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la costituente

Egemonia del capitale e unità della sinistra

di Alberto Burgio

L’ubiquità dell’egemonia

Se la matrice gramsciana del concetto di egemonia è universalmente nota, meno diffusa è la consapevolezza della sua complessità. Questa idea suole essere ricondotta (e ridotta) a una (o a talune) delle sue molteplici accezioni: il più delle volte alla dimensione culturale (dove «egemonia» è sinonimo di influenza ideologica e di capacità di orientamento o di manipolazione); talora alla sua dimensione immediatamente politica (secondo l’accezione leniniana e terzinternazionalista – relativa al tema delle alleanze tra le classi – che connota la prima comparsa del termine nelle pagine del carcere1 e la sua stessa irruzione nel lessico gramsciano degli anni Venti, tra le Tesi di Lione e gli appunti sulla Quistione meridionale). Egemonia come «direzione intellettuale e morale» della società, dunque; quindi come traduzione «in atto» della filosofia (della cultura, delle idee), secondo quanto Gramsci scrive reinterpretando la rivoluzione d’Ottobre come «teorizzazione e realizzazione dell’egemonia» da parte di Lenin, e in questa misura come un grande avvenimento dotato «anche» di valore «metafisico»2.

In effetti, stando alle pagine più classiche dei Quaderni nelle quali si tratta dell’egemonia, questi si direbbero gli unici significati del termine.

E l’egemonia sembrerebbe occupare un luogo ben definito (la «sfera delle superstrutture complesse» chiamata «società civile»3) per il fatto stesso di costituire una modalità determinata: la relazione di autorità basata sul consenso dei subordinati. Ma se si considera l’intera trama teorica dei Quaderni – l’insieme delle note che specificano l’àmbito di riferimento dell’egemonia – emerge un quadro ben altrimenti complesso. Gramsci connota il termine egemonia accompagnandolo frequentemente con uno o più aggettivi. Nei Quaderni si tratta di egemonia «politica», «economica», «commerciale e finanziaria», «sociale», «civile», «intellettuale», «politica e culturale», «politico-culturale» e «politico-intellettuale», «intellettuale, morale e politica», «eticopolitica», ecc.4. Questa ampiezza semantica (e funzionale) parrebbe revocare in dubbio non soltanto l’assunto in base al quale l’egemonia costituisce una funzione della sola società civile, ma persino l’idea recepita secondo cui essa equivale alla direzione intellettuale e morale» del corpo sociale, radicalmente distinta dal comando, dalla coercizione e dal «dominio diretto», se non ad essi contrapposta.

Non è questa la sede per affrontare a fondo la questione. Basti registrare il punto: contro ogni semplificazione, Gramsci afferma che nella società borghese (contemporanea) tutte le funzioni sociali (compresi i rapporti di produzione e lo stesso processo di produzione immediato: si consideri il caso paradigmatico del fordismo, dove la fabbrica informa di sé tutta la città) sono di per sé capaci – e hanno al tempo stesso il compito primario – di generare direzione intellettuale e morale (prestigio, fiducia, ecc.) nell’interesse del dominante. Del resto, questo è ben comprensibile alla luce della esplosione del tradizionale concetto di intellettuale, un altro dei luoghi teorici universalmente noti dei Quaderni. Anzi è, in qualche modo, il senso stesso di tale esplosione concettuale, la sua ragion d’essere e il suo contenuto essenziale.

Agli occhi di Gramsci, la relazione egemonica (la costruzione di relazioni consensuali) è di necessità letteralmente ovunque e quindi ovunque vi è spazio per (e si richiede) la produzione di ragioni, di costruzioni ideologico-simboliche a sostegno del rapporto di potere. Per questo gli intellettuali (quali funzionari dell’egemonia) sono anch’essi ovunque (giacché nessuna funzione sociale può ormai svolgersi in assenza di una componente intellettuale). Lungi dall’esser confinata nella «società civile», l’egemonia è in realtà ubiqua e innerva l’intero ventaglio delle relazioni di potere. Nulla sarebbe più sbagliato, in questo senso, che istituire una esclusiva corrispondenza tra relazione egemonica e «apparati ideologici dello Stato», benché sia ovvio che tali apparati – di per sé dedicati a questa funzione – sono caratterizzati da una più diretta connessione con l’intervento egemonico (e verosimilmente da una sua maggiore efficacia).

