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Denaro senza valore!

di Franco Senia

E' trascorso più di un anno da quel 18 luglio del 2012, quando, in seguito ad un errore medico, Robert Kurz è morto, all'età di 68 anni. Una morte prematura che ha interrotto un immenso lavoro durato più di 25 anni. Nato a Norimberga, dove ha trascorso tutta la sua vita, Kurz partecipò alla "rivolta degli studenti", al cosiddetto "1968", e alle discussioni che ne seguirono all'interno della "nuova sinistra". Dopo una brevissima adesione al marxismo-leninismo, e senza mai aderire ai "Verdi", nel 1987 fondò la rivista "Marxistische Kritik", ribattezzata dopo qualche anno "Krisis". La rilettura di Marx proposta da Kurz e dai suoi compagni (fra cui, Roswitha Scholz, Peter Klein, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle) non creò loro molti amici nella sinistra radicale, dal momento che ne attaccava, uno dopo l'altro tutti i dogmi, dalla "lotta di classe" al "lavoro", rimettendo in discussione gli stessi fondamenti della società capitalista: valore di mercato, lavoro astratto, denaro e merce, stato e nazione. Ne "Il collasso della modernizzazione", scritto nel 1991, afferma che, nel momento stesso del "trionfo occidentale", conseguente alla fine dell'Unione Sovietica, i giorni della società del mercato mondiale sono contati, e che la fine del "socialismo reale" è stata solamente una tappa.

Collaboratore regolare di importanti giornali, soprattutto in Brasile, Kurz sceglie di rimanere al fuori delle Università e delle altre istituzioni del sapere, procurandosi da vivere per mezzo di un lavoro proletario (autista di taxi per 7 anni e, soprattutto, presso una tipografia dove lavorava la notte all'imballaggio del giornale locale). La dozzina di libri e le centinaia di articoli che ha pubblicato, si situano, grosso modo, su due livelli: da una parte, un'elaborazione teorica di fondo, soprattutto costituita da lunghi saggi apparsi su Krisis e su Exit!; dall'altra, un commento continuo all'aggravarsi della crisi del capitale accompagnata da un'investigazione sul suo passato.

Da più di 25 anni, anche durante il momento di un'apparente vittoria definitiva del capitalismo nel corso degli anni 1990, Kurz sostiene, sulla base di una lettura rigorosa di Marx, che le categorie di base del modo di produzione capitalista si si trovavano sul punto di perdere del tutto il loro dinamismo, e di raggiungere quello che è il loro "limite storico": non si produce più abbastanza "valore". Ora, il valore (che contiene il plus valore e, dunque, il profitto), espresso in denaro, è il solo fine della produzione capitalista - la produzione di valore d'uso è solo un aspetto secondario. Il valore di una merce è dato dalla quantità di "lavoro astratto" necessario alla sua produzione, cioè di lavoro in quanto puro dispendio di energia umana. Meno lavoro contiene una merce, meno "vale" (e il lavoro deve corrispondere al livello di produttività stabilito ad un dato momento: 10 ore di lavoro di una tessitoria artigianale possono "valere" un'ora quando si produce in dieci ore quello che una tessitoria industriale produce in un'ora). Il capitalismo vive, fin dal suo inizio, questa contraddizione: la concorrenza spinge il capitalista a sostituire il lavoro vivo con delle macchine che gli assicurano un vantaggio immediato sul mercato (prezzi di vendita più bassi), ma, così facendo, è la massa tutt'intera del valore che va a diminuire, mentre le spese per investire in tecnologia - che non creano valore - aumentano. Di conseguenza, la produzione del valore rischia continuamente di strangolarsi da sé sola e di morire per mancanza di profitto. Il profitto - la faccia visibile del valore - a lungo andare, è possibile solamente in un regime di accumulazione. Per molto tempo, l'espansione interna ed esterna della produzione di merci (verso altri paesi del mondo ed all'interno della società capitalistica stessa) è riuscita a compensare il diminuito valore di particolari merci. Ma a partire dagli anni 1970, la "terza rivoluzione industriale", quella della micro-informatica, ha cominciato a rendere superfluo il lavoro, in proporzioni tali da vanificare qualsiasi meccanismo di compensazione. Da allora, il sistema del mercato sopravvive essenzialmente grazie al"capitale fittizio", cioè grazie ad un denaro che non è affatto il prodotto della creazione di un valore ottenuto per mezzo dell'impiego produttivo della forza-lavoro, ma che viene creato dalla speculazione e dal credito, e che ha per base nient'altro che dei profitti futuri ancora da realizzare (sempre più giganteschi e impossibili da realizzare).

