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Su Benicomunismo di Piero Bernocchi

di Michele Nobile

In Benicomunismo di Piero Bernocchi possiamo vedere tre grandi campi aperti alla discussione: la riflessione teorica sulle ragioni interne del fallimento del comunismo novecentesco; la discussione intorno al capitalismo contemporaneo; l’emergere di una nuova prospettiva politica e ideale di democrazia radicale, indicata nel titolo.

Il mio accordo con le tesi del libro è molto ampio, specialmente su quelle che meno sono digeribili per la sinistra italiana. Si vedrà che esistono alcune divergenze d’analisi, anche importanti; ma molto più del computo delle concordanze e delle divergenze quel che conta, ai miei occhi, è la prospettiva d’insieme, la tensione ideale, la direzione verso cui si muove questo lavoro. Nel modo più sintetico, in Benicomunismo è viva e forte  l’aspirazione a liberare l’anticapitalismo dal professionismo politico e dallo statalismo, in uno spirito che può dirsi libertario. L’asse unificante le diverse tematiche del libro ritengo sia quello del rapporto tra etica e politica. Che è poi la condensazione di tutti i problemi e il nodo cruciale veramente fondamentale per il futuro dell’umanità.


La coerenza tra mezzi e fine e la politica come professione

Il primo e fondamentale accordo con Bernocchi è di natura etico-politica: in nessun caso il fine può giustificare l’uso di mezzi non coerenti con esso perché «cattivi mezzi producono cattivi fini, e viceversa» (p. 268).

Certamente questo non è il principio sufficiente per costruire una prospettiva anticapitalista ma, altrettanto certamente, esso è il principio basilare e imprescindibile da cui muovere nella direzione giusta. Se applicato con coraggio e rigore all’intero spettro della pratica politica, della riflessione teorica e della ricostruzione storiografica, le sue conseguenze sono enormi, si susseguono a cascata.

Innanzitutto, applicandolo nel campo della politica che aspira a rivoluzionare il mondo, il criterio della congruenza tra mezzi e fine si può formulare in questo modo, assai noto ma concretamente negato, sia nella realtà istituzionale e sociale degli Stati sedicenti socialisti sia nella prassi dei partiti di sinistra nei paesi capitalistici: che la liberazione degli oppressi può essere opera solo degli stessi oppressi, sia nel processo di rivoluzionamento della società capitalistica sia in quello di costruzione di un nuovo ordine sociale. Ne consegue che nessun apparato e nessuna forma di rappresentanza possono sostituirsi all’azione e all’auto-organizzazione delle classi dominate e delle categorie sociali impegnate in questi processi, di rottura e di costruzione. Essi sono distinti ma concatenati: non si tratta solo della successione temporale ma del fatto che la forma e la strutturazione che, fin dall’inizio, assume il movimento di liberazione sociale influisce sull’esito finale.

Concordiamo dunque sul fatto che la tragedia del socialismo è stata l’identificazione della socializzazione con la statalizzazione e del partito con la classe, a sua volta omogeneizzata e mitizzata. Quelle fatali identità erano foriere dell’inversione tra mezzi e fine e dello snaturamento dei contenuti stessi del fine. Da molto tempo la parola comunismo può generare equivoci tremendi, al punto che è legittimo chiedersi quanto il nome sia ancora adeguato alla cosa, sia pur dai contorni sfumati, che si intende designare. E ciò essenzialmente per responsabilità degli stessi comunisti, non del nemico, come gli ingenui o i nostalgici possono credere.