A tutte le funzioni sociali
– questo è in sostanza il tema – ineriscono, nella società odierna, relazioni intellettuali; tutte le articolazioni della relazione sociale costituiscono nessi in cui la capacità di dirigere (cioè di generare consenso, di esercitare egemonia) svolge un ruolo rilevante (e spesso decisivo). In altri termini Gramsci coglie la centralità del fattore discorsivo: il fatto che – senza che ciò nulla tolga alla materialità delle funzioni, che ne viene tuttavia connotata e, per dir così, sovradeterminata – nella società moderna («di massa») la comunicazione (il flusso simbolico affidato alla suggestione delle immagini e degli strumenti retorici nella relazione cognitiva, nello scambio linguistico, nella creazione artistica, ecc.) svolge funzioni strategiche in tutti gli snodi della relazione sociale (tanto nella sfera della produzione, quanto in quella della riproduzione).


L’egemonia della merce

C’è un’altra cosa che sovente si dimentica discorrendo di egemonia. Se il termine entra nel lessico politico nel Novecento e diviene classico con Gramsci, l’idea è ben presente già in Marx (e in Engels), e già nei loro scritti giovanili. Il che naturalmente non sorprende, a meno di leggere la prospettiva storico-materialistica in termini meccanici. Se Marx teorizza la potenza costitutiva dell’attività produttiva materiale (nella configurazione storicamente determinata del «modo di produzione»), è precisamente perché ne coglie la capacità di influire in profondità nella determinazione delle idee, delle mentalità e del senso comune, delle forme simboliche: in una battuta, in quello che la Prefazione del ’59 chiama «processo spirituale della vita»5. Manca ancora la parola egemonia, non però l’idea. Che anzi pervade la ricerca marxiana e contribuisce a determinarne lo sviluppo interno.

Non si tratta, infatti, della sola Ideologia tedesca («le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante»6), testo cardine nella elaborazione della «concezione materialistica della storia», ma legittimamente relegato tra i materiali preparatori del Marx maggiore, non solo perché rimasto allo stato di incompiuto e di inedito, ma anche perché composto nella prima fase della ricerca marxiana, quando Marx ed Engels sono ancora impegnati nel corpo a corpo con Hegel e la sua Scuola, piuttosto che con le pagine degli economisti classici e con le loro «robinsonate». Una teoria implicita, se si può dir così, dell’egemonia è rintracciabile ancora e soprattutto nei testi-chiave della critica dell’economia politica, a cominciare dal Capitale e dalle pagine del Sesto inedito che portano alla definizione del primo Libro mandato alle stampe.

Vediamo, in rapida sequenza. E cominciamo dal luogo più importante e forse più scontato in questo contesto. La critica del feticismo delle merci non è altro che una puntuale discussione della potenza egemonica dei risultati del «processo di produzione immediato», e più precisamente della sua configurazione simbolica (ideale, densa di cifre valoriali e prescrittive) definita nel quadro storicamente determinato della formazione sociale capitalistica. Quadro in forza del quale i prodotti assumono la forma della merce, quindi la sua carica di senso e di valore (anche simbolico). Di che cosa si tratta in definitiva? Dell’emanciparsi (ancora una volta simbolico) delle cose dai loro produttori; del rovesciamento del rapporto soggetto-predicato (causaeffetto; produttore-prodotto); quindi, del rappresentarsi – si noti: agli occhi degli stessi produttori, che quindi soggiacciono alla suggestione, all’egemonia della merce-feticcio – del rapporto sociale tra individui (e, nella fattispecie, del rapporto capitalistico di produzione) come un rapporto sociale tra cose (merci, lavoro morto e, sullo sfondo, macchine, capitale fisso). «L’arcano della forma di merce consiste semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti»7, col risultato di spogliare la merce di ogni connotato storicamente determinato e di trasformarla nel protagonista del rapporto sociale, nel suo stesso dominus.

