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Per una sana e consapevole economia di mercato

Sebastiano Isaia

Da quando la virtù, istruita dalle malizie politiche, aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia,
e da quando si era legata di amicizia col vizio, anche i più scellerati facevano qualcosa per il bene comune
(B. de Mandeville, La favola delle api) [1].

Massimo Amato e Luca Fantacci si sono messi in testa (in realtà in numerosa compagnia: vedi i tanti sacerdoti del keynesismo in circolazione) di «salvare il mercato dal capitalismo».  Obiettivo davvero notevole, ma quanto fondato? A occhio, pochino. E sento già la caustica risatina del Moro di Treviri, il quale a suo tempo massaggiò perbene le schiene di non pochi economisti «triviali», soprattutto quelli in guisa progressista (tipo Proudhon), i quali non riuscivano a cogliere il rapporto sociale che fa del Capitalismo una sola compatta e inscindibile totalità economico-sociale.

In effetti, porre la distinzione, anche solo sul terreno puramente teorico, tra economia di mercato e Capitalismo significa non aver compreso nulla della vigente economia e della società che la presuppone sul piano storico e fattuale e che ne è il prodotto. Se una simile distinzione, questo vero e proprio non-senso storico ed economico, irritava «le vigliacchissime e solenni emorroidi» del comunista tedesco, il quale non finiva di ripetere che produzione e circolazione erano momenti diversi di uno stesso processo economico sottomesso alla bronzea legge del profitto, figuriamoci che cosa può accadere alla salute “intima” di un comunista basato nella società-mondo del XXI secolo, ossia nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto (a cominciare dal lavoro) e tutti («funzionari del capitale» compresi) al Capitale.

Detto per inciso, Amato e Fantacci rivendicano senza indugi la funzione sociale del Capitale, ma evidentemente non la comprendono, né capiscono la sua reale dinamica storica (con la formazione del sistema creditizio e finanziario, da Adam Smith ai nostri giorni), le sue immanenti e necessarie contraddizioni. Se così non fosse, i due non perorerebbero la ridicola causa di un Capitale senza Capitalismo, di un mercato delle merci senza il mercato finanziario (il quale è uno sviluppo del primo, necessariamente), di una globalizzazione buona (basata sulle merci e sul capitale produttivo: vedi alla voce investimenti diretti all’estero) senza globalizzazione cattiva (fatta di transazioni finanziarie e di speculazione), di una moneta quale «strumento cooperativo» senza quei rapporti sociali che hanno generato l’attuale (veramente se ne parla dagli inizi del XX secolo, e anche prima) dominio del capitale finanziario. «Il sistema monetario, nel suo sviluppo, suppone evidentemente già altri sviluppi generali» [2]. La connessione tra lo sviluppo del primo e gli «altri sviluppi generali» non appare a tutti con la stessa evidenza. Almeno questo è… evidente.

Come ho scritto in un recente post dedicato al sinistro Lafontaine, la stessa speculazione finanziaria, oggi come sempre, trova la sua spiegazione di ultima istanza nel meccanismo che crea sempre di nuovo la ricchezza sociale nell’attuale forma capitalistica. Alludo al saggio di accumulazione e al saggio medio del profitto, ossia alla loro più o meno brillante condizione di salute. Una grande parte della liquidità presente oggi sul mercato finanziario si riversa quotidianamente nella speculazione, alimentando nuove bolle, anziché dirigersi verso l’«economia reale», perché quella condizione rimane asfittica, non attraente, poco allettante per chi voglia fare profitti rapidi e pingui. Quando «il saggio d’interesse si abbassa notevolmente, per quanto possa salire il profitto», il mondo necessariamente assiste «alle più audaci speculazioni» [3].

Se il meccanismo economico considerato nel suo complesso non ripristina adeguate condizioni di profittabilità nell’«economia reale», non c’è “rivoluzione” del sistema creditizio che possa surrogare questa fondamentale condizione.