Secondo Kurz, questa teoria della crisi ineluttabile è presente in Marx, ma in modo frammentario ed ambiguo (nel "frammento sulle macchine" dei Grundrisse c'è il passaggio più significativo): l'accumulazione del capitale non è un processo stabile che può continuare all'infinito, e al quale solo la "lotta degli oppressi" potrebbe mettere fine; così come ha proclamato tutto il marxismo dopo Marx. Kurz dimostra che la "teoria del crollo", lungi dall'essere oggetto di largo consenso presso i marxisti, è stata piuttosto un "serpente di mare": alcuni teorici si accusavano vicendevolmente di appoggiarvisi, ma nessuno ammetteva che il capitalismo potesse andare a sbattere contro i suoi propri limiti prima che avesse luogo una rivoluzione proletaria. Le sole teorie che hanno analizzato questo limite (quella di Rosa Luxemburg ne "L'accumulazione del capitale", 1912, e quella di Henryk Grossman ne "Il crollo del capitalismo“. La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista", 1929) restano, secondo Kurz, a mezza strada e non esercitano alcuna reale influenza sul movimento operaio. Kurz presenta perciò la sua teoria della crisi come una novità assoluta, resa possibile dal fatto che il limite interno alla produzione di valore, previsto sul piano teorico da Marx, è stato realmente raggiunto negli anni 1970. Da qualche anno, dopo essere stata negata per molto tempo anche a sinistra, questa crisi è esplosa alla luce del sole. Ma per Kurz, le spiegazioni che attualmente vengono date dagli "economisti di sinistra" (neo-keynesiani, a dire il vero), che riconducono la crisi al sotto-consumo, hanno le gambe corte.Non ci sono soluzioni possibili all'interno del quadro della società di mercato, la quale non riesce più ad entrare nella camicia di forza del valore, dal momento che le tecnologie hanno reso quasi interamente superfluo il lavoro umano. Nel momento in cui ciascuna merce non contiene che delle dosi "omeopatiche" di valore - e dunque di plus-valore, e dunque di profitto - anche se non cambia niente per quel che attiene alla sua (eventuale) utilità per la vita, questa situazione si rivela mortale per un modo di produzione basato sul valore; e in una società totalmente sottomessa all'economia, un tale crollo rischia di piombare la società intera nella barbarie.

Analizzando in dettaglio l'evoluzione della crisi, Kurz legge le statistiche ufficiali e prova che, ad esempio, la Cina non salverà affatto il capitalismo, che la ripresa tedesca è basata, come tutto il resto, su dei nuovi debiti, che dopo la crisi del 2008 non si è fatto altro che spostare i "crediti tossici" dal settore privato verso gli Stati e che i servizi sono generalmente dei settori improduttivi (nel senso che non producono valore) e non possono sostituire i posti di lavoro persi nell'industria, ecc. Né i "programmi di rilancio" neo-keynesiani  né le cure di austerità hanno alcuna possibilità di risolvere la crisi, e meno che mai le proposte per creare nuovi posti di lavoro: il problema di fondo - ma anche la ragione di sperare! - è costituito dalla "fine del lavoro".

Lavoro e valore, merce e denaro non sono aspetti eterni della vita umana, ma invenzioni storiche relativamente recenti. Noi, attualmente, stiamo vivendo la loro fine - che non avverrà in un giorno, evidentemente, ma nello spazio di qualche decennio.
La finanziarizzazione dell'economia e la speculazione, lungi dal costituire le cause della crisi, hanno contribuito a lungo ad allontanarla, e continuano in tale compito. Ma così facendo, si accumula un potenziale di crisi ancora più grande, con la possibilità di un'esplosione inflattiva mondiale gigantesca, segno della svalorizzazione del denaro in quanto tale. Dare la colpa ai "banchieri" o ad una sorta di cospirazione neo-liberista, come fanno praticamente tutti i critici di sinistra, significa, secondo Kurz, significa semplicemente evitare perfino di sfiorare il problema, ecco perché rimane sostanzialmente scettico riguardo al potenziale emancipatorio dei nuovi movimenti di protesta. Kurz accusa la sinistra di non voler realmente uscire dal quadro capitalista, che essa considera, di fatto, come eterno. Per cui, propone solamente una distribuzione "un po' più giusta" del valore e del denaro, senza tener conto del ruolo negativo e distruttivo di tali categorie, né del loro esaurimento storico. Anziché correre dietro ai movimenti di contestazione ed adularli, Kurz oppone loro, costantemente, la necessità di riprendere una critica anti-capitalista radicale (non solo nelle sue forme, ma anche nei contenuti). Non basta cambiare il personale di gestione: il capitalismo è un sistema feticistico e incosciente che si regge sul "soggetto automatico" (l'espressione è di Marx) della valorizzazione del valore.

