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quaderni s precario

Sul rapporto tra soggettività e merce

di Federico Chicchi

La merce, come insegna Marx, è in primo luogo una qualità della cosa, materiale o immateriale che sia, nel senso che prefigura, intrinsecamente, un valore d’uso, un consumo, un suo godimento soggettivo. Essa però è anche una quantità, una cifratura, una misura simbolica (un valore di scambio e un prezzo). Ed è in questa sua continua oscillazione – fort-da[1] – tra la sua “potenza” ad agire che promette di liberare e il potere che il suo prezzo, la sua contabilità, inscrive nella soggettività, che si precisa il merito di quello che Lacan (1972) chiamava il discorso capitalista e – in omologia con la teoria dello sfruttamento di Marx – la “legge” del plus-godere.

Ambivalenza della forma merce dunque. La forza-lavoro, merce vivente, è infatti sempre e al contempo dentro e fuori il Capitale: potenza del lavoro e insieme necessaria energia di valorizzazione del capitale costante. Ed è proprio nello scriversi contingente e storicamente determinato del governo di questa beanza (che non può mai chiudersi pena la crisi strutturale del sistema) che si sostiene e giustifica il perdurare storico della società capitalistica.

La merce è quindi, sul piano fenomenico, il piano privilegiato di produzione di soggettività del moderno e del contemporaneo, oggetto privilegiato di compensazione della strutturale e artificiale mancanza ad essere del soggetto parlante (è oggettivazione immaginaria del soggetto). Soluzione temporale e materiale che il capitalismo offre per tamponare la strutturale inesistenza del rapporto sessuale, così come recita la celebre formula proposta da Jacques Lacan.

La merce è però complementariamente anche la forma con cui si produce la soggettivazione dell’oggetto.

Il feticismo è in tal senso quel processo che definisce il legame sociale come un rapporto cosale, come un perverso “contratto tra le merci”.

D’altra parte non è proprio quello che sosteneva Walter Benjamin, quando descriveva l’anestetica contemplazione delle vetrine da parte del flâneur? Il fine della celebre opera benjaminiana consiste, infatti, nel pensare come figura costitutiva del Moderno la connessione tra città moderna (passage) e merce (Cfr. Desideri, 2001). Ed “È nel cuore di questa connessione che Benjamin pone la questione del feticismo” (Ivi, p. 177). La perversa qualità del feticismo in Benjamin assume – e questo m’importa sottolineare – lo stile della rimozione sociale della scissione strutturale del soggetto. La morte e l’inorganico, infatti, si insediano nella moda e nei suoi feticci, stemperandosi fino ad evaporare. Come se questi fossero in grado di riparare, con una sorta di voluttuosa e fumante otturazione, prodotta per mezzo dell’irresistibile appeal dell’oggetto, l’angosciante e reale buco dell’essere. Il “problema” è che l’oggetto, o meglio il feticcio, per funzionare in tal modo deve riuscire a far dimenticare l’origine stessa della cosa. “La funzione effettivamente illusoria del feticcio non mirerebbe ad altro, allora, che a far dimenticare l’origine della cosa. È il motivo per il quale l’oggetto feticistico non ha storia, non conosce le vicende del divenire, ma sta lì (…) per insediarsi nell’assoluto apparire cosale” (p. 186).

L’oblio della cosa e del rapporto perverso tra soggetto e oggetto avviene dunque nel nome e nella parvenza del farsi immanente e senza scarti (della cifra della) merce.