Scriveva sempre Marx: «Se la speculazione si presenta verso la fine di un determinato ciclo commerciale come immediato precursore del crollo, non bisognerebbe dimenticare che la speculazione stessa è stata creata nelle fasi precedenti del ciclo e quindi rappresenta essa stessa un risultato e un fenomeno, e non la ragione ultima e la sostanza del processo. Gli economisti che pretendono di spiegare le periodiche contrazioni di industria e commercio con la speculazione assomigliano a quella scuola ormai scomparsa di filosofi della natura che considerava la febbre come la vera causa di tutte le malattie» [4]. Questo processo appare oggi di più difficile comprensione anche a causa dell’andamento particolarmente asfittico e contraddittorio che ha caratterizzato l’accumulazione del capitale nei Paesi capitalisticamente più sviluppati dopo la chiusura dell’eccezionale fase postbellica. La «rivoluzione liberista» (Thatcher e Reagan), per un verso, e l’ascesa poderosa della finanza orientata alle attività speculative, per altro verso, vanno a mio avviso interpretate come risposte del Capitale alla situazione che si è venuta a determinare nell’economia mondiale dopo la crisi degli anni Settanta.

Per quanto riguarda la speculazione finanziaria degli ultimi trent’anni si deve dire che il denaro non è impazzito, per mutuare il titolo di un libro di Susan Strange scritto nel ‘98; esso ha piuttosto cercato linee di valorizzazione di minor resistenza, e questo conferma la maligna razionalità della legge del profitto. «Come ricorda sempre Keynes, “la sapienza del mondo insegna che è meglio per la propria reputazione fallire in maniera convenzionale piuttosto che avere successo in maniera non convenzionale”»[5]. Evidentemente insiste una differenza non trascurabile tra «la sapienza del mondo» come la immaginava Keynes e la sapienza del Capitale. Senza contare che, anche qui, porre la distinzione tra modi «convenzionali» e modi «non convenzionali» non ha alcun senso, perché i due modi sono intimamente connessi e si presuppongono e condizionano vicendevolmente. Ad esempio, l’evasione fiscale sarà pure una maniera «non convenzionale» per reggere la competizione e per evitare il fallimento, ma questa prassi è del tutto organica all’economia basata sul profitto, checché ne dicano le anime belle del Capitalismo etico, democratico e meritocratico.

Scriveva Henryk Grossmann alla vigilia della grande crisi economica del ’29: «Nonostante l’ottimismo di alcuni teorici borghesi, che credono che gli americani siano riusciti a risolvere il problema della crisi e a stabilizzare l’economia, molte indicazioni segnalano che ci stiamo avvicinando ad un livello di sovraccumulazione […] Il fenomeno dell’economia del 1927 è da scorgere nel fatto che l’industria e il commercio videro restringersi la loro produzione, calare il loro volume di scambio e ridurre i loro profitti» [6]. Al contempo il mondo assisteva a una «rabbiosa speculazione» sui terreni delle metropoli americane e sui valori azionari alla borsa di New York. Una febbre speculativa che ebbe un significato sintomatico che solo pochi riuscirono a decifrare.  «La situazione di strettezza dell’industria si mostra in un aumento di prestiti speculativi a fini borsistici e di rialzi dei corsi azionari […] Fondi enormi poterono affluire nei canali della speculazione di borsa a causa della facilità nel procurarsi denaro» (p. 515). Ecco perché la tesi keynesiana del 1936, ricordata da Amato e Fantacci per sostenere la causa di stringenti controlli sui movimenti di capitali (sulla scorta degli accordi di Bretton Wood del ‘44), secondo la quale «la liquidità è un feticcio, soprattutto perché compromette il sistema degli investimenti anche quando apparentemente tutto funzione» mostra di scambiare l’effetto con la causa. Proprio perché il sistema degli investimenti produttivi è compromesso la liquidità deve riversarsi nei canali della speculazione, attivando un circolo vizioso dal quale è difficile uscire prima dell’inevitabile disastro.

Negli anni Ottanta non è venuto fuori un nuovo Capitalismo, in molti e fondamentali aspetti del tutto estraneo alle leggi di sviluppo che informavano quello precedente – fonte di nostalgia per molti keynesiani; siamo piuttosto dinanzi a un’economia capitalistica che reagisce violentemente alla lunga – strutturale, almeno nel medio periodo – sofferenza del saggio medio del profitto, e che non ha ancora trovato il modo di ripristinare le condizioni “ottimali” per un’accumulazione in grande stile, simile a quella resa possibile dalla Seconda guerra mondiale (e qui il lettore è autorizzato a gesti scaramantici). Applicare termini come «vecchio», «nuovo», «post» ecc. a una formazione storico-sociale che per vivere deve mutare continuamente volto non ha poi molto senso, mentre ha molto senso cercare di afferrarne l’essenza, che non ha fatto molti progressi dai tempi di Marx.