L’«arcano», come si sa, sorge, secondo Marx, dall’innovazione fondamentale del modo capitalistico di produzione: il lavoro ridotto a pura (astratta) energia, deprivato da qualsiasi qualità specifica (eccetto l’essere lavoro umano) e per questo spendibile (valorizzabile) in qualsiasi sequenza produttiva. Ridotto, cioè, a mera quantità e per questo non riconoscibile (nemmeno da parte di chi lo eroga nel quadro del processo di produzione) nella sua concreta funzione costitutiva. Fatto sta che uno dei risultati di questa nuova condizione è la cesura, sul piano ideale, tra produttore e prodotto. E l’autonomizzarsi di quest’ultimo anche sul piano materiale (funzionale), il suo divenire fondamento e fulcro del rapporto sociale. Ciò di cui quotidianamente facciamo esperienza nel carosello della pubblicità non è, a guardar bene, che la manifestazione plateale di questo stato di cose e di questa potenza simbolica pervasiva che Guy Debord definisce «spettacolo», sottolineandone la capacità di irretire e subordinare, di ridurre noi tutti a «spettatori» delle nostre vite messe al servizio della merce, generalizzando il consenso inconsapevole dei sudditi del nuovo sovrano. Manifestazione plateale e proprio per questo invisibile, perché tale da informare di sé la (quasi) totalità dello spazio sociale, quindi da apparire in senso proprio naturale: è forse mai esistito – è forse concepibile un diverso stato di cose?

Il primo Libro del Capitale torna su questo tema con analoga forza nel penultimo capitolo, miniatura storica della genesi del mododi produzione capitalistico. È un brano di mirabile chiarezza, che conviene riportare senza frapporre commenti. «Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione»8. Non si tratta di un caso (il rapporto sociale capitalistico costituisce un sistema di significati e di valori che si autolegittima) e non si tratta di un corollario opzionale. Al contrario, è precisamente la potenza egemonica del capitale – il suo accreditarsi come ordine naturale delle cose – a garantirgli stabilità ed efficienza. Se «l’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza», ciò non si deve – sottolinea Marx – al persistente (ma in linea di principio eccezionale) ricorso alla «forza extraeconomica», bensì alla «silenziosa coazione dei rapporti economici»9, silenziosa – e, appunto, impercettibile – in quanto quei rapporti e le leggi che li governano sono considerati di norma naturali.

Questa stessa idea Marx l’ha svolta qualche anno prima della stesura del primo Libro del Capitale in quel manoscritto dedicato all’analisi del processo di produzione immediato che conosciamo sotto il nome di Sesto inedito. E che resta un testo canonico per l’approfondimento della questione cruciale connessa alla polarità tra sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale. Lo ricordiamo perché in queste pagine Marx impiega un concetto – parla di «capitalizzazione» delle forze produttive – che avrebbe forse meritato maggior fortuna nella discussione delle sue tesi teoriche. L‘idea è quella che sottenderà la critica del feticismo, ma declinata qui in relazione non ai prodotti del lavoro destinati al mercato (le «merci»), ma agli stessi mezzi di produzione, essi stessi in realtà lavoro oggettivato («morto»), ma visti dagli stessi operai (dal soggetto che ne era stato precedentemente produttore) come «per natura» incorporati al capitale. Con la conseguenza che quest’ultimo (nella forma fenomenica della macchina e della fabbrica) appare, in primis agli operai, demiurgo della (ri)produzione materiale e con pieno diritto sovrano della (ri) produzione sociale10.

