo politico-sociale e militarismo esasperato.

I costi di questa impresa apparvero però subito assai salati, e alla fine insostenibili nel contesto interno e internazionale d’allora, sia per le drammatiche conseguenza sociali (in un solo anno, 1966, di sperimentazione economica si persero migliaia di posti di lavoro e si contarono milioni di ore di lavoro bruciati in scioperi), e ciò in un Paese che non possedeva un’efficace strumentazione politica di gestione della conflittualità sociale, che non quella della brutale repressione; sia, soprattutto, perché le necessarie riforme economiche imponevano appunto misure altrettanto radicali nella sfera politico-istituzionale, cosa che avrebbe potuto mettere in moto analoghi processi nei Paesi “fratelli”, con esiti difficilmente immaginabili sul collante politico-ideologico del Patto di Varsavia.

[…] Le cause dei conflitti che a più riprese sono divampati tra l’Unione Sovietica e i suoi ex Paesi satelliti europei non vanno ricercate in una diversa concezione del “socialismo”, il quale, com’è noto, è stato imposto dalla prima ai secondi con la forza delle armi e con il tacito accordo degli Stati Uniti, sulla scorta di accordi ufficiali e segreti russo-americani intorno al nuovo ordine mondiale postbellico; esse vanno piuttosto ricercate soprattutto nell’opera di spoliazione economica di quei Paesi organizzata da Mosca e nella loro oppressione politica da parte della «Patria dei Soviet». D’altra parte, le condizioni di relativa miseria delle masse, dovuta anche all’azione parassitaria dell’URSS, e il regime totalitario venutosi a realizzare nei «Paesi fratelli» sul modello moscovita, fondendosi creavano una miscela esplosiva che a cadenze quasi regolari (Germania Est e Cecoslovacchia nel ’53, Ungheria nel ‘56, ancora Cecoslovacchia nel ’68, Polonia a più riprese) prendeva fuoco, generando pressioni d’urto in grado di colpire gravemente lo status quo interno e internazionale. Il punto di riferimento per quei Paesi non poteva che essere l’Occidente, il quale sembrava meglio realizzare, al contempo, le condizioni dello sviluppo economico e la gestione “ordinata” delle contraddizioni sociali.

[…] Commentando la caduta del Muro di Berlino, Antonio Giolitti, eletto nelle file del PCI come “indipendente”, ha fatto notare come in Unione Sovietica si sia parlato di “nuovo corso economico” già nel ’53: “Malenkov cercò di ribaltare la priorità attribuita all’industria pesante nell’economia sovietica. Ma la scelta del Cremlino privilegiò ancora una volta l’industria pesante, cioè l’opzione di grande potenza imperiale: un fatto determinante nella profonda crisi economica che sta oggi angosciando l’URSS” […] Si arriva così al drammatico rapporto sull’agricoltura russa presentato da Michail Gorbaciov al Plenum del CC del Partito-regime tenutosi nel 1989: “La situazione è talmente grave che la gente sta disertando la terra e abbandona i villaggi. In molte regioni la migrazione della popolazione rurale è a un livello critico […] Nella maggior parte delle regioni la fertilità della terra sta declinando. Larghe aree sono in preda alla desertificazione, all’erosione del vento e delle acque. Le terre con alte percentuali di acidità o di salinità si stanno espandendo […] Questa è la prova evidente che noi abbiamo un’economia dissipatrice con rovinose conseguenze sociali”. Chi attribuisce questo disastro, le cui cause vanno ricercate nella storia della Russia cosiddetta sovietica, ossia nelle concrete modalità di costruzione del Capitalismo (non del socialismo!) in Russia e nel suo ruolo di potenza mondiale; chi, dicevo, attribuisce quel disastro al fantomatico “complotto capitalista internazionale”, il cui agente russo sarebbe il “riformista” Gorbaciov, mostra di non aver capito nulla di quella storia».