Tuttavia, a differenza di Bernocchi, non ritengo che Marx abbia responsabilità teorica per questa tragedia (altro potrebbe essere il discorso circa la responsabilità, sua ma non solo, della scissione della Prima internazionale tra le anime dette bakunista e marxista, che fu ed è tuttora nefasta nei suoi effetti). Nella critica dell’economia politica Marx fece benissimo a trattare teoricamente l’insieme dei proletari e l’insieme dei capitalisti come aggregati macroeconomici; d’altra parte, nelle sue analisi di situazioni concrete (ad esempio in Le lotte di classe in Francia e nel 18 Brumaio) mostrò notevole capacità di differenziare le diverse correnti politiche borghesi e di cogliere i limiti d’azione e di coscienza delle classi dominate. La questione cruciale non è tanto quella dei limiti e delle oscillazioni del pensiero di Marx, che ci sono, ma della formazione e diffusione, nell’ultimo quarto del XIX secolo, di una originale rielaborazione del suo pensiero, che passò per ortodossia e che ebbe per «papa» Karl Kautsky. Questo processo di costruzione ideologica  deve spiegarsi con le concrete circostanze e i modi in cui vennero costruiti e funzionarono i partiti e i sindacati operai a cavaliere dei secoli XIX e XX e, in termini più generali, con il modo in cui le organizzazioni del movimento operaio non solo subirono (e subiscono) i molteplici fattori di divisione e di integrazione delle classi dominate nel sistema capitalistico, ma anche li interiorizzarono (e li interiorizzano).

La dicotomica divisione del lavoro tra partito e sindacato e l’assunzione che lo Stato, democratico-borghese o socialista, possa incarnare un presunto interesse generale della società (o dei lavoratori), altro non sono che la cristallizzazione nel movimento operaio della capitalistica differenziazione tra le sfere della politica e dell’economia. Quanto alla tesi che il socialismo consista essenzialmente nella statalizzazione dei mezzi di produzione, essa non è altro che l’opposto speculare della forma sociale capitalistica. Con l’aggravante, però, che se nella seconda il potere economico sopra i lavoratori è frammentato, nel socialismo di Stato esso viene concentrato e moltiplicato in modo totalitario. Ai due punti precedenti è poi connessa la tesi della superiorità del partito sull’organizzazione autonoma del movimento sociale, la cui forma estrema ma logica è la dittatura del partito unico sulla classe.

Il punto cruciale è la genesi e la riproduzione allargata di un ceto sociale di professionisti della politica (in senso ampio, comprendendovi i funzionari sindacali): che non è da intendersi moralisticamente come una malattia degenerativa o come un tradimento personale e ideologico, bensì come fatto socialmente determinato. I pericoli intrinseci alla forma-partito socialista, al professionismo politico e sindacale, alla separazione tra compiti e istituti della lotta politica e della lotta economica, erano stati razionalmente previsti fin dall’inizio del Novecento, sia nell’ambito della sociologia accademica, da Max Weber e da Robert Michels, sia dal giovane Trotsky e da Rosa Luxemburg, e, ovviamente, dell’anarchismo. In sintesi, si tratta del fenomeno sociale della burocratizzazione (qualcosa di diverso dal mero vendersi al padrone). Se Weber e Michels interpretarono la fenomenologia del burocratismo (come prassi) e della burocrazia (come determinato gruppo sociale) degli istituti operai come un destino o una legge della modernità, Luxemburg ne individuò la causa nella tensione obiettiva, da una parte, tra la tendenza dei partiti e dei sindacati socialisti a costruirsi un seguito di massa operando come organi di riforma del capitalismo, così anteponendo, per dirla alla Bernstein, il «movimento» al fine; e, dall’altra, nella fedeltà dogmatica al fine che tende, però, a farne delle sette. Da qui la divaricazione tra la retorica, i simboli, i riti e i miti, che richiamano l’alta finalità in modi anche ossessivi e intolleranti, e una pratica reale che con quel fine non ha più alcun vivo rapporto, essendo il secondo confinato alla definizione di un’identità ideologica che, col tempo, sarà progressivamente erosa, infine svuotata di senso dagli accomodamenti nel sistema.

