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Impiccarsi al "comunismo" di Badiou o al "comune" di Negri? Meglio vivere!

di Sebastiano Isaia

Nell’ultimo libro Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove lotte mondiali (Ponte alle Grazie, 2012) Alain Badiou si è difeso da par suo dalla sanguinosa critica scagliatagli da un altro pezzo grosso del pensiero “alternativo” mondiale, Toni Negri: «Io in definitiva sarei soltanto un idealista senza rapporti con la realtà. Per di più, non sarei nemmeno attento alle sorprendenti trasformazioni del capitalismo, trasformazioni che autorizzano a parlare, con aria da intenditori, di un “capitalismo postmoderno”. [Negri] mi ha pubblicamente assunto quale esempio di tutti quelli che pretendono di essere comunisti senza neanche essere marxisti. In sostanza, gli ho risposto che era sempre meglio che pretendere di essere marxisti senza essere nemmeno comunisti» [1]. Chi la spunterà in questa lotta tra giganti del pensiero altermondista?

Quando Badiou bastona le pretese postmoderniste di Negri, e sottolinea la vitalità della critica marxiana dell’economia politica, almeno per i punti essenziali, non posso che battergli le mani, e rimandare il lettore alla mia annosa polemica che ha come oggetto la teoria negriana dell’oltrismo:  oltre Marx, oltre la legge del valore, oltre il socialismo, oltre il comunismo, oltre l’imperialismo, oltre il postmoderno, oltre… l’oltre. Il tutto, forse, per dare l’impressione di essere sempre al passo con i tempi, anzi: decisamente oltre. Scrive Badiou: «La mia posizione è esattamente opposta: il capitalismo contemporaneo presenta tutti i tratti del capitalismo classico».

Evidentemente il bravo intellettuale padovano non ha capito che l’oltremisura è la dimensione concettuale e reale più adeguata al Capitale, la cui natura rivoluzionaria (nell’accezione marxiana del concetto, poi ripresa da Schumpeter) rende quantomeno inutile, se non oziosa, la ricerca di aggettivi da appiccicare al Capitalismo: “nuovo”, “vecchio”, “post”, “classico” e via di seguito. Il Capitalismo è sempre “vecchio” («classico») nei suoi presupposti storico-sociali (alludo al rapporto sociale di dominio e di sfruttamento Capitale-Lavoro) e sempre “nuovo” («post») nella sua dinamica sociale. Per dirla col filosofo “classico”, non si può nuotare due volte nello stesso Capitalismo.

«Ricordate la legge classica del valore-lavoro? Il capitale variabile diventa forza lavoro produttiva solo quando era sotto il capitale. Tutto questo è finito. Pur restando al centro di ogni processo di produzione, il lavoro è il risultato di un’invenzione e i suoi prodotti sono quelli della libertà e dell’immaginazione» [2]. Siamo andati oltre il Capitalismo e non me ne sono accorto: chiedo umilmente venia! Il fatto è che, essendo io ancora impigliato nella barba del Grande Vecchio, pensavo in buona fede che l’invenzione non fosse che «capitale costante», non più che un formidabile strumento capitalistico di dominio e di sfruttamento della natura e dell’uomo – dell’individuo ridotto a risorsa totale, a biotecnologia e a biomercato, a «capitale umano» da sfruttare nella sfera della produzione e in quella della circolazione. E invece siamo finiti, sia lode alla Santa Astuzia della Storia!, nel Regno della libertà e dell’immaginazione. Il Sessantotto ha dunque vinto, alla fine, oltre i tempi supplementari? Il marxiano General Intellect alla fine ha conosciuto il dialettico capitombolo?

Badiou non la pensa così, e fa bene:

«Un capitalismo insomma alla vigilia della sua metamorfosi in comunismo. Questa è, in maniera un po’ grossolana ma fedele, la posizione di Negri. Più in generale, questa è anche la posizione di tutti quelli che da trent’anni rimangono affascinati dalle mutazioni tecnologiche e dall’espansione continua del capitalismo, e che, ingannati dall’ideologia dominante (“tutto cambia sempre e noi corriamo dietro a questo cambiamento memorabile”), immaginano di assistere a una prodigiosa sequenza della Storia – qualunque sia il loro giudizio finale sulla qualità della suddetta sequenza».

Come ho scritto altrove, il General Intellect è in radice l’intelligenza del Capitale. È vero che, come scrive Marx, «Nella sua nuova forma il capitale s’incorpora gratis il progresso sociale compiuto mentre agiva la sua vecchia forma», ma esso può farlo perché «Scienza e tecnica costituiscono una potenza dell’espansione del capitale» (Il Capitale, I). Lo sviluppo capitalistico promuove sempre di nuovo l’espansione del «cervello sociale» (scuola, università, agenzie formative, pubbliche e private, di vario genere, relazioni sociali mediate tecnologicamente e via di seguito), e questo a sua volta accresce direttamente e indirettamente la potenza sociale del Capitale, il quale sa come mettere a profitto lo sviluppo complessivo della sua società. Solo il rovesciamento rivoluzionario del Dominio può rendere possibile il pieno dispiegamento delle tendenze emancipatrici di cui è gravida, e non da oggi, la società borghese.