Kurz non pretende affatto di ristabilire "quello che Marx ha veramente detto", ma cerca di approfondire il lato più radicale ed innovatore del suo pensiero. Una parte dell'opera di Marx (quella che Kurz chiama il "Marx essoterico") rimane sul territorio della filosofia borghese illuminista e del suo credere nel progresso e nei benefici del lavoro. E' quell'altra parte, quella rimasta minoritaria e frammentaria, quella del "Marx esoterico" che ha messo in atto una vera e propria rivoluzione teorica che nessuno, per più di un secolo, ha saputo né comprendere né continuare. Questi differenti aspetti, in Marx, sono strettamente legati - non è questione di "fasi" successive - per cui Kurz non si propone né di "interpretare", né di "correggere", ma di riprendere le sue intuizioni più feconde, anche se queste implicano un'opposizione con altre sue idee. Il "tutto" non è semplicemente la somma degli elementi particolari, ma esso possiede una qualità sua propria: gli elementi particolari non sono quel che appaiono essere al primo colpo d'occhio, come nella visione empirica, ma rivelano la loro vera natura solo quando vengono compresi come parte del tutto. Qui, non si tratta di considerazioni metodologiche rese in maniera astratta, ma di perseguire un obiettivo preciso: non si tratta di analizzare (come fa Marx stesso, per lo meno nel primo volume del Capitale) la struttura di un capitale particolare - ancor meno un capitale "ideale" - per poi concepire il "capitale totale" come aggregazione di questi capitali particolari, che non farebbe altro che riprodurre la struttura del capitale particolare. Allo stesso modo, la merce particolare non è analizzabile che in quanto parte della massa totale delle merci. Nel primo capitolo del Capitale, Marx analizza la merce ed il suo valore, in modo del tutto logico. Da qui all'esistenza del denaro e, qualche passo in più, arriva al capitale. Ma tale successione logica riflette anche una successione storica? Marx non è chiaro in proposito, e sembra esitare. Per il vecchio Engels, e per i successivi marxisti, la scelta è fatta: la logica corrisponde alla storia. Per migliaia di anni avrebbe avuto luogo una "produzione di semplice merci", senza capitale. Poi gli uomini avrebbero cominciato ad attribuire a tali merci, un valore, sulla base del lavoro speso per fabbricarle. E anche il denaro esisterebbe da tantissimo tempo, ma prima serviva solo a facilitare gli scambi. Il capitalismo sarebbe "arrivato" solo quando il denaro si è accumulato fino al punto di diventare capitale, trovandosi davanti la forza-lavoro "libera". Questo genere di approccio - protesta Kurz - finisce per naturalizzare, ed ontoligizzare, il valore ed il lavoro, trasformandoli in condizioni eterne di tutte le società. Cos' facendo, anche la società post-capitalista si ridurrebbe a qualcosa che dovrebbe realizzare "l'applicazione cosciente della legge del valore", come dire una sorta di "mercato senza troppo capitalismo". Kurz, attingendo alla "nuova lettura di Marx" fatta in Germania dopo il 1968 da alcuni allievi di Adorno (Hans-Georg Backaus; Helmut Reichelt), sottolinea come, nella sua analisi della forma-valore, Marx esamini le categorie di merce, lavoro astratto, valore e denaro così come esse si presentano in un regime capitalista realizzato "che cammina sulle sue proprie gambe". Ragion per cui, si tratterebbe di una ricostruzione concettuale, che parte dall'elemento più semplice (la forma di merce semplice) per arrivare alla genesi "logica" del denaro, in cui l'esistenza del capitale - che appare come "conseguenza" della deduzione - è in realtà un "presupposto" dell'analisi, e le tappe intermedie della costruzione marxiana (quali "la forma-valore sviluppata" o lo scambio di merci senza la mediazione della merce-denaro) sono semplici tappe della dimostrazione e non corrispondono a niente di reale. Senza l'esistenza della merce-denaro, i valori non possono rapportarsi gli uni agli altri, in quanto valori e, quindi, una produzione di merci senza denaro non può esistere. Il valore (quantità di lavoro astratto) esiste solo dove ci sono denaro e capitale. Niente valore senza denaro. Niente denaro senza capitale.