Quando, tornando con la mente all’esperienza dell’Ordine Nuovo durante l’occupazione delle fabbriche, Gramsci scrive nei Quaderni che il «movimento per valorizzare la fabbrica» (per valorizzarla dal punto di vista e nell’interesse del lavoro, contro il punto di vista e l’interesse del capitale) aveva operato per liberare gli operai dall’egemonia del capitale mostrando loro come il «nesso» tra capitale e mezzi di produzione sia «transitorio», niente affatto necessario, e possa pertanto «sciogliersi» modificando il modo di produzione (quindi, in prima battuta, i rapporti di forza sociali), il filo dei pensieri che lo muove non è diverso da quello di Marx (che peraltro questa nota dei Quaderni cita esplicitamente, richiamandosi al «primo volume della Critica dell’Economia Politica»)11. Siamo sempre lì. Il capitale regge e governa (la produzione e la formazione sociale) anche in virtù del naturalismo del senso comune, che lo considera privo di storia, quindi immediatamente identificato con la cosa stessa (l’organizzazione del lavoro e della società, gli strumenti della produzione e i suoi prodotti, i valori che la produzione e la relazione sociale generano e mettono in circolazione). Mostrare che il nesso tra capitale e valore è «transitorio» (non naturale ma storico; non necessario ma conseguente a un determinato «rapporto di forza») significa per un verso porre in evidenza il carico di egemonia (di potere ideologico e valoriale) sotteso al modo di produzione capitalistico, per l’altro evocare il rovesciamento della formazione sociale e la possibilità di costruire una società nuova, affrancata dal dominio sul lavoro vivo e affidata all’egemonia di forze sociali restituite all’autogoverno.


L’analisi della crisi


Scontando i limiti di ogni generalizzazione si può dire che tutto il miglior marxismo teorico (tra i cui rappresentanti va senz’altro annoverato Antonio Labriola, protagonista di una esemplare battaglia antideterministica imperniata sul riconoscimento dell’efficacia storica delle idee) attinge a queste intuizioni. Il capitale non è solo un protagonista del processo di produzione, è anche un rapporto sociale complesso, che in quanto tale produce soggettività, quindi idee (ideologie), cultura, valori. Governa il corpo sociale e lo piega alle proprie esigenze nella misura in cui gli impone una visione delle cose e di se stesso funzionale alla sua propria valorizzazione. Se vogliamo un esempio paradigmatico di questo stato di cose, pensiamo al modo in cui la (quasi) totalità delle persone oggi pensa la crisi che sta sconvolgendo le società capitalistiche e ridefinendo in profondità – con una violenza paragonabile agli effetti di una guerra guerreggiata – i rapporti di forza (sociali, politici e patrimoniali) tra le classi e tra le nazioni. Questa crisi attesta oggettivamente l’incapacità del capitale di governare oggi la società in modo progressivo (coniugando crescita e sviluppo). La salvaguardia dei tassi di valorizzazione passa per la finanziarizzazione dei capitali e per un governo del processo economico mondiale che impoverisce drammaticamente i corpi sociali della metropoli capitalistica (con particolare evidenza per i paesi mediterranei della Unione europea), ponendo le premesse per un ulteriore aggravarsi della stessa dinamica critica. Il punto è che questa lettura della crisi suppone la capacità di distinguere tra crisi di scarsità e crisi di sovrapproduzione. E di riconoscere nelle
crisi di sovrapproduzione una specifica patologia del sistema capitalistico, effetto delle contraddizioni che lo costituiscono.

Trentenne, da pochi anni immerso negli studi economici, Marx sintetizza con stupefacente lucidità la questione, dimostrando ante litteram come quanto stiamo vivendo in questi anni per l’ennesima volta non costituisca in alcun modo una novità (il che peraltro ci interroga – come movimento operaio, come sinistra di classe, come comunisti – in ordine al ritardo analitico e soprattutto politico-pratico che la persistente incapacità di sovvertire un ricorrente stato di cose di per sé attesta). «Nelle crisi commerciali – leggiamo nel Manifesto del partito comunista – viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta»12.