Licenziamenti, ristrutturazioni tecnologiche e organizzative, aumento della produttività, concentrazioni e fusioni capitalistiche, deprezzamento dei valori-capitali: questi e altri ancora sono i rimedi cui deve ricorrere il Capitale per ricostituire la redditività della produzione e ristabilire le basi per la ripresa del processo di accumulazione. È chiaro che sono i lavoratori le prime vittime di questo processo di risanamento capitalistico. «Si può ricordare, al riguardo, anche l’avvertimento di Keynes di non intaccare i salari nominali, ma di operare piuttosto, attraverso il salario reale, un necessario abbassamento del reddito degli operai […] Nella misura in cui la revisione keynesiana rimanda al di là della teoria classica, essa non rinvia a un futuro migliore, ma a un futuro fosco» [7]. Non c’è dubbio.

Scommetto che gli autori del saggio preso qui di mira, il quale peraltro si limita a ripetere concetti già esposti in un precedente libro del 2009 (Fine della finanza, da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne), non sono d’accordo con queste mie osservazioni critiche, né con l’impostazione (vetero-marxista?) dei problemi da essi posti meritoriamente sul tappeto. «Il punto è questo: faremo davvero fatica a immaginare alternative al contempo desiderabili e praticabili finchè non avremo imparato a misurare con precisione tutta la differenza che sussiste tra capitalismo ed economia di mercato» [8]. Una differenza «fantasmagorica» che può essere apprezzata solo da coloro – e sono in tanti, anche in ambito accademico – che fanno del mercato e della moneta mere tecnologie economiche che possono venir usate per il meglio o per il peggio, per una causa giusta ovvero per fini cattivi. Di qui, la necessità di spingere al potere una classe dirigente, nazionale e mondiale, politicamente illuminata ed eticamente responsabile.

«Il capitalismo di fine XX e inizio XXI secolo ha potuto nutrirsi di una vecchia favoletta settecentesca che era già insipida ai suoi tempi, ma che oggi davvero sa di stantio. Ci riferiamo alla favola delle api di Mandeville. Il mito scientifico corrispondente si chiama “eterogenesi dei fini”, ossia: l’avidità è la fonte del benessere comune. Punto. E dunque… via libera!» (p. 59). Ma davvero i due brillanti scienziati sociali credono che il Capitalismo possa nutrirsi di favolette più o meno insipide, stantie e ciniche? Suvvia! Mandeville, poi ripreso da Adam Smith, si limitò a dar conto di un complesso meccanismo sociale osservato dalla prospettiva dei ceti borghesi in ascesa. Non occorre essere materialisti storici per capire questo e non commettere l’imbarazzante errore di assumere come dato strutturale di partenza non la prassi economico-sociale di una peculiare epoca, ma l’ideologia che cerca di razionalizzarla a partire da specifici interessi di classe – e sempre fatta salva la buona fede del soggetto razionalizzante.

Tuttavia, diamo la parola a un materialista storico d’oc, anche per colpire la concezione feticistica del mercato e della moneta di Amato e Fantacci: «I prezzi sono antichi, e così lo scambio; ma sia la progressiva determinazione degli uni attraverso i costi di produzione, sia il predominio dell’altro su tutti i rapporti di produzione, sono pienamente sviluppati, e si sviluppano sempre più pienamente, soltanto nella società borghese. Ciò che Adam Smith, alla maniera tipica del XVIII secolo, pone nel periodo preistorico. Questa dipendenza reciproca si esprime nella necessità permanente dello scambio e nel valore di scambio quale mediatore universale. Gli economisti esprimono questo fatto nel modo seguente: ciascuno, perseguendo il suo interesse privato e soltanto il suo interesse privato, involontariamente e inconsapevolmente finisce col servire l’interesse privato di tutti, l’interesse generale […] Il punto vero e proprio sta piuttosto in questo, che l’interesse privato stesso è già un determinato interesse sociale e può essere raggiunto soltanto nell’ambito delle condizioni che la società pone e con i mezzi che essa offre […] Si tratta di interessi privati; ma il suo contenuto, come la sua forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti» [9].

L’interesse privato è socialmente predeterminato. I nostri autori prendono sul serio le favolette apologetiche intorno al mondo hobbesiano (borghese) del bellum omnium contra omnes; Marx, ovviamente, no.