L'obiezione, da più parti, ovviamente è quella che argomenta che commercio, mercati e il conio esistono da millenni e, quindi, il valore sarebbe sempre esistito; ed anche il denaro, a partire da una certa epoca, anche se serviva solo per lo scambio di beni eccedenti, ma la struttura era la stessa di quella attuale. Poi, soprattutto alla fine del Medio Evo, la crescita graduale di questi scambi avrebbe portato alla formazione del capitale.

Secondo Kurz, un marxismo che ragioni così non si distingue affatto dalla scienza borghese e dal suo approccio positivista che considera solo quelli che sono dei fatti isolati. Quando vede un uomo che scambia un sacco di grano con una pepita d'oro - che questo avvenga nell'antico Egitto, nel Medio Evo o al giorno d'oggi - conclude che si deve trattare della medesima cosa: merce contro denaro, perciò commercio, perciò mercato. Ma i fatti empirici non dimostrano un bel niente senza una "critica categorica" che situi tali fatti nel loro contesto. Il denaro precederebbe il valore? Ma quale denaro? Il denaro, in senso capitalistico, segue alla diffusione delle armi da fuoco (N.d.r. Vedi qui il capitolo "Economia Politica delle armi da fuoco") a partire dalla fine XIV secolo. Quello che a noi sembra essere denaro, nelle società pre e non-capitaliste, aveva piuttosto una funzione sacrale che nasceva dal "sacrificio" ed era un'altra forma di feticismo. C'era evidentemente produzione e circolazione di beni, ma non "economia", "lavoro", o "mercato", neppure in forme rudimentali o poco sviluppate (afferma Kurz, in opposizione a Polanyi, del quale tuttavia approva molte altre analisi). Rifacendosi a Jacques Le Goff, il quale nega l'esistenza di un "denaro" nel Medio Evo, afferma che il denaro pre-moderno non aveva niente del "valore", in quanto la sua importanza non derivava dal fatto di essere una rappresentazione, quantitativamente determinata, di una "sostanza" sociale generale (come il lavoro nella società moderna). Il capitalismo non è, per Kurz, un'intensificazione delle forme sociali precedenti, ma ne costituisce una violenta rottura.

Alla fine della sua vita, e della sua opera, Kurz si è chiesto se stiamo andando verso un "denaro senza valore", dal momento che la massa nominale di denaro presente nel mondo (comprese le azioni, i prezzi immobiliari, i crediti, i debiti, i prodotti derivati finanziari) aumenta senza sosta, mentre quello che il denaro dovrebbe rappresentare (il lavoro) si riduce a delle porzioni sempre più piccole. Il denaro non ha praticamente più alcun valore "reale", per cui una gigantesca svalutazione di tale denaro - sotto forma di inflazione - sembra essere inevitabile. Dopo secoli, durante i quali il denaro ha svolto il suo ruolo di mediazione sociale su una scala sempre più elevata, la sua svalutazione - non organizzata, ma subita - provocherà una gigantesca regressione sociale e l'abbandono di una gran parte di quelle attività sociali che non sono più redditizie. La fine della traiettoria storica del capitalismo rischia di riportarci ad un ritorno al "sacrificio", ad una barbarie post-moderna, come ci ricordano i "tagli sulla sanità pubblica" che assomigliano assai più di quanto si possa pensare ai sacrifici umani praticati, nell'antichità, per calmare degli dei furiosi.

Ora, paradossalmente ed ironicamente, tutto questo avviene quando ormai il "movimento operaio" ed i suoi intellettuali hanno completamente interiorizzato il "lavoro" ed il "valore", ed il loro orizzonte da tempo non va oltre l'integrazione degli operai, e di tutti gli altri gruppi subalterni, dentro la società di mercato, fidando che si tratti ancora di una crisi "ciclica" o "di crescita" del capitalismo. E' dura per loro accettare che stiamo vivendo la fine di una lunga epoca storica, dove non sappiamo se il futuro sarà migliore, oppure cadremo in una situazione dove la grande maggioranza dell'umanità non sarà utile nemmeno più per essere sfruttata; diventata ormai del tutto superflua alla valorizzazione del capitale.

Meglio rifugiarsi nell'illusione che ci sono solo alcuni malvagi speculatori che vogliono i nostri soldi e che lo Stato alla fine ristabilirà la giustizia per il popolo!!

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