La ripetizione maniacale, tratto tipico di cui si serve l’agire feticista, è poi il ritmo attraverso cui si imprime la nuova ed effimera promessa di immortalità. Questa stessa serialità del pieno di oggetti appare quindi essere una dimensione fondamentale del lato sociale del feticismo, dimensione che annichilisce nella sua presa infernale l’immaginifico proprio del politico e permette alla società di produzione delle merci di fare astrazione “dal fatto precisamente di produrre merci”, e di confondere fino alla loro reciproca evanescenza apparenza e realtà. La fantasmagorica metafisica delle merci realizza e rende quindi tangibile in tal senso l’ossimoro del concetto di natura sociale. Oblio delle coscienze nell’età dell’inferno la chiamerebbe Benjamin. La merce agisce dunque a livello inconscio come una sorta d’impalpabile ma efficace camicia di forza. Come diceva Simmel parlando del denaro, che è la forma “perfetta” della merce: “La polarità interna dell’essenza del denaro: essere il mezzo assoluto e diventare proprio per questo psicologicamente il fine assoluto per la maggior parte degli uomini, ne fa in modo particolare un simbolo, nel quale i grandi principi regolativi della vita pratica si sono in un certo senso irrigiditi” (Simmel, 1984, p. 339).

Per comprendere il complesso e insaturo statuto della merce dobbiamo allora osservarla nella sua spettrografia. Nelle presenze invisibili e cogenti che si agitano in suo seno. Nei suoi enigmatici e capricciosi grilli che mette in testa. Stupisce la lucidità con cui Mario Tronti approfondisce tale questione: “Soggetto moderno è la merce (…) C’è dunque una interiorità della merce, come c’è una sua soggettività? Sembra di sì; cosi appare” (Tronti, 2001, p. 107).

La merce, o meglio il feticismo, è dunque l’ideologia – la falsa coscienza – della società borghese. Karl Korsch l’aveva vista giusta: “[l]a società borghese è la particolare forma sociale in cui proprio le relazioni fondamentali che gli uomini stringono nella produzione sociale della loro vita appaiono soltanto a posteriori alla coscienza degli interessati in questa forma rovesciata, come rapporti di cose” (Korsch, 1968, p. 122).

Ma non mi pare basti quello che abbiamo detto fin qui. Occorre aggiungere una seconda tesi fondamentale a supporto del nostro argomentare. A nostro avviso la merce è agitata sempre dal fantasma della libertà. Potremmo dire che la promessa di libertà che la merce contiene è il suo fantasma fondamentale. È questo che, in effetti, la rende così “subdola” ed efficace nel penetrare il cuore dei processi di soggettivazione del moderno (via forza-lavoro) e del contemporaneo (via denaro). Essa, infatti, implica nella sua fruizione/consumazione una falsa promessa, la possibilità di una tanto illusoria quanto però concreta e paradossale traiettoria (per lo più inconscia) di soggettivazione, da un lato, ed emancipazione dal legame, dall’altro.

In altre parole la generazione di un’immagine soggettiva specchio, pregna di una narcisistica libertà immaginaria come riflesso del discorso simbolico della merce su di uno sfasato e infido piano di immanenza.

La merce è insomma il testo non scritto, la cifra, il vuoto interno del Capitale che permette di orchestrare un mondo capovolto, dove libertà e schiavitù si scambiano apparentemente di posto, dove la generalizzazione dell’oggettualità ricopre, opacizzandola, la vera natura dei rapporti sociali di sfruttamento. L’alienazione di cui ci parla Marx si organizza dunque fin da subito attraverso centellinate scariche di godimento, scariche che il discorso della merce rilascia attraverso l’inscrizione del soggetto nel suo fantasma di giustificazione.

Per precisare dunque la nostra prospettiva di analisi sul capitalismo contemporaneo possiamo allora dire che il fantasma del capitalismo fissa la soggettività nell’alveo (nella grammatica e nella sintassi logica) della merce e dei fantasmi che in essa si agitano, e produce la consistenza soggettiva e il suo anelito all’interno e a partire da questo litorale (continuamente violato nelle sue oscillazioni) posto tra il simbolico e il reale. Come dirà Lacan “L’uomo cresce in un bagno di linguaggio”. E nel capitalismo questo liquido in cui siamo immersi è la manifestazione invisibile della merce e dei suoi fantasmi. Ricordiamoci che secondo la psicoanalisi il fantasma è una sorta di convertitore libidico, in grado di tramutare una pena in un piacere inconscio. Se il sintomo, causato a questo scopo dal fantasma, denuncia un patire del soggetto al contempo però esso produce un godimento supplente del tutto consustanziale alla sofferenza.