Scrive Slavoj Žižek: «Poiché ha trascurato la dimensione sociale dell’”intelletto generale”, Marx mancò di immaginare la possibilità della privatizzazione dell’”intel­letto generale” stesso – e questo è ciò che sta al cuore della battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”. Negri ha ragio­ne su questo punto» [3].  Ora, chiunque abbia una seppur superficiale dimestichezza con gli scritti “economici” marxiani sa bene come il critico di Treviri non solo non ha mai mancato di mettere in luce la dimensione sociale del general intellect, ma come tale concetto avesse per lui un significato solo all’interno di quella dimensione. Non si ripeterà mai abbastanza che il punto di vista di Marx è eminen­temente sociale e mondiale perché sociale e mondiale è la dimensione del Capitale, già nella sua genesi storica.

La profit­tabilità (ciò che Žižek chiama, un po’ volgarmente, «privatiz­zazione») dell’intero universo è il respiro economico-sociale immanente al concetto di Capitale, e Marx questo lo ha capito benissimo e ne ha scritto continuamente. Certo, non ha parla­to della «battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”», e que­sto, occorre riconoscerlo, è una grave mancanza teorica… Può valere come attenuante per il barbuto di Treviri il fatto che ai suoi tempi il web e le tecnologie “intelligenti” che lo hanno reso possibile non fossero stati ancora inventati? La questione rimane aperta. Intanto ci tocca leggere perle ideologiche di questo tipo: «Il capitale non solo è di­venuto dipendente dal sapere dei salariati, ma deve ottenere una mobilitazione ed una implicazione attiva dell’insieme del­le conoscenze e dei tempi di vita dei salariati». Un capolavoro di pseudo dialettica hegeliana, non c’è che dire. Il servo, in virtù della sua prassi ricca di esperienze e di conoscenze acquisite attraverso la concreta trasformazione della natura, attraverso il lavoro, riesce in qualche modo ad avere la meglio, almeno sul piano etico, sul suo padrone, incapace di vera soggettività e dipendente dal servo per ciò che riguarda la sua stessa esi­stenza quotidiana. Ma ovviamente le cose stanno esattamente al contrario, perché soprattutto nel «Capitalismo cognitivo» il soggetto della prassi economica è il Capitale, mentre i sa­lariati ne sono gli oggetti, e tanto più essi credono di poter dettare le regole al primo, quanto più testimoniano la loro reale impotenza sociale. Sul terreno del general intellect il «velo tecnologico» gioca davvero brutti scherzi, e anche le menti più fervide fanno fatica a capire che «La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio» [4].

Ma veniamo ai punti dolenti a proposito di Badiou.

«Certo, Marx pensava che, sotto la bandiera del comunismo, la rivoluzione proletaria avrebbe bruscamente interrotto questi eventi e ci avrebbe risparmiato il dispiegamento integrale di cui percepiva lucidamente l’orrore. L’alternativa era appunto, secondo lui, comunismo o barbarie […] Dopo circa trent’anni, dopo il crollo degli Stati socialisti come alternative percorribili (il caso dell’Unione Sovietica), o il loro sconvolgimento operato da un violento capitalismo di Stato dopo lo scacco di un movimento di massa esplicitamente comunista (è il caso della Cina tra gli anni 1965 e 1968), abbiamo finalmente il dubbio privilegio di assistere alla verifica di tutte le predizioni di Marx sull’essenza reale del capitalismo e delle società che esso regge. Alla barbarie siamo già arrivati, e vi stiamo sprofondando dentro di gran carriera».

Ora, a mio modesto avviso quelli che il filosofo francese definisce « Stati socialisti come alternative percorribili» erano parte integrante della barbarie capitalistica, non ne rappresentavano in alcun modo un’alternativa, seppur pallida e piena di limiti e contraddizioni. Come non mi stanco di ripetere, senza peraltro attribuire proprietà miracolistiche al repetita iuvant, con il cosiddetto «socialismo reale» (Cina maoista inclusa) siamo nel pieno del Libro Nero del Capitalismo, e non averlo compreso a tempo, ben prima del famigerato (per i “comunisti” devoti a Mosca o a Pechino) 1989 ha di molto ritardato la presa di coscienza, soprattutto da parte delle nuove leve di militanti anticapitalisti, circa la reale natura sociale dei regimi che, appunto, avrebbero dovuto rappresentare un’alternativa credibile, e soprattutto auspicabile, al Capitalismo.