Anche Paolo Cacciari condivide la stessa passione per le favole: «In definitiva, se vogliamo davvero realizzare il mondo della sufficienza immaginato da Keynes, dovremmo abbandonare il progetto di felicità che gli economisti hanno imposto e che si basa sulla creazione continua di “un surplus di piacere”, riscoprendo invece l’idea antica di “eudaimonia”, una condizione esistenziale che introietta la nozione di sazietà, il senso del limite, la necessità della condivisione e quindi della giustizia sociale» [10]. Una bella rivoluzione culturale che metta al bando i cattivi economisti, e il gioco è fatto. «Volgersi indietro a quella pienezza originaria è altrettanto ridicolo quanto credere di dover rimanere fermi a questo completo svuotamento» [11]. In effetti, si tratta di uscire dalla dimensione capitalistica e di umanizzare l’intero spazio esistenziale degli individui, a cominciare naturalmente dalla prassi chiamata a produrre sempre di nuovo le condizioni materiali della loro vita. Per essere davvero “eudaimonica”, nell’accezione più profonda – classica – del concetto, senza alcuna concessione alle recenti mode ecologiste (Capitalismo “a chilometro zero”) e decresciste (Capitalismo morigerato e “felice”) che prefigurano il ritorno a una fase precedente (meno “selvaggia”) dello sviluppo capitalistico, la condizione esistenziale degli individui deve diventare semplicemente umana, cosa che, appunto, presuppone la soppressione del rapporto sociale capitalistico e della «sovrastruttura» politico-istituzionale a esso corrispondente – lo Stato (qualsiasi tipo di organizzazione statuale) deve tirare le cuoia, e con esso deve tramontare ogni forma di politica.

Come molti militanti della “causa umana”, Paolo Cacciari ha frainteso completamente l’esperienza del «socialismo reale», che per quanto mi riguarda va rubricata a pieno titolo nell’agenda nera del Capitalismo, alla voce reale Capitalismo (più o meno «di Stato»); egli quindi guarda con orrore a una rivoluzione sociale di “vecchia” concezione che miri a realizzare un progetto che considera già fallito ovunque nel mondo: in Russia, in Cina, dappertutto. Io la penso in modo affatto diverso. Qui rinvio al mio post di qualche giorno fa su Paul Krugman.

Per quanto riguarda l’avidità messa sotto accusa da Amato e Fantacci si deve dire che è certamente vero che «La brama di arricchimento in quanto tale è impossibile senza denaro» (Marx); ma il denaro, nell’attuale configurazione storico-sociale, presuppone la brama di profitto, ossia l’economia capitalistica e i rapporti sociali ad essa corrispondenti. Infatti, «il denaro non esprime altro che un rapporto sociale». Di più: il denaro capitalistico presuppone, in ultima analisi, quel lavoro sociale medio, sfruttato sempre più scientificamente dal Capitale, che dà sostanza alla merce-denaro come equivalente universale delle merci.

Di qui la potenza smisurata del denaro («Ciascun individuo possiede il potere sociale nella sua tasca», osservava Marx), e la tendenza del Capitale in generale a travolgere ogni limite, ogni ostacolo che si frappone alla ricerca della massima valorizzazione per ogni suo investimento, non importa di quale natura esso sia, se azzardato nell’industria piuttosto che nella finanza, se produttivo di plusvalore primario ovvero orientato alla rendita e alla pura speculazione.  Questo smisurato appetito (immanente al concetto stesso di Capitale), che deve fare continuamente i conti con la ben più limitata fonte della ricchezza basica in regime capitalistico (la quale trae alimento dallo sfruttamento intensivo del “capitale umano”), ha indotto molti teorici del Finanzcapitalismo a organizzare il funerale della legge del valore elaborata dagli economisti classaci. Un funerale che appare quantomeno in anticipo sui tempi, come dimostra l’attuale crisi economica, la quale svela la dialettica, abbozzata appena sopra, tra la smisuratezza della brama di profitto e i limiti della ricchezza capitalistica, inchiodata «in ultima analisi» al rapporto di dominio e sfruttamento capitale-lavoro. Un rapporto sociale che soprattutto dalla prospettiva di chi intende fare denaro per mezzo di denaro, saltando la faticosa e poco attraente mediazione “lavorativa”, deve apparire davvero triviale e storicamente superato, obsoleto oltre ogni… limite.