Da un punto di vista simbolico il fantasma ha, dunque, a che fare con l’Altro del linguaggio. Da un punto di vista del reale il fantasma è invece la messa in scena soggettiva dell’oggetto piccolo a. La riduzione, cioè, del godimento originario al piacere, al circolo omeostatico della pulsione, di modo che il desiderio non si produca lì dove si avvererebbe la sua mancanza: nel désêtre della Cosa (con la c maiuscola – Das Ding). Rovesciando la formula lacaniana secondo cui l’operazione della sublimazione è “elevare l’oggetto alla dignità della Cosa ”,possiamo allora affermare che l’azione del fantasma sul desiderio nel suo registro reale rappresenta un abbassare la Cosa alla consolazione dell’oggetto (Ciappa, 2007).

La nostra tesi si precisa, allora, nel fatto che la merce articola la proposizione grammaticale fondamentale che anima il soggetto nel capitalismo e che, ancora più specificatamente, il suo fantasma funziona ideologicamente producendo assiomi indecidibili (Deleuze e Guattari, 1972) che definiscono una logica dello sfruttamento capace di mettere in scena una narrazione che muta la sua traccia a seconda delle condizioni storiche e materiali dei rapporti sociali di produzione (e quindi al variare delle condizioni di possibilità dell’estrazione del plusvalore).

Il fantasma della merce nella sua struttura nevrotica appare nel “funzionamento” soggettivo del capitalismo industriale attraverso il lavoro (e la sua etica sociale), il fantasma perverso racconta invece la “sceneggiatura” de-territorializzata della merce sotto le spoglie liquide del denaro (e dell’ingiunzione al godimento super-egoico) nel capitalismo finanziario e globalizzato. L’astuzia del discorso della merce (ma potremmo anche dire del discorso capitalista) s’inscrive, dunque, soprattutto grazie alla struttura bifida, anfibologica, del fantasma. Detto in altri termini nel fatto che seppur il fantasma sia interno alla qualità e alle modalità di esistenza storica dell’ordine simbolico vigente esso lascia però al contempo al soggetto la responsabilità ultima di agire liberamente sotto l’insegna del proprio fantasma particolare. In tal senso il fantasma è anche un concetto limite, liminare, in quanto segnala la linea di confine del sapere/potere del discorso egemonico. E questo limite si segnala attraverso il piacere che non trattiene, che non può castrare pena la sua sclerotizzazione, che non può evitare di rilasciare, di sprecare. Il capitalismo è in questo senso intrinsecamente e necessariamente aporetico.

La crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando ci obbliga ad interrogare il reale del capitalismo attraverso i suoi sempre più evidenti limiti simbolici e istituzionali.

La finanziarizzazione dell’economia, il farsi rendita del profitto, la progressiva smaterializzazione della merce e l’evaporazione del lavoro come istituto centrale del valore e dell’identità, ci conducono, forse, di fronte all’avvento di un possibile al di là del fantasma della merce. Soggiace nella profondità della crisi attuale, qualcosa che possa farci pensare che è finalmente possibile immaginare un attraversamento?

Ancora è molto difficile da dire. I segni di un’incrinatura del presente capitalistico però ci sono e non mancano di perturbarci. E come se si fosse finalmente guardato in faccia il fondo cieco della verità del Capitale, come se avessimo visto che dietro l’impalcatura simbolica che sostiene la recita del fantasma della merce, in realtà non c’è nulla per cui valga la pena trattenersi.