«Non si esiti a dirlo: la condanna, da parte di Chruščëv, dello stalinismo non colpiva nel segno e annunciava, col pretesto della democrazia, il deperimento dell’Idea del comunismo al quale abbiamo assistito nei decenni successivi. La critica politica di Stalin e della sua visione terroristica dello Stato doveva essere fatta in modo rigoroso dal punto di vista della politica rivoluzionaria, e Mao ne ha fornito più che un abbozzo in molti suoi testi» [5]. Apprendiamo così da un illustre filosofo che 1. «il deperimento dell’Idea di comunismo» ha avuto a che fare più con la cosiddetta destalinizzazione che con lo stalinismo, espressione politico-ideologica di quella controrivoluzione che spazzò via il carattere proletario della Rivoluzione d’Ottobre; e che 2. Mao, epigono di Stalin e leader di una rivoluzione nazionale-borghese spacciata per socialista (e il senso ideologico più pregnante dello stalinismo riposa proprio in questa mistificazione, non importa se fatta in buona o cattiva fede), avrebbe «fornito più che un abbozzo» di una corretta critica dello stalinismo. Da ciò si evince che bella «Idea di comunismo» ha in testa Badiou.

Cosa che si rende ancora più evidente in questi passi: «La lunga esperienza delle dittature comuniste avrà avuto il merito di mostrare che la mondializzazione finanziaria e il regno senza divisioni dell’universalità vuota del capitale potevano avere come nemico autentico solo un altro progetto universale, anche se deviato e insanguinato; che solamente Lenin e Mao facevano realmente paura […] Lo sprofondamento senile dell’URSS, paradigma degli Stati socialisti, ha provvisoriamente eliminato la paura, scatenato l’astrazione vuota, abbassato il pensiero di tutti» [6]. Appunto, di tutti, autore compreso, come mostra la sua apologia delle dittature capitalistiche sedicenti comuniste e socialiste (eppure da un filosofo ci si attende un minimo sindacale di profondità critica anche per ciò che riguarda il processo storico), e l’accostamento di Lenin a Mao, come se i due uomini non fossero stati l’espressione di due «progetti universali» del tutto diversi tra loro.

D’altra parte, cosa ci si può aspettare da un intellettuale che pensa che «il crollo senza gloria dell’URSS» dopo l’’89 segna «il congedo dell’ipotesi comunista»? Ancora nell’anno di grazia 1989 si poteva dunque parlare di un’«ipotesi comunista», sebbene «deviata e insanguinata», a proposito dell’Unione Sovietica? Prima di «abbandonare le illusioni e prepararsi alla lotta», come ha scritto sempre Badiou mutuando il solito Mao nel suo Manifesto per la filosofia (Cronopio, 2008), forse converrebbe capire meglio la natura di quelle illusioni, per non reiterare vecchi errori teorici e politici e per non trovarsi a dover spalare nuove macerie reali e concettuali e nuove tonnellate di sostanze escrementizie gettate sulla speranza.

Scrive Negri a proposito della Repubblica di Platone di Badiou: «Si capisce, leggendo queste pagine, perché oggi l’opera di Badiou presti talora argomenti nostalgici a coloro che, non sapendo uscire dalla sconfitta del “socialismo reale”, continuano a sognarsi comunisti, pur rifiutando di ricominciare a lottare» [7]. Qui tendo a concordare con lo Scienziato sociale italiano. Tuttavia il problema a mio avviso va posto in questi termini: ricominciare a lottare su presupposti teorici e politici fondati, che possano davvero riaprire lo Stargate, per così dire, della liberazione. Il mio insistere sulla natura capitalistica del cosiddetto «socialismo reale» (da Stalin a Mao)  non ha altro significato che quello di contribuire alla costruzione di quei presupposti.

Per quanto mi riguarda non impegnerei un solo secondo della mia pur modesta esistenza per lottare in vista del “Comunismo” di Badiou o del “Comune” di Negri.

 

[1] Baso le mie riflessioni sul post Il Capitalismo oggi. Risposta a Toni Negri, pubblicato da Controlacrisi.org, 11 agosto 2013.
[2] La comune di Toni Negri, intervista del 29 marzo 2010 a Negri comparsa sul sito di Comunismo e Comunità.
[3] S. Žižek, First As A Tragedy, Than As A farce, p. 148, Verso, 2009.
[4] M. Horkheimer, T. W. Adorno, L’industria culturale, 1942, in Dialettica dell’illuminismo, p.127, Einaudi, 1997. «Ma questo effetto non si deve ad­debitare a una presunta legge di sviluppo della mera tecnica come tale, ma alla funzione che essa svolge nell’economia» (ivi, p. 128).
[5] A. Badiou, in AAVV, L’Idea di Comunismo, pp. 18-19, Derive Approdi, 2011.
[6] A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universale, p. 15, Cronopio, 1999.
[7] A. Negri, Il guardiano dell’idea assoluta, Il Manifesto, 27 aprile 2013.
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