Fermiamoci qui, non seguiamo Marx nelle conclusioni di questa descrizione, che ci colpisce per la sua non accidentale attualità. Il punto che c’interessa qui è che ancora oggi le radici strutturali della crisi non sono riconosciute se non da ristrette minoranze che in altri tempi si sarebbero dette «avanguardie». La povertà, la disoccupazione, le (crescenti) sperequazioni, l’iniquità non parlano da sole, nel senso che non rivelano a chiare lettere le proprie cause. Non basta nemmeno osservare le trasformazioni delle città (il rapido abbandono degli insediamenti industriali, spostati nelle periferie dell’economia-mondo capitalistica; la «gentrificazione» dei centri storici e la loro conquista da parte degli istituti bancari e finanziari; il degrado delle banlieues). Tra esperienza immediata e comprensione dell’esperienza c’è un divario che si può colmare solo disponendo di informazioni, conoscenze e consapevolezza critica. Che sono di norma patrimonio delle élite, mentre la stragrande maggioranza della popolazione vive e pensa sulla scorta delle rappresentazioni correnti, funzionali agli interessi dominanti.


Totalità e unità


Insomma, il fatto che sia in crisi nei meccanismi di riproduzione non comporta che il capitalismo sia indebolito nella potenza egemonica, nel controllo e nella gestione di quella che Gramsci chiama «struttura materiale dell’ideologia» alludendo agli organi di stampa, alle scuole, alle biblioteche, alla toponomastica e all’urbanistica, in una parola a «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente»13. Al contrario. La storia del Novecento mostra con chiarezza (si pensi in particolare ai fascismi europei negli anni Trenta) che la mobilitazione «totalitaria» del sistema egemonico coincide con i momenti più drammatici di una crisi che mette a repentaglio il comando capitalistico. Del resto, il fatto stesso che si consideri quella in atto dalla fine degli anni Settanta a questa parte una possente rivoluzione passiva comporta l’implicito riconoscimento di questo dato di fatto, sempre che l’idea di rivoluzione passiva sia impiegata con cognizione di causa, sapendo che una rivoluzione passiva («dall’alto») in tanto può verificarsi (e introdurre trasformazioni di segno regressivo) in quanto le classi dominanti accolgono «una qualche parte delle esigenze dal basso»14, il che permette loro di conservare il consenso della maggioranza della popolazione, cioè di mantenere la propria presa egemonica su gran parte delle stesse masse popolari.

Riassumiamo quanto sin qui emerso dalla rapida lettura di alcuni testi-chiave in tema di egemonia e cerchiamo di trarne qualche conclusione. Ubiquità ed efficacia dell’egemonia sono caratteri immanenti della formazione sociale capitalistica (essenzialmente fondata sulla coercizione economica), elementi costitutivi destinati a permanere fino all’insorgere di una reale crisi organica. Il che dovrebbe indurci a ricorrere con cautela e senso di responsabilità a tale diagnosi estrema, nella consapevolezza che il sistema capitalistico all’epoca della sua espansione mondiale dispone di enormi margini di resistenza (tuttora lungi dall’essersi esauriti), e che scambiare crisi episodiche per crisi organiche (quindi lotte di resistenza per progressioni rivoluzionarie) non è soltanto un marchiano errore di analisi, ma anche un fraintendimento foriero di disastri sul terreno dello scontro delle forze sociali. Discende, da queste semplici considerazioni, una conseguenza sul terreno politico che sembra oggi di particolare attualità.