La merce per eccellenza del contemporaneo, il danaro, fatica a riprodurre le sue premesse e le sue promesse. Pare infatti mostrare il suo lato osceno e dissimmetrico, il suo reale direbbe Zizek. E così, paradossalmente, per negativo, il denaro finisce anch’esso a fare cenno all’«inutile» della gratuità. Dov’è dunque in conclusione che si arena il feticismo della merce? Su quale banco di sabbia? Mi sembra di poter dire: esattamente nello stesso punto nel quale aveva preso il largo.

Bataille lo aveva circoscritto in tutta la sua incandescenza già all’inizio degli anni trenta nella sua Part maudite attraverso il concetto di dépense: [“in linea di massima bisogna proprio ammettere che la vita o la ricchezza non possono essere indefinitivamente feconde e che giunge sempre l’istante in cui devono rinunciare a crescere per spendere”.]. È indubbio che il capitalismo, [come argomenta Rocco Ronchi] intrattiene con la dépense un rapporto di profonda intimità. Da un lato la riflessione weberiana sull’ascesi intramondana ci indica il duro, disciplinato e per certi versi ossessivo lavoro di rimozione che lo spirito del capitalismo ha messo in atto nella forma della ragione strumentale per “difendersi” nei confronti dello spreco e dei suoi innominabili resti osceni di godimento. Ma dall’altra parte la società capitalistica non ha mai fatto proprio fino in fondo, non ha mai risolto, la pulsione che la attraversava incessantemente. E mai avrebbe potuto, pena anche la sua estinzione storica. Ha tentato anzi di presiederla e governarla oggi a suo vantaggio attraverso l’imperativo super-egoico al godimento, che ha continuato a pulsare come suo bordo, come suo punto estremo fino a manifestarsi in tutta la sua incandescenza e spudoratezza nell’attuale configurazione finanziaria e postmoderna. Dunque, potremmo dire, che la dépense costituisce l’origine e il limite essenziale del capitalismo. “Il suo punctum di crisi, ciò verso cui esso gravita, nel suo godimento “al di là del principio del piacere” come fa la falena con la fiamma che la brucerà” (Ronchi, 2012, p.141). La crisi economica attuale potrebbe essere allora il luogo in cui il capitalismo contemporaneo tocca e forse va al di là del suo limite extimo, il suo reale – dove si palesa la sua costitutiva follia psicotica.

Ma allora cosa potrebbe accadere ora? Lacan nel 1972, profetizzava lo scoppiare del capitalismo e del suo discorso: “… la crisi non del discorso del padrone, ma del discorso capitalista, che ne è il sostituto è aperta. Non vi dico assolutamente che il discorso capitalista sia debole, al contrario è qualcosa di pazzescamente astuto, vero? Molto astuto, ma destinato a scoppiare. Perché è insostenibile” (Lacan in Italia, pp. 47-48).

C’è dunque oggi un’urgenza, una sporgenza politica da afferrare. Un’urgenza politica ed etica che non possiamo permetterci di non assumere fino in fondo. Si restringe, infatti, quell’apertura di oscillazione fantasmatica che permetteva alla merce di impressionare, e quindi adattare alla sua logica, la soggettività. A partire dalla sollecitazione lacaniana a non cedere sul proprio desiderio e quindi a non giustificarci rispetto alla nostra relazione con il reale, occorre allora osare e forzare il bordo della beanza in modo da aprire uno squarcio, un’infedeltà al proprio fantasma, che rimetta in gioco la possibilità della produzione di una nuovo legame sociale, di una nuova danza della soggettività, di uno spazio-tempo comune che sostenga la prospettiva di un orizzonte soggettivo e di un nuovo regno della libertà basato sulle ricchezze delle nostre incommensurabili differenze.

 


[1] Ricordiamo che il piccolo Ernst giocando con il rocchetto e pronunciando le oramai celeberrime parole Fort-da, tentava di istituire simbolicamente il controllo dell’angoscia prodotta dalla perdita dell’oggetto del godimento (la madre). Cfr. Freud, 1920.

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