Operativamente, la divaricazione tra il fine e i modi della pratica si sostanzia nel timore e nell’arginamento della spontaneità, ovvero di quei processi di mobilitazione sociale di massa che si radicalizzano politicamente nell’esperienza concreta della lotta. Quel che più teme la burocrazia è l’organizzazione della conflittualità sociale in organismi indipendenti, che non costituiscono emanazioni o cinghie di trasmissione della linea del partito. Ciò perché finalità sociale della burocrazia è sempre la salvaguardia e l’espansione del potere dell’apparato nei confronti dei semplici membri del partito e del sindacato, la conquista di una posizione nelle istituzioni e l’acquisizione, per questa via, di uno stabile status sociale. Per questo essa deve sostituire la propria rappresentanza e la propria organizzazione, come mediatrice dei rapporti tra le classi e tra la classe dominata e lo Stato, alla radicalizzazione politica e all’auto-organizzazione dei movimenti sociali. La burocrazia è congenitamente avversa al rischio, sempre presente nell’intensificazione della lotta, puntando invece a ciò che, con falso realismo e vero conservatorismo, essa definisce come «obiettivamente possibile» o il meno peggio. Così la sinistra ha precostituito le condizioni per disastri politici, essendo il nemico di classe abbastanza flessibile da usare la burocrazia social-comunista per neutralizzare le spinte sociali radicali, ma non altrettanto timida e codarda quando giunge il momento di sferrare il colpo decisivo; inoltre, la vocazione statalista della burocrazia comporta che essa sia, in effetti, sempre profondamente nazionalista nei suoi orizzonti.


La specificità della burocrazia e la questione del capitalismo di Stato


È bene ricordare che sia Luxemburg che il giovane Trotsky denunciarono al suo nascere le implicazioni autoritarie e sostituzioniste della concezione leniniana del partito, non a caso un adattamento «rivoluzionario» al quadro autocratico dell’Impero russo dell’idea kautskiana del partito-guida della classe (curioso che quel che è considerato più caratteristico del leninismo sia eredità del centrista archetipico). La polemica anti-leniniana di Luxemburg era coerente con la complessiva battaglia antiburocratica che condusse coerentemente fino alla morte; e quella di Trotsky era quasi contemporanea all’elaborazione degli argomenti che anticipavano la dinamica rivoluzionaria del 1917: un complesso di temi strettamente connessi che forma picchi altissimi, forse i più alti, del pensiero rivoluzionario del XX secolo. Restare ancora al di sotto di quelle elaborazioni all’inizio del XXI secolo è assurdo, irrazionale.

Condivido dunque pienamente la critica del professionismo politico e dello statalismo, ma se considero la burocrazia «socialista» un nemico, a differenza di Bernocchi non ritengo però che il problema interpretativo che essa pone si risolva identificandola con una borghesia dominante in società caratterizzabili come capitalismo di Stato.

Innanzitutto perché, se il capitale di Stato non è solo possibilità logica ma ricorrente realtà concreta, in alcuni paesi molto estesa (almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso), un’intera economia capitalistica statalizzata, in tutte le sue branche e in tutte le sue scale, mi sembra invece una impossibilità storica. Con Pierre Naville si può dire che nei cosiddetti socialismi esistano scambi di valore e sfruttamento del lavoro salariato (quindi con estrazione di plusvalore); tuttavia, la logica della riproduzione allargata e della distribuzione delle risorse in queste formazioni sociali è retta da regole obiettive diverse da quelle esistenti nel capitalismo. L’irrazionalità macroeconomica e microeconomica dei socialismi di Stato è enorme, ma essa si manifesta in modi e forme diverse da quelle capitalistiche, essendo determinate dai meccanismi di comando, amministrazione e competizione all’interno di una gerarchia strutturata per via politica, dentro e attraverso il partito-Stato. A mia conoscenza, la più ricca trattazione storica del rapporto di lavoro salariale In Unione sovietica e delle sue contraddizioni, micro e macroeconomiche, è in due splendidi lavori di Donald Filtzer, che coprono gli anni dal 1953 al 1991 (Soviet workers and de-stalinization e Soviet workers and the collapse of perestroika, Cambridge University Press, 1992 e 1994).

Quel che accomuna la storia dei partiti socialdemocratici e comunisti (o, meglio, di matrice staliniana) è l’integrazione nei sistemi partitici e statali, sia pur con tempi e in modi differenti. Con Bernocchi son dunque d’accordo sul risultato finale. Tuttavia, considerare solo il risultato finale non spiega il percorso della burocratizzazione né attrezza adeguatamente a comprendere il modus operandi della burocrazia, le ragioni della sua egemonia sui lavoratori, oppure la tragicommedia della sinistra italiana post-Pci, Rifondazione, Pdci e Verdi.

