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A proposito di “critica del valore”

Una lettera ad Anselm Jappe

di J.-C.

marx engelsIntroduzione redazionale

Già da qualche tempo, anche in Italia, assistiamo ad un non trascurabile interesse per la cosiddetta “critica del valore” (in tedesco: Wertkritik), la quale costituisce ormai un corpus di tesi più o meno definito e identificabile. Questa corrente – sviluppatasi in Germania a partire dagli anni 1990, ma che ha trovato eco in Brasile, Portogallo, Francia etc. – propone un'interpretazione del testo marxiano che mette particolarmente in rilievo le nozioni di capitale come corso oggettivo (“soggetto automatico” reso autonomo rispetto agli individui singoli) e di lavoro astratto. Egualmente, essa tende a contrapporre – almeno in una parte dei suoi teorici di riferimento – un Marx definito “essoterico”, cioè buono per metalmeccanici babbei e per socialismi d'altri tempi, ad un Marx “esoterico” che si troverebbe soprattutto nei Grundrisse. Tra i principali testi di questa corrente, si possono leggere in traduzione italiana il Manifesto contro il lavoro del Gruppo Krisis (DeriveApprodi, Roma 2003), La fine della politica e l'apoteosi del denaro di Robert Kurz (Manifestolibri, Roma 1997) ed il recente pamphlet Contro il denaro di Anselm Jappe (Mimesis, Milano 2013)1.


Ne “Il Lato Cattivo”, n. 1 (gennaio 2012), avevamo dedicato un pugno di righe alla Wertkritik, inserendola tra quelle tendenze che considerano la fase attuale come caratterizzata da un «superamento della contraddizione fra proletariato e capitale nel quadro del capitalismo stesso» (p. 7); avevamo aggiunto che «sebbene il più delle volte queste teorizzazioni siano prive della necessaria fondatezza [...] ciò non ci spiega affatto perché esistano. Gli sviluppi problematici della teoria rivoluzionaria contemporanea derivano tutti, in ultima istanza, dall'impossibilità, per il proletariato, di opporre al capitale ciò che esso è all'interno del modo di produzione capitalistico come fondamento della rivoluzione» (ibid.). Nel lasso di tempo da allora trascorso, nulla sembra dover essere rettificato rispetto a quella valutazione. Molto si potrebbe invece aggiungere, giacché non in molti si sono fin'ora cimentati in una disamina critica della Wertkritik2, e il suo successo sembra in ascesa; senza dilungarci in una presentazione esaustiva delle sue tesi, ci limiteremo a rilevare una serie di punti, che in parte coincidono con quelli espressi nella Lettera ad Anselm Jappe che qui presentiamo, scritta da un compagno d'Oltralpe.

Andando davvero al sodo, si potrebbe dire che la Wertkritik abbia una certa propensione a prendere in parola la superficie del modo di produzione capitalistico, più di quanto non faccia con Marx. Tutta la storia esistita fino ad oggi è storia di lotte di classi, e questo malgrado gli incauti proclami di “Fine della Storia”; eppure qualcuno ci casca lo stesso... e pretende, così, parlare di capitale senza parlare di classi sociali, il che equivale a voler parlare di valore senza plusvalore, di plusvalore senza sfruttamento, di sfruttamento senza proletariato e classe capitalista. Tutto il resto segue a ruota – logico quindi buttare via l'acqua sporca (il movimento operaio) col bambino (la lotta di classe), approdando a bizzarre derive gradualiste ed alternativiste: nel Manifesto contro il lavoro, il passaggio dal capitalismo al comunismo è il prolungamento di un'auto-dissolvimento del valore potenzialmente già in atto, ed una lunga marcia di individui indeterminati, non proprio pacifica ma nemmeno troppo conflittuale. D'altra parte, il corso del capitale come “soggetto automatico”, come puro corso oggettivo, è esso stesso un aspetto del feticismo e della “reificazione” dei rapporti di classe su cui tante pagine, Kurz, Jappe e compagnia, hanno speso – ragione per cui risulta abbastanza paradossale questo tipo di “svista”, che forse non è senza rapporto con l'origine più o meno universitaria del gruppo. Idem dicasi ancora per l'individuo-Robinson che, non diversamente da quanto scrisse Marx, è l'apparenza socialmente necessaria della società che in realtà sviluppa al più alto livello i rapporti sociali. Il rigonfiamento della stessa sfera finanziaria non porta ad alcuna “evanescenza del valore” nella circolazione, ma ratifica un rimodellamento del rapporto di classe al cuore stesso della produzione del plusvalore: il capitalismo, da quando esiste, non ha mai smesso di distruggere la legge del valore per ricostituirla, simultaneamente, ad un livello sempre più alto. Vano dunque è credere che questo talento del capitale a «superare le proprie contraddizioni solo generalizzandole» (Marx) faccia a tal punto cortocircuito che una qualche “decadenza” o “fase terminale” eviterebbe la conflagrazione fra classi. Che poi queste classi non siano esteriori l'una all'altra, ma si tengano a vicenda – questo è un altro discorso. Come una classe del modo di produzione capitalistico possa, agendo in quanto classe, abolire se stessa e tutte le classi – questa è in effetti the question. Ma la Wertkritik – piegando eccessivamente il bastone nell'altro verso – salta comodamente a pie' pari sopra al problema, e sembra credere che fantomatiche “opposizioni” più o meno cittadine, possano rimpiazzare la classe rivoluzionaria e farla finita col capitale.