Di fronte al movimento operaio, al mondo del lavoro salariato, alle classi subalterne e alle forze sociali (associative e sindacali) e politiche che ne assumono le ragioni sta un formidabile arsenale di fattori egemonici. Disseminati in tutto il territorio della relazione sociale e politica. Incarnati in tutti gli snodi del processo di riproduzione, a cominciare, come abbiamo visto, dagli elementi materiali che ne scandiscono la dinamica. Capaci di mercificare – rendendoli funzionali alla valorizzazione del capitale – tutti (o quasi) i prodotti della creatività (comprese le idee critiche, concepite per scardinarne la struttura). Questa circostanza riabilita la categoria di totalità, non per caso centrale in un’opera (Storia e coscienza di classe) che figura tra i classici fondamentali del marxismo teorico novecentesco. La formazione sociale capitalistica è «totalitaria» in quanto sistema egemonico: luogo di produzione e di riproduzione di un mondo materiale e di un mondo «spirituale», di una specifica forma dell’oggettività e di una altrettanto peculiare – storicamente determinata – forma di soggettività (nonché di ferree gerarchie antropologiche coerenti con la divisione internazionale del lavoro).

Lottare contro il capitalismo implica essere avvertiti in primo luogo di questo stato di cose. Avere consapevolezza di contrapporsi precisamente a una struttura totalitaria, non perché omogenea e catafratta, ma perché pressoché coestensiva all’ambito sociale e dotata pur sempre di un elevato grado di coerenza interna. Precisamente in questo senso i Quaderni impiegano il termine totalitario per definire il conflitto politico che si instaura tra due forze equivalenti, sostanzialmente simmetriche, entrambe in condizione di conquistare la totalità sociale, e di imporle la propria egemonia culturale15. Ne discende – dovrebbe discenderne – un’indicazione pratica di fondo, essenziale sempre e di per sé, ma cruciale nell’attuale fase politica, caratterizzata – in tutta la metropoli capitalistica e in particolare nel nostro paese – da un pesante arretramento delle forze del lavoro: la necessità di costruire fronti ampi di forze associabili alle lotte per la democrazia sociale e politica (per l’autogoverno dei corpi sociali e del lavoro vivo) e per la costruzione di un contropotere potenzialmente egemonico, in primo luogo sul piano culturale, senza il quale nessuna pur circoscritta battaglia per la trasformazione potrebbe risultare vittoriosa. Di fronte alla portata del sistema egemonico, se se ne percepiscono complessità, pervasività e incidenza, qualsiasi opzione minoritaria – che non consideri vincolante e prioritaria la capacità di mobilitazione di vasti settori di opinione pubblica e di forze organizzate – dichiara in partenza la propria irrilevanza politica. Ragion per cui nulla appare più irragionevole di opzioni minoritarie che contribuiscono alla segmentazione del campo delle forze critiche, condannandole di fatto all’impotenza.

Tanti anni fa Lenin definì l’estremismo «malattia infantile» del comunismo. La diagnosi è tuttora, anzi più che mai attuale e vale anche per il settarismo, effetto collaterale di quella stessa patologia.

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1 «Ci può e ci deve essere una “egemonia politica” anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica» (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. Ed. critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, p. 41).

2 Quaderni del carcere, cit., p. 886.

3 Ivi, p. 1584.

4 Ivi, pp. 914, 1591, 2237, 1519, 1566, 1590, 703, 1618, 2011, 1591.

5 Per la critica dell’economia politica. Prefazione, in Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1975, vol. I.2, p. 957.

6 Karl Marx- Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, in Id., Opere complete, vol. 5, Editori Riuniti,
Roma 1972, p. 44.

7 Il capitale. Critica dell’economia politica, Utet, Torino 1974, vol. I, pp. 149-50.

8 Ivi, p. 923

9 Ivi, pp. 923-4.

10 Cfr. K. Marx, Ökonomische Manuskripte 1863-1867, Teil I [K. Marx – F. Engels, Gesamtausgabe (Mega), Zweite Abteilung – «Das Kapital» und Vorarbeiten, Bd. 4], Dietz, Berlin 1988, pp. 119 ss.

11 Cfr. Quaderni del carcere, cit. p. 1138.

12 Karl Marx, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino 1974, p. 65.

13 Quaderni del carcere, cit., p. 333.

14 Ivi, p. 1325.

15 Cfr. ivi, p. 800

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