Il punto è che la burocrazia partitica e sindacale di sinistra, almeno fino a quando si muove nel solco ideologico dell’originale matrice nel movimento operaio, presenta una caratteristica doppiezza. I suoi margini operativi si collocano tra il fine ideologico indicato come socialismo, da realizzare in un futuro indeterminato, e la concreta azione nel presente di mediazione fra le classi antagonistiche, il cui orizzonte è costituito dalla riforma del capitalismo e da un qualche genere di «democrazia progressiva» o «partecipata», di cui è parte integrante l’accesso di detta burocrazia ai governi nazionali e locali dello Stato capitalistico. È la capacità di mantenere questa doppiezza che fonda la credibilità della burocrazia di fronte ai lavoratori e che ne permette l’egemonia sui movimenti di lotta, la riproduzione di un senso d’appartenenza e di un serbatoio di voti.

Ed è questa stessa doppiezza che spiega le oscillazioni circa la tattica tra componenti burocratiche «movimentistiche» e «di sinistra» e quelle più disposte al compromesso immediato e di basso profilo, o la differenziazione tra i presunti puristi della tradizione ideologica e i «revisionisti». Un’analisi approfondita dovrebbe distinguere paesi, momenti storici e partiti; ma, fino ai primi anni Ottanta del secolo scorso, perfino i partiti socialdemocratici erano diversi tra loro.

Se si tiene conto di questo, credo si possa meglio apprezzare in tutta la sua portata storica il fallimento politico del riformismo socialista, rispetto ai fini da esso postulati, e della logica del meno peggio. E, viceversa, si può meglio valutare la mutazione dei partiti di sinistra realizzatasi nelle ultime due decadi del secolo scorso: l’assunzione definitiva, generale e integrale del capitalismo come orizzonte politico, la rinuncia alla sua riforma e a difendere anche gli interessi minimi dei salariati, consapevolmente subordinati alla competitività e all’accumulazione del capitale, la loro completa statalizzazione e il deciso prevalere delle funzioni di governo rispetto a quella della rappresentanza, sia pur limitata, di interessi sociali (con i corollari della impossibilità di esistere senza il finanziamento pubblico e della diffusione della corruzione). È questa mutazione, la convergenza tra partiti di matrice operaia e gli altri, che, a mio parere, costituisce il passaggio decisivo verso regimi politici postdemocratici. Che non sono imposizione dall’estero, da centri di potere transnazionali, ma risultato di una lunga storia, in cui le specificità nazionali si sono combinate con l’interdipendenza continentale e con la riconfigurazione dell’economia mondiale, sfociando nella costruzione di una struttura istituzionale internazionale europea, fin dall’inizio concepita in modo non democratico (si veda a proposito The new old world di Perry Anderson, Verso, London 2011); questa, a sua volta, rafforza e promuove la postdemocrazia.

Da questo punto di vista, proprio per quella che era la forza del Pci e della Cgil, l’Italia è un caso esemplare: dell’avvento della postdemocrazia il Pci, i suoi mutanti e la Cgil sono stati protagonisti determinanti.


Rompere radicalmente, anche psicologicamente, con l’eredità dei sedicenti socialismi reali


Per chi si dice comunista, la cartina di tornasole rivelatrice dell’assimilazione o meno del principio secondo cui i mezzi devono essere adeguati al fine è, a mio parere, questa: si è in grado o no di trarre le logiche conclusioni dal fatto che nel solo biennio del Grande terrore il regime staliniano massacrò almeno 780 mila persone, a cui si devono aggiungere le deportazioni, i morti, le sofferenze e il lavoro schiavistico di milioni di esseri umani imprigionati nell’arcipelago Gulag, esempio macroscopico di regressione storica e di civiltà? Si è disposti o no ad ammettere, psicologicamente e intellettualmente, e a indagarne fino in fondo le ragioni, che, fino allo scatenamento della logica genocida del nazismo durante la guerra, nessuno massacrò i suoi concittadini più di Stalin, neanche Hitler?