La Wertkritik ha, d'altra parte, avuto il merito di avere affrontato, in tempi più nebbiosi, la questione di genere3. Salvo che qui, alla fine, essa prende il capitale alla lettera, e constata con scandalo le “disuguaglianze” ancora esistenti nel mercato del lavoro fra uomini e donne, malgrado la “incontestabile” tendenza verso la realizzazione dell'individuo astratto (per vedere quanto la tendenza sia tutt'altro che “incontestabile”, basta dare un'occhiata alle statistiche riguardanti i livelli salariali e l'accesso al welfare). La totale indifferenza di fronte al sesso, o anche al colore della pelle, del portatore della forza-lavoro, non è mai esistita storicamente, se non (forse) in qualche “ghetto d'oro” del mondo del capitale: le categorie del modo di produzione sono sempre sessuate e, talvolta, perfino razzializzate – in ogni caso “surdeterminate”. Non è una distorsione della legge del valore, ma un elemento consustanziale al suo funzionamento.

Anselm Jappe – un esponente della Wertkritik ormai di casa nel “Belpaese” – ha recentemente proclamato, se ce n'era bisogno, il suo ennesimo addio al proletariato in un articolo eloquentemente intitolato Cambiare cavallo4. Risparmiamo ai lettori il riassunto di questo articolo, e andiamo dritto alla conclusione: Jappe afferma che:

«La crisi del capitalismo è al tempo stesso la crisi dei suoi avversari tradizionali. Con la fine graduale del lavoro, e dunque del valore e del denaro “valido” che ne risulta, tutte le opposizioni che vi si riferiscono o che vogliano impossessarsene per farne un uso migliore perdono pertinenza. [...] è a partire da questa nuova situazione prodotta dalla crisi che si può iniziare a immaginare una società post-capitalista che non si riduca ad essere un’altra versione di ciò che già conosciamo».


La Lettera che proponiamo qui può essere letta come una risposta; essa faceva seguito ad una riunione della “Critica del valore” svoltasi a Parigi in presenza di Jappe, il quale rispose in maniera telegrafica di non concordare con nessuno dei punti sollevati nella Lettera e che si sarebbe preso il tempo di rispondere nel dettaglio. A questi buoni propositi non vi fu alcun seguito.

Per quanto riguarda il testo della Lettera, esso mette bene in rilievo le zone di ambiguità presenti nella Wertkritik, che la rendono oggi attraente, fra gli altri, per tanti delusi dell'“altermondialismo”. Rispetto ad altre analisi che l’hanno presa in esame, questa Lettera ha due meriti principali: il primo è di parlare esplicitamente dal punto di vista della teoria della comunizzazione; il secondo è quello di non fare solo e semplicemente una critica “illuminista” che contrappone il vero al falso, ma di riconoscere come anche la Wertkritik si radichi, nonostante tutto, nelle specificità della fase attuale. Se la Lettera sembra rifarsi, in certi passaggi, ad una sorta di “archetipo” della radicalità, è per meglio mettere in contraddizione con se stessi i fautori della Wertkritik e le loro pose da “radicali”.