Insomma, il crollo del «socialismo reale» non segnò affatto il «trionfo del capitalismo», secondo una lettura che purtroppo ancora oggi riscuote il quasi unanime consenso negli ambienti scientifici mondiali, quanto piuttosto il successo del Capitalismo e dell’Imperialismo di matrice occidentale (più il Giappone) nell’epoca della “guerra fredda”. L’edificio sovietico sembrò crollare improvvisamente perché le sue fondamenta erano già da tempo sconnesse, crepate e vuote di sostanza connettiva. Proprio per sottrarsi al “destino” sovietico la classe dirigente cinese decise, alla fine degli anni Settanta, con l’ascesa al vertice del regime cinese di Deng Xiaoping nel 1978 e dopo la «sconfitta interna dei maoisti radicali che volevano ricominciare la Rivoluzione culturale» (Krugman), di avviare la non più procrastinabile perestrojka «con caratteristiche cinesi», che ebbe nel massacro di Piazza Tienanmen del giugno 1989 un momento drammatico e decisivo. Se Mao, negli anni Cinquanta, aveva guardato al Capitalismo «con caratteristiche sovietiche» come modello di accumulazione accelerata e di passaggio alla modernità, salvo ricredersi abbastanza rapidamente, Deng studiò bene e cercò di implementare in Cina il modello sperimentato con successo a Singapore, a Taiwan, nella Corea del Sud. Sappiamo com’è andata.

«Probabilmente», scrive il Nostro liberal, «Deng non comprese del tutto quanto lontano avrebbe portato la strada indicata; certamente il resto del mondo ci mise un bel po’ per capire che un miliardo di persone si era tranquillamente lasciato alle spalle il marxismo». Veramente io continuo a non capirlo. Insomma, come ho fatto a non sapere che in Cina vivevano, almeno fino all’anno di grazia 1978, centinaia di milioni di marxisti? Mi ci sarei trasferito all’istante, si capisce. Un miliardo di marxisti più uno! Evidentemente un demoniaco complotto internazionale mi tenne allora all’oscuro di tutto, probabilmente per evitarmi il dolore della prossima secessione dal marxismo di un miliardo di cinesi, più qualche orfano occidentale di San Mao.

Sulla natura sociale (borghese) della rivoluzione maoista e sul reale significato della cosiddetta rivoluzione culturale rinvio al mio studio sulla Cina (Tutto sotto il cielo – del Capitalismo) scaricabile dal blog. Naturalmente i lettori avranno capito che per il sottoscritto il libro di Krugman è stato un mero espediente per ripetere concetti che a mio avviso non smettono di avere una notevole pregnanza teorica e politica.

* «Il proletariato rivoluzionario internazionale “ha dei debiti” verso il proletariato russo, e ciò rispetto ad un’infinità di cose: il proletariato russo ha mostrato i mezzi e i metodi che conducono alla conquista del potere politico e allo stesso tempo ha mostrato la struttura e l’organizzazione dello stato proletario: i Consigli dei lavoratori. Questo è il grande contributo, il successo della rivoluzione, il fatto di gran lunga più importante degli altri […] Oggi (dopo che il governo sovietico è passato dalla parte della borghesia) la Russia sovietica ha cessato la sua esistenza in quanto Russia dei Soviet» (Estratto da un manifesto della Kommunistische Arbeiter-Internationale, 1922). Chi avrà la pazienza di leggere il mio studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) apprezzerà forse una diversità di giudizio rispetto a quello appena riportato. Ciò che intendo mostrare qui è come già nel ’22 alcuni comunisti europei incominciassero a porsi seriamente il problema circa la tenuta rivoluzionaria della Russia Sovietica, rimasta isolata sul piano internazionale e nazionale – il piccolo scoglio proletario circondato dalla campagna russa e frustato dalle onde generate dall’incipiente e poi scatenata accumulazione capitalistica.
La gran parte dei “comunisti” un tempo devoti a Mosca – e in parte a Pechino – hanno dovuto aspettare le repressioni in Ungheria o in Cecoslovacchia, nonché, dulcis in fundo, la caduta di certi muri per sentenziare intorno all’«esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre». La tragedia a un polo, la squallida farsa al polo opposto.

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