Ritengo che le rispettive radici dello stalinismo e del nazismo affondassero in processi storici molto diversi, che gli orrori dello stalinismo furono figli degeneri di una rivoluzione sociale e non di una società capitalistica in una particolare situazione storica, come invece il fascismo e il nazismo. Si può, si deve discutere, della genesi e del funzionamento del sistema sovietico; si deve discutere se i socialismi reali fossero una forma di capitalismo di Stato, di collettivismo burocratico, di Stato operaio degenerato, o un qualche tipo di formazione sociale nuova e instabile ecc. Tuttavia, la vera linea di demarcazione è di natura etico-politica. Occorre essere assolutamente limpidi e radicali nel giudizio, riconoscere lo stalinismo e le sue varianti (tra cui il maoismo) per quello che furono o per quel che ancora oggi sono: dei nemici della liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dall’oppressione, diversi dal capitalismo (per chi scrive) ma almeno pari al capitalismo nelle sue peggiori e oppressive espressioni politiche. È chiaro che un giudizio così severo si estende oltre i periodi più drammatici di ingegneria sociale e le personalità feroci, investe l’intera storia dello Stato detto socialista in tutti i campi, richiede la ricerca critica anche intorno ai suoi tempi «eroici», non permette illusioni sulla riformabilità di questo genere di potere statale (si ricordino le illusioni su Gorbaciov) né nostalgici piagnistei sulla sua ingloriosa autodistruzione (le cui linee fondamentali, errate solo nei tempi, erano state previste da Trotsky mezzo secolo prima). Altra cosa è la lotta contro gli effetti della restaurazione del capitalismo (o del capitalismo nella sua forma «occidentale»).

Sul lungo periodo, a poco vale denunciare le nefandezze dell’imperialismo e nulla vale compilare libri neri del capitalismo se non si è capaci di dire la semplice verità su quel che furono (e sono) i cosiddetti socialismi reali. A poco serve denunciare le nefandezze dell’imperialismo e del capitalismo se non si è capaci di dire la semplice verità su quel che furono (e sono) i cosiddetti socialismi reali. Il negazionismo o anche solo la sottovalutazione degli orrori sovietici o della Cina maoista (e di altri «socialismi») sono intollerabili ed è del tutto inaccettabile l’argomento, giustamente criticato da Bernocchi all’inizio del libro, per cui «non si può gettar via il bambino insieme all’acqua sporca». No, il «bambino» va «gettato» perché ha prodotto una montagna di escrementi che hanno sporcato, forse irrimediabilmente, lo stesso termine comunismo.

Se non si riesce in questo, allora sarà ben difficile procedere nel riesame razionale dei miti, dei metodi e degli orientamenti politici che discendono dal cosiddetto comunismo novecentesco. Attraverso mutamenti della forma e dl linguaggio essi sono ancora operanti.


Un esempio di cecità etica e strategica: la politica internazionale dei socialismi reali e «l’unità della sinistra»


Una forma diffusa di giustificazionismo dei regimi dei socialismi reali è l’assunzione, specie per l’Urss, che essi abbiano svolto una funzione storicamente progressiva come validi contrappesi all’imperialismo nell’arena geopolitica. Si finisce così col confondere la lotta contro l’imperialismo e il militarismo capitalistici con il sostegno politico delle caste dominanti dette socialiste (se non di dittature nazionaliste), altrettanto militaristiche ed oppressive (per quanto non capaci, lor malgrado, della stessa forza espansiva del capitalismo). La tesi può coesistere anche con la presa di distanza dal regime staliniano o, almeno, dai suoi aspetti più feroci. In questo caso siamo in presenza di una variante della più tradizionale «teoria realistica» delle relazioni internazionali, per cui la politica interna è separata da quella internazionale. Non è però così. Sia la politica interna che quella internazionale di tutte le burocrazie sono soggette a tremende inversioni ma, pur nelle oscillazioni, c’è una sostanziale solidarietà negli orientamenti dentro e fuori i confini.