D'altra parte, non possiamo non constatare una debolezza della Lettera, riscontrabile in alcuni passaggi fortemente normativi (l'anti-democratismo di principio e l'idea, sottesa allo svolgimento, che le lotte quotidiane del proletariato non abbiano nulla a che vedere con la rivoluzione: “one solution revolution”): non si comprende in cosa si radichino le “speranze” rivoluzionarie dell'Autore, se non in un arresto pressoché totale – che la crisi si incaricherebbe di imporre – dello scambio fra capitale e lavoro, un arresto che non si darà mai nella storia; sembra qui che il proletariato trovi la sua capacità di distruggere la società del capitale, in qualcos'altro che non sia il rapporto capitalistico (forse quella “comunità” così cara a tutti i preti del movimento proletario). Insomma, ci si avvicina pericolosamente agli stessi presupposti della Wertkritik – “giocati” però in termini di rottura totale e non di trasformazione graduale – ed è del tutto assente l'idea che il rapporto rivoluzionario si produca positivamente attraverso lo svolgimento di tutto il ciclo di lotte che lo precede. Questi aspetti – che consideriamo dei limiti – non ci impediscono di ritenere l'essenziale del testo e di considerarne particolarmente appropriate la traduzione e la pubblicazione.

Il Lato Cattivo, gennaio 2014
 

ooOoo


J.-C. ad Anselm Jappe, 3-12-2012

Caro Anselm,

[…] Come avevamo già chiarito, il nostro interesse per la Wertkritik non trae origine dalla sua pretesa originalità – largamente esagerata – ma, al contrario, dalle convergenze talvolta molto evidenti con la teoria comunista “post-proletaria” (termine coniato da Christian Charrier) elaborata, in maniera conflittuale e non unitaria, da quaranta o cinquant'anni a questa parte nel milieu radicale principalmente francese (Camatte, Dauvé, Astarian essenzialmente, Roland Simon accessoriamente). Queste convergenze – come tu stesso hai notato – erano, ai nostri occhi, sostanzialmente il riflesso della nuova epoca, in cui appare infine con chiarezza che l'affermazione del proletariato – come classe per il capitale ed egualmente come classe portatrice di una gestione alternativa del capitale – è un grave impedimento alla distruzione dei rapporti sociali capitalistici.

Nel tuo caso personale – come ti avevo scritto già dopo Losanna – si trattava egualmente dell'impressione, avuta alla lettura dei tuoi libri, che questo mondo ti sia tanto insopportabile quanto lo è a noi stessi, e che i tuoi saggi possano essere animati da una “tensione” verso una vita radicalmente diversa da questa triste sopravvivenza; tensione che ci avvicina, spero, più di quanto non lo possano fare dei semplici accordi/disaccordi teorici.

Le convergenze sono nette, dal mio punto di vista, provenendo alcune teorizzazioni direttamente da Bordiga, mentre altre più tardive vengono dagli anni ‘60 e ’70: capitale come rapporto sociale e non come semplice dominio di classe, capitalisti come semplici funzionari del capitale e agenti dell'autovalorizzazione del valore, “autogestione” intesa come autogestione del capitale, carattere non-portatore di superamento delle lotte economiche del proletariato, importanza del dominio astratto del capitale di cui lo sfruttamento è un momento, carattere inessenziale (per i rapporti sociali capitalistici) delle categorie di proprietà privata dei mezzi di produzione e di “libero” mercato, Stato come espressione univoca del capitale...

In più, nel tuo caso, c'è una convergenza con certe idee di Bordiga: il comunismo che non ha rapporto con lo sviluppo quantitativo delle “forze produttive”, la critica della Tecnica (cfr. tra gli altri, il famoso articolo del 1952, Politica e costruzione: “Non vi è potente fregnaccia, che la tecnica moderna non sia lì pronta ad avallare, e rivestire di plastiche virginali, quando ciò risponde alla pressione irresistibile del capitale e ai suoi sinistri appetiti”5) , la necessità di una disaccumulazione.