Se i nostri due amici cultori di Keynes condannano l’economia sottomessa all’avidità sconfinata di privati eticamente riprovevoli, pure non condividono «l’infantilismo politico» fondato sul presupposto «che dalle buone intenzioni non possa che nascere il bene». Di qui, la ricerca della solita – chimerica – terza via, la quale si sostanzia in una transizione dal Capitalismo, ormai sottomesso ai demoni della finanza speculativa, all’economia di mercato, a una prassi economica, cioè, che ristabilisca un rapporto con la produzione e la circolazione delle merci. «Se il capitalismo è un’economia di mercato con un mercato di troppo, il mercato finanziario, l’economia di mercato diviene propriamente ciò che è auspicabile che sia, ossia un luogo di competizione sulla base dell’efficienza dei vantaggi comparati, se solo è temperata da una finanza cooperativa» [12]. Quasi mi commuovo dinanzi a questa scientifica – proudhoniana, avrebbe aggiunto il trincatore tedesco – genialata che vorrebbe portare le lancette della storia del Capitalismo indietro di oltre un secolo, per introdurvi, sulla scorta delle esperienze acquisite, quei correttivi in grado di conferirvi un più alto tasso di razionalità ed eticità. La commozione dilaga quando leggo la poesia economica dedicata alla soluzione finalmente scoperta (la moneta locale): «Una moneta è uno strumento cooperativo […] La moneta quale la conosciamo, la moneta capitalistica, è una moneta che ammutolisce e riduce al silenzio e all’incomunicabilità» (p. 188). Si sentiva davvero il bisogno di una moneta dal volto umano! La concezione feticistico-romantica (piccolo borghese) in fatto di denaro dei nostri amici trova una mia più puntuale critica nel post Denaro-Denaro-Denaro: feticismo al cubo, e nel breve saggioLa Cosa ha il Diavolo in corpo!

Abbastanza retoricamente Marx pose ai suoi tempi la seguente domanda: «È possibile rivoluzionare i rapporti di produzione esistenti e i rapporti di distribuzione ad essi corrispondenti mediante una trasformazione dello strumento di circolazione?» [13]. Dopo aver ricordato, «per inciso», ai riformatori del sistema creditizio del tempo che «Il crédit gratuit è soltanto una timida e ipocrita forma piccolo-borghese» (p. 53), egli concluse che «ai mali della società borghese non si rimedia mediante trasformazioni bancarie o mediante la fondazione di un razionale “sistema monetario”» (p. 67). Fin qui mi pare che i fatti gli abbiano dato ragione.

Cancellare la finanza “cattiva” e tornare a un sistema che si basi sull’economia reale, sulla produzione e sullo scambio di beni effettivi secondo i retti principi proposti da Keynes a Bretton Woods: un programma che secondo i nostri scienziati merita i sacrifici che indubbiamente bisogna fare per implementarlo. «Se è in nome del programma conservatore del ritorno [?] al capitalismo non si vede bene perché bisognerebbe sacrificarsi. Se è in nome del progetto di costruzione di un’economia che sappia distinguere tra ciò di cui c’è mercato e ciò di cui non deve esserci mercato, allora non si vede bene perché non farlo. Anzi, quando si comincia?». Già, quando si comincia? Checché ne possa pensare il lettore, personalmente non vedo l’ora di sacrificarmi sull’altare di una sana e consapevole economia di mercato.

[1] B. de Mandeville, La favola delle api, p. 15, Grande Antologia Filosofica, Marzorati, 1968.
[2] K. Marx, Lineamentifondamentali della critica dell’economia politica, I, La Nuova Italia, p. 106.
[3] Marx, Storia delle teorie economiche, p. 546, II, Einaudi, 1955.
[4] K. Marx, La costituzione britannica, Neue Oder- Zeitung, n.109, 1855.
[5] M. Amato, L. Fantacci, Come salvare il mercato dal capitalismo, p. 84, Donzelli, 2012.
[6] Il crollo del capitalismo, pp. 514, Jaca Book, 1977.
[7] Friedrich Pollock, La revisione keynesiana del liberismo economico, 1936, in Teoria e prassi dell’economia di piano, p. 198, De Donato, 1973.
[8] M. Amato, L. Fantacci, Come salvare…, p. 58.
[9] K. Marx, Lineamenti, I, pp. 96-97.
[10] P. Cacciari, La fine dell’età dell’abbondanza, Sbilanciamoci, 28 giugno 2013.
[11] K. Marx, Lineamenti, I, p. 104.
[12] M. Amato, L. Fantacci, Come salvare…, p. 59.
[13] K. Marx, Lineamenti, I, p. 52.

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