Un diffuso mito giustificazionista è quello basato sul ruolo dell’Armata rossa nella liberazione dell’Europa dal nazismo. A questo proposito, dovrebbe bastare ricordare che, se è vero che fu l’Unione sovietica a sopportare l’urto maggiore delle armate naziste dopo il giugno 1941 e poi a liberare da esse gran parte dell’Europa, tuttavia fu il patto tra Hitler e Stalin (per interposti ministri) nel 1939 che segnò l’inizio alla Seconda guerra mondiale: ad esso seguì immediatamente l’invasione e la spartizione della Polonia di comune accordo tra la Germania nazista e l’Unione sovietica. Se si vuol ragionare in modo geopoliticamente o strategicamente onesto, allora non dovrebbe essere difficile comprendere che l’alleanza di fatto fra i due totalitarismi fu quanto permise a Hitler di conquistare quasi tutta l’Europa continentale, essendosi assicurato il confine orientale e venendo pure rifornito di materie prime essenziali per la guerra dall’Unione sovietica, fino all’ultimissimo momento prima di rivolgersi contro di essa. La solidarietà con le atroci sofferenze dei popoli sovietici sotto il tallone nazista non può far passare in secondo piano il fatto che l’Armata rossa fosse strumento al servizio del totalitarismo sovietico e che esso si sia imposto con la forza nell’Europa centrale e orientale. Le rivolte dei lavoratori e le conseguenti repressioni in Germania orientale, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, sono lì a testimoniarlo.

Questo è solo un esempio, ma storicamente e psicologicamente importante, per illustrare un concetto più generale: la politica estera sovietica e degli altri «socialismi» ha sempre avuto (ed ha) natura nazionalista e conservatrice. Essa ha sempre mirato a salvaguardare la riproduzione della casta dominante, utilizzando a questo scopo le lotte di liberazione e il sostegno a regimi nazionalisti (perfino anticomunisti in politica interna) come pedine per contrattare i termini della coesistenza col capitalismo come sistema mondiale e l’accordo con questo o quello Stato imperialista, si trattasse delle potenze liberali, della Germania nazista, degli Stati Uniti d’America. E gli «aiuti» internazionali sono sempre stati dei frutti avvelenati, come fu, ad esempio, nei casi dei repubblicani in Spagna e di Cuba.

Se quel che precede non basta, faccio notare che la costruzione e il mantenimento di arsenali nucleari è la forma estrema di attentato all’esistenza dell’umanità: dunque, la sola minaccia del possibile uso dell’arma nucleare contro i popoli dei paesi capitalistici avanzati è sufficiente a far piazza pulita del sedicente internazionalismo proletario, essendo la forma assoluta dell’inversione tra i mezzi e il fine (presunto) del progresso dell’umanità. Karl Kautsky fu detto rinnegato per molto, ma molto meno.


Sotto la formula dell’«unità della sinistra», della gauche plurielle e simili è ancor viva, in mutata forma e linguaggio, una diretta eredità della politica estera staliniana, forse per i più inconsapevole ma pure molto concreta, visto che continua a influire praticamente nella politica italiana (e non solo): quella dei fronti uniti o popolari contro la destra, più o meno fascista, connessa al mitico obiettivo della «unità della sinistra» per scopi elettorali e governativi. Questa linea era ed è percepita come la versione «buona» della politica (estera) sovietica, una svolta feconda dopo quella settaria dei primissimi anni Trenta, che equiparava socialdemocrazia e fascismo (e che agevolò l’ascesa del nazismo). Allora si trattava di cercare l’alleanza con le potenze liberali per bilanciare il riarmo e l’espansione della Germania nazista, fino all’improvviso ribaltone del 1939. Ebbene, il nocciolo del frontismo non è l’espansione della lotta di classe intorno a specifici obiettivi unificanti ma, al contrario, la subordinazione dei movimenti di lotta e della volontà di cambiamento all’alleanza con i partiti e la borghesia «progressisti», secondo la logica dei due tempi e, quindi, della rinuncia di fatto a costruire una prospettiva anticapitalistica. Perché l’operazione vada a buon fine occorre che la purezza del fine sia garantita da un riferimento esterno (l’Urss, o altro caso esemplare), dai miti e dai riti della tradizione, dal carisma del capo.

Una manifestazione di questa vecchia logica frontista nella sinistra italiana è stata la trasformazione del berlusconismo in male assoluto, passando sopra il fatto che, in tutti gli campi, il grosso dell’innovazione cosiddetta neoliberista in Italia fu compiuta dal centrosinistra, con cui la sinistra post-Pci ha collaborato per anni, al livello del governo nazionale e dei governi regionali, e con cui una parte ancora collabora mentre l’altra vorrebbe poter collaborare, se soltanto l’interlocutore gli riconoscesse una qualche residua utilità e gli concedesse la possibilità di far ricorso al solito linguaggio tortuoso e sconclusionato pieno di aspettative, «percorsi condivisi», «senso di responsabilità», ponti con la piazza, fumose promesse.