Malgrado queste convergenze, che hanno fatto sì che fossimo entusiasti di incontrarti – e siamo contenti di averlo fatto – abbiamo indicato fin dall'inizio quelle che ci sembravano delle divergenze, delle debolezze o delle concezioni assai contestabili (dal nostro punto di vista), e M. non si è risparmiata di porti numerose domande al riguardo. Ma, come ti ho già detto, la polemica fine a se stessa non è di nostro gusto, e preferisco insistere su ciò che ci avvicina.

Tanto più che i tuoi testi – tra i tre teorici della Wertkritik che ci sono accessibili […] – sono quelli che contengono meno elementi per noi “scioccanti”.

L'insieme degli elementi della Wertkritik che sono a nostro avviso problematici, ci autorizzano – malgrado tutto – a vedervi, in parte, un laboratorio di rinnovamento della socialdemocrazia. In altri termini, al nocciolo teorico della Wertkritik (dominio astratto del valore/lavoro astratto, sfruttamento come rapporto puramente interno), si sono potute aggiungere innegabilmente delle posizioni “riformiste” o quantomeno di una fondamentale ambiguità, soprattutto in Postone, talvolta in Kurz, a priori molto meno nei tuoi testi (se si esclude il riformismo di tipo “anti”: lotte anti-nocività).

Si tratta di una constatazione, cioè la messa a fuoco di un problema, e non di un'intenzione polemica. Per illustrare la questione, ritorno sul fatto che Postone fonda la sua critica del capitalismo su di un livello molto alto di produttività del lavoro (in maniera molto “marxista tradizionale”), che permetterebbe un socialismo senza rotture con il lavoro come sfera separata. Si pensi anche alla sua latitanza in materia di qualsivoglia critica della democrazia, come indica la sua formula molto suggestiva di una «sfera politica pubblica che, sotto il socialismo, [sarebbe] situata fuori dall'apparato di Stato formale» (Temps, travail et domination sociale, Mille et une Nuits 2009, p. 574). Farò altresì allusione alla presa di posizione di Kurz in favore della “autodifesa israeliana” (Vies et mort du capitalisme, Lignes 2011, p. 218), precedente quella del suo testo del 2012, Nessuna rivoluzione, da nessuna parte6, in cui fa appello ad appoggiare in Israele una «forza d'intervento di tipo sindacale, ma sempre tenendo ferma la sua potenza militare, che tiene a bada la coalizione dei paesi ostili». O ancora all'appello costante di Postone alla “sinistra” e, apparentemente […] all'idea secondo cui le nazionalizzazioni di Mitterand del 1981 avrebbero potuto essere investite di un contenuto radicale. […]

Citerò ancora, tra le altre posizioni discutibili della rivista “Sortir de l'économie” (n. 4, p. 131), l'idea di Clément secondo cui la moneta manterrà senza alcun dubbio un ruolo nella società post-capitalistica7...

Devo dire che i tuoi testi sono quelli che contengono meno questo genere di cose, anche se vi possiamo trovare, in misura minore, altri elementi irritanti.

Nondimeno – se pensare teoricamente vuol dire qualche cosa – è quantomeno spiacevole che simili conclusioni possano essere tratte dalle premesse e dal nocciolo teorico della Wertkritik.

La pretenziosa frase di Debord (da lui rovesciata): «quando vedo una delle mie idee in bocca ad un mio nemico, mi domando dove ha sbagliato», deve essere raddrizzata/ribaltata nella sua formula e nel suo senso originali: se delle conclusioni inaccettabili possono essere tratte da una teoria, è perché questa teoria le contiene almeno in potenza, ed essa merita dunque di essere riesaminata.

Ecco dunque il primo punto: la “radicalità” della Wertkritik non può stabilirsi senza una ferma ed esplicita condanna di queste posizioni social-democratiche, e senza la ricerca della loro origine necessaria nella teoria stessa.
[…]
La nostra ipotesi è che queste conclusioni derivino, tra l'altro, dal fatto di non prendere in considerazione la violenza fondamentale che costituisce il rapporto di sfruttamento, non essendo in nessun caso la forza-lavoro una merce come tutte le altre, ma una pseudo-merce equivalente alla cessione al capitale da parte del lavoratore, del diritto di disporne per un tempo dato, stante il carattere essenziale di “senza riserve” (Bordiga) del proletariato. Per questa ragione, è verosimile che saranno questi “senza riserve”, esclusi o meno, ad essere la massa degli insorti di domani, e non – o non centralmente – una “associazione di individui critici”. Ed è certo che questi “senza riserve” non avranno mai sentito parlare di Wertkritik, non avranno mai letto pagine “comunizzatrici” etc. Ma a noi, in quanto individui, sarà imposto di partecipare con costoro ai tentativi di assalto al cielo, e di tentare di farlo in un senso comunista (ricostituzione di una vera comunità umana, contro la “comunità materiale” del capitale).

Se hai un'idea migliore, molto bene; ma in ogni caso bisognerà correggere il nocciolo teorico, se si vogliono correggere le “deviazioni” (a meno che tu non decida di dare loro la tua benedizione: è l'altro corno dell'alternativa) e fare della Wertkritik altra cosa che una teoria “radical-chic” per cene mondane: «Sapete, mio caro, che tutta la nostra vile società si basa sul dominio astratto del lavoro e del denaro? Come vi dicevo... Triste epoca la nostra, non è così?». […]

Dicendo questo, non metto in alcun modo in discussione il fatto che per noi la sola possibilità, la sola necessità, sia attualmente la teoria, e non esigo una “messa in pratica” immediata; l'attivismo e l'immediatismo non hanno mai fatto parte della corrente “post-proletaria” più di quanto facessero parte dell'attività di Bordiga e di coloro che gli stavano intorno. Da molto tempo ci è stato rivolto il rimprovero di restare rinchiusi nella nostra “torre d'avorio” e di condannare tutto ciò che “si muove”, così come siamo stati paragonati a dei “monaci del marxismo” o a degli “gnostici”. Non importa!, questi rimproveri ci fanno sorridere e – quando si vedono quelli che “si sporcano le mani” nei “movimenti” – assumono il valore di un complimento.
Ma, giacché anche i tuoi testi saranno riutilizzabili dalla socialdemocrazia ecologista (fautori della decrescita e altri) fino a che tu non abborderai questi punti, è necessario affermare – voglio rimarcarlo – che anche la crisi finale del capitalismo potrà (con già poche possibilità di successo!) portare al comunismo (il fatto che la Wertkritik abbia abbandonato questo termine è sintomatico) solamente attraverso un dolorosoprocesso di lotta per la comunizzazione. A questo proposito, alcuni tra quelli che ti stanno attorno sembrano avere un idea decisamente fantasiosa e confusa di ciò che significa questo concetto; non si è mai trattato di creare delle comunità o degli squat che comincino già da oggi a funzionare in maniera comunista! Non abbiamo nulla da conservare di questo mondo, e nulla da riutilizzare. Tutto appartiene a loro, niente a noi.

Comunizzazione = fin dal primo momento della crisi insurrezionale, la distruzione dei rapporti sociali precedenti si opera in maniera concomitante con lo scontro deciso e necessariamente violento con le forze del capitale (nella speranza che queste ultime siano il più possibile decomposte, ciò che ridurrà la violenza necessaria), mentre simultaneamente dei rapporti sociali comunisti si costituiscono all’interno della stessa attività di crisi (abolizione immediata del denaro, assenza di forme – democratiche o meno – di decisione separata, impossessamento dei mezzi di produzione, che saranno in parte distrutti e in parte riutilizzati nell’ottica di ciò che Astarian definisce “produzione senza produttività”: una nuova forma di attività nella quale lo scopo è l'approfondimento dei rapporti inter-soggettivi del gruppo per mezzo, accessoriamente, di una produzione per esempio...) e si estendono più rapidamente possibile al mondo intero (pena l’essere riassorbiti dal capitale), “estendendo” sempre di più la necessità della violenza a misura del loro approfondirsi (cfr. Bruno Astarian, La comunizzazione come via d'uscita dalla crisi8). Il comunismo come fine coincide con il comunismo come mezzo, fin dall'inizio dell'insurrezione, senza “presa del potere” preliminare alla trasformazione dei rapporti sociali, ciò che non cancella la necessità dello scontro con il vecchio mondo del capitale, sempre pronto a ricostituirsi.