Concludo il punto dicendo che il riesame critico di quel che furono le Internazionali (la Terza in particolare) e delle particolari posizioni della politica estera sovietica e cinese può insegnare molto su quel che non deve essere l’internazionalismo, sia nella forma organizzativa che nei contenuti. È superata e improponibile l’idea di Internazionale come super-partito che detta la linea a sezioni nazionali; al contrario, occorre pensare a una Internazionale dei movimenti basata su un pochi, essenziali principi anticapitalistici e antiburocratici, non centralistica (questo è il senso che come Utopia rossa attribuiamo a una possibile Quinta internazionale). Qualcosa che, nella forma, non è lontano dall’esperienza del Forum mondiale altermondialista di cui discute Bernocchi nel libro; un caso la cui analisi andrebbe approfondita ma che, comunque, è significativo di una tendenza al superamento delle forme tradizionali dell’elaborazione e della prassi anticapitalistica.


Il bolscevismo, la forma partito e lo statalismo


Da quanto precede si può intendere la ragione dell’accordo di fondo con la critica che Bernocchi rivolge alla filosofia della storia centrata sul mito del Proletariato quale soggetto omogeneo, teologicamente destinato alla missione di redimere l’umanità eppure e nello stesso tempo destinatario della missione evangelizzatrice e di guida spirituale del Partito.

Infatti, se la riduzione a unità della complessità, segmentazione e contraddittorietà della classe dei salariati costituisce una figura mitologica, essa si risolve nel concreto nella pretesa del Partito di essere riconosciuto dai credenti come l’imprescindibile mediatore della Rivelazione, l’unico legittimo titolare della Fede e della sua mondana amministrazione. Sicché la moderna incarnazione dello Spirito esercita le sue funzioni ecclesiastico-statali in nome e per conto del Proletariato, novello gregge, e se necessario, come sempre è, sopra di esso.

Il referente della parabola è evidentemente il bolscevismo. Penso che tra il bolscevismo al potere nei primi anni sovietici e il regime staliniano esista una differenza di qualità; tuttavia, non si può affatto ricondurre la spiegazione dello stalinismo, come nella dogmatica trotskista, alle condizioni sociali e all’isolamento internazionale della rivoluzione russa. Conosco bene l’argomento, avendolo condiviso per alcuni anni, e al quale riconosco parte della verità. Parte, ma non tutta la verità né la parte decisiva per l’orientamento politico e ideale. Non a caso, il riferimento alle condizioni obiettive può essere ripreso da alcuni nostalgici della vecchia Urss e di Togliatti, perché esso può alimentare un certo senso di inevitabilità dello stalinismo che arriva a confondersi con il giustificazionismo. Quel che difetta a questa prospettiva (e che indebolì la posizione di Trotsky, che pure nei confronti di Stalin ebbe ragione su tutto) è proprio il coraggio di riconoscere, in tutto il suo rilievo, una logica latente nel bolscevismo quale forma estrema di esaltazione della funzione dirigente del partito.

Storiograficamente si tratta di individuare quelle scelte soggettive fatte dal bolscevismo al potere che in nome della salvezza della rivoluzione iniziarono a storpiarla dall’interno, contribuendo a consolidare il burocratismo come prassi e un gruppo sociale dominante, la burocrazia che gestiva il partito e il nuovo Stato; e non mi riferisco solo a quelle decisioni prese durante la guerra civile, ma anche alla subordinazione dei comitati di fabbrica al nuovo Consiglio supremo dell’economia nazionale (il Vesencha), alla logica centralizzatrice, dall’alto sopra il basso, affermatasi tra il dicembre 1917 e i primi mesi del 1918 (su questo si veda Le teorie dell'autogestione di Roberto Massari, Jaca Book, Milano, 1974). Idealmente e politicamente si tratta di assimilare fino in fondo la lezione per cui non tutti i mezzi sono coerenti col fine, che nulla può giustificare la sostituzione del partito e dello Stato all’esperienza e alla gestione dal basso.