Ciò che ci ha condotto a porre la questione dello scontro e della violenza, non è un'apologia immediatista e stupida di qualsiasi forma di violenza, indipendentemente dal suo contenuto – che lasciamo agli anarchici e ai maoisti più terra-terra...

D'altro canto, come ti ho già detto, le lotte “contro le nocività”, anche se possono rivelarsi necessarie, non possiedono alcuna radicalità intrinseca; viceversa, esse contribuiscono – anche quando sono vittoriose – ad incoraggiare l'idea che delle lotte di base più o meno illegali, volte ad esprimere un malcontento, possano essere ascoltate e avere un peso a livello dello Stato, rinnovando così... la democrazia. In ogni caso, esse non sono – non più delle lotte operaie rivendicative – in se stesse portatrici di alcun superamento. Farne l'orizzonte della Wertkritik, conduce a una sorta di “socialdemocrazia della disperazione”, dove la lotta si colloca sul terreno di “anti-riforme” che puntano semplicemente a ottenere il meno peggio, così come la vecchia socialdemocrazia puntava a delle riforme per porre in essere il male minore.

Sorvolo sull'insistenza, costantemente ripresa e rinnovata, riguardo all’originalità della Wertkritik, che a mio avviso è tale solamente su un punto: la cancellazione o la messa fra parentesi della violenza del rapporto fondamentale del MPC, la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione, la condizione di “senza riserve” del proletario.

Un volta inquadrato il nocciolo teorico della Wertkritik – l'analisi del lavoro astratto come mediazione sociale, del Capitale come autovalorizzazione del valore (analisi distorta a causa di questa dimenticanza primordiale) – nessuna delle sue analisi appare come veramente originale: di più, alcune si avvicinano pericolosamente alle tesi socialdemocratiche classiche – compreso l'appello alla buona volontà, indipendentemente dalla posizione sociale – mentre altre sono palesemente prese a prestito dal tanto detestato “marxismo tradizionale”. In particolare, l'analisi della crisi è la semplice ripresa delle teorie classiche del marxismo su questo tema (dibattito Luxemburg-Grossmann etc.), e lo stesso dicasi per il lavoro produttivo e improduttivo, il saggio del plusvalore, il saggio del profitto etc. Certe teorizzazioni di Kurz sono da mettersi le mani nei capelli, fin dalla prima pagina di Vies et mort du capitalisme: la “regolazione fordista” – che avrebbe permesso l'uscita dalla crisi del 1929!!! – è presa a prestito dai regolazionisti, scuola fondata per e da socialdemocratici all'inizio degli anni '80, al fine di “superare” il marxismo.

Lo so, non ho letto il Kurz veramente “teorico”, ciò che mi curerò di fare non appena sarà linguisticamente possibile; tuttavia, i pochi elementi che ne fornisci appaiono tanto “classici”, per chi legge anche testi trotzkisti come il Valier-Salama9 del 1973 (merce senza valore individuale ma come massa di merci, estrazione di plusvalore a livello “sociale”e non nell'impresa singola) quanto a dir poco discutibili (denaro senza il valore nel Medio-Evo).

In ogni caso, tutte le teorie che abbiano tentato di negare ogni legame, anche critico, ed ogni filo storico con il movimento comunista, ed innanzitutto nella sua forma proletaria (ciò che perfino “Temps Critique”10 si astiene dal fare), sono sempre finite nella sfera del rinnovamento della socialdemocrazia (Castoriadis, Lyotard, Baudrillard etc.).

Per farla breve, mi fermo qui, anche se ci sarebbe molto altro da dire. Non sei obbligato a rispondere, tantomeno subito; si trattava giusto di sottoporti in maniera più strutturata certe riflessioni, certi problemi... di cui, nella situazione attuale, né io né M. possiamo credere di detenere la soluzione; ma di cui la semplice enunciazione, ed il riconoscere che sono dei problemi, possono costituire, credo, una linea di demarcazione tra delle posizioni radicali e la loro caricatura.

Con amicizia,

J.-C.

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Note

1 I primi due testi, oltre a numerosi altri articoli, sono disponibili sul blog: http://ozioproduttivo.blogspot.com

2 Segnaliamo, tra quelli che vi si sono cimentati, la secca critica scritta dai compagni di “N+1”, Tesi nuove come... l'ideologia tedesca, in “N+1”, n. 28, ottobre 2010. Come spesso accade, nella foga di voler sostenere che – comunque sia – tutto è già stato detto, gli Autori se la prendono con la marxologia in stile Rubel, che cerca di mettere Marx contro Engels o contro Marx stesso, e passano così manifestamente a lato dell'essenziale. Più centrata la critica di Charles Reeve, Quando la montagna partorisce un topolino, in “Machete”, n. 2, aprile 2008, che molto giustamente, a proposito del Manifesto contro il lavoro, nota: «Il settore detto della “economia sociale” (ONG e associazioni) è definito come “forma embrionale di una riproduzione emancipatrice e non-mercantile”, che si tratta di “radicalizzare e unificare nella prospettiva di un superamento del sistema produttore di merci”. Un altro asse della lotta vi viene associato: “la paralisi del sistema nervoso della riproduzione capitalista”, ad opera degli scioperi dei camionisti e gli scontri degli ecologisti contro il trasporto di materie radioattive. Infine, squat, nidi autonomi, occupazioni di terre nei paesi poveri, sono suscettibili di organizzare una “riproduzione autonoma” e contenere in germe l’esigenza di una produzione non-capitalista. Le nicchie alternative in seno alla società, le zone autonome temporanee, rifiutate in teoria nel Manifesto, vengono ripescate nella pratica. Qualsiasi insubordinazione è sovversiva? Come potranno questi “embrioni” superare il sistema? Ci può essere un superamento senza rottura? Ecco alcune domande che KRISIS non pone. Qui come altrove, l’abbandono delle categorie di classe avviene a beneficio di una sorta di “fronte alternativo” prossimo all’attivismo cittadinista (il corsivo è nostro, NdA)».

3 Questo argomento è stato trattato principalmente dalla rivista “Exit”.

4 Reperibile qui: http://tysm.org/?p=8108 .

5 Amadeo Bordiga, Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra, Milano 1978. (NdT)

6 Disponibile qui: http://sognodimillecose.noblogs.org/post/2014/01/08/nessuna-rivoluzione-da-nessuna-parte/ . (NdT)

7 Per correttezza e precisione, facciamo presente che questa nostra attribuzione è frutto di una svista. Il testo in questione reca la firma di un altro componente della redazione di “Sortir de l'économie”. (NdA)

8 Testo reperibile qui: http://illatocattivo.blogspot.com/2011/12/la-comunizzazione-come-via-duscita.html . (NdT)

9 Jaques Valier & Pierre Salama, Che cos'è l'economia politica?, Jaca Book, Milano 1976. (NdT)

10 “Temps Critiques” è una rivista dell'area “radicale” francese, animata principalmente da Jacques Wajnsztejn e Jaques Guigou. Si presenta così: “Con il declino del ruolo storico delle classi, la critica della società capitalizzata non può più trovare l'essenziale dei suoi punti di riferimento nelle pratiche del movimento proletario, come aveva fatto dall'inizio del XIX secolo fino agli anni 1970. Oggi, anche se i ripieghi identitari perdurano, se gli integralismi comunitari si rafforzano in reazione al dominio planetario dell'economia, assistiamo alla rivitalizzazione di una critica che non si limita al circolo ristretto dei “teorici”, né ad una riflessione universitaria stretta nella sua compromissione con lo Stato. Questa critica esprime concretamente il rifiuto della tirannia del capitale e dei miti della società del lavoro, e il rifiuto di ammettere che gli individui siano riducibili ad un valore economico o sociale”. All'inizio degli anni 1990 – e principalmente all'epoca della I Guerra del Golfo – vi fu un significativo quanto estemporaneo avvicinamento tra “Temps Critiques” e le tesi dell'anarchismo insurrezionale italiano, testimoniato dal volume Aa. Vv., La guerra e il suo rovescio, Nautilus, Torino 1991. (NdT)

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