In definitiva, allo scadere del secolo la lezione che viene dalla storia dei partiti socialdemocratici e comunisti (e dei sindacati collegati), nonché dei regimi detti socialisti, è che i partiti sono l’ambiente in cui si sviluppa il burocratismo e si forma e si esercita il potere della burocrazia come ceto sociale di professionisti della politica. Il potere della burocrazia «socialista» e sindacale nasce fuori dello Stato, in forza della sua posizione organizzatrice e ideologica nei confronti delle classi dominate; ma proprio perché apparato distinto da queste classi e con interessi propri, esso tende irresistibilmente ad accrescere il proprio potere e a consolidare ed estendere i propri privilegi facendosi Stato: totalitario, sulla base di una rottura con il capitalismo, oppure integrandosi nel sistema politico dello Stato capitalistico, sempre in nome e per conto dell’interesse dei cittadini-lavoratori, sempre sopra le loro spalle e, purtroppo, anche sulla loro pelle.

L’inevitabile conclusione è che la forma-partito sarà pure una delle condizioni della democrazia, che comporta la piena libertà d’organizzazione, ma è pure forma che opera per sostituire il proprio potere e la propria rappresentanza (istituzionale e sindacale) all’organizzazione dal basso; nei sistemi politici capitalistici la forma-partito opera perché la dinamica dei movimenti rimanga entro parametri che garantiscano la riproduzione, l’espansione e il successo istituzionale del ceto dei professionisti o degli aspiranti tali quindi, in definitiva, per la riproduzione dello Stato capitalistico. Quale che fosse l’ideologia o la particolare conformazione organizzativa («leggera» o «pesante», «centralismo democratico» o meno) la forma-partito è stata causa del rovesciamento del rapporto tra mezzi e fine e della cristallizzazione organizzata di questa inversione.

Occorre liberarsi del tutto dal feticismo del partito, l’equivalente socialista del capitalistico feticismo della merce. Il feticismo del partito è pure e logicamente associato al feticismo dello Stato, che è la sua meta: che sia lo Stato della Costituzione liberaldemocratica o lo Stato detto socialista o popolare, invariabilmente guidato a vita da un capo più o meno grigio o carismatico.

Non è più questione di riformare la forma-partito, di inventarsi nuovi aggettivi o articolazioni organizzative con la «società civile» o i «movimenti». Questi tentativi d’ingegneria politica a tavolino si rivelano sempre effimeri, deludenti, mistificazioni e operazioni di basso cabotaggio la cui finalità è irrimediabilmente sempre la stessa: arrivare alle prossime elezioni sperando di spuntare il maggior numero di eletti, già politici di professione più o meno mescolati a sangue fresco che rinnovi l’immagine del ceto nella società dello spettacolo.


La critica della nozione di globalizzazione neoliberista


In un precedente intervento nel blog di Utopia rossa (sulla bozza del primo capitolo di Benicomunismo, qui), ho ampiamente convenuto con Bernocchi nella critica delle fuorvianti nozioni di globalizzazione, neoliberismo e «governo unico delle banche», con spunti critici sulla sua lettura della crisi iniziata nel 2007-2008.

Colgo l’occasione per ribadire che i presupposti analitici e le implicazioni politiche di un uso coerente della nozione di globalizzazione, tanto più se caratterizzata come neoliberista, sono molto diversi da quelli associati al concetto di imperialismo.

La discussione intorno e alle determinazioni storiche dell’imperialismo è sempre aperta, tuttavia essa comporta l’assunzione di alcuni concetti correlati:

a) che l’imperialismo non sia solo e principalmente una determinata politica ma la forma di esistenza storica del capitalismo come sistema mondiale;

b) che il capitalismo sia animato fin dall’inizio dalla tendenza all’espansione planetaria e a strutturare una economia mondiale che è più della giustapposizione delle economie nazionali e dei loro scambi (come è invece, e non a caso, nei discorsi sul «fordismo» e l’epoca «keynesiana»). Le battaglie politiche nella II Internazionale, già nei primi anni del ‘900, sulle questioni della «politica mondiale», del colonialismo, del militarismo e della guerra, e l’elaborazione teorica e politica di Rosa Luxemburg, Trotsky, Lenin, Bucharin e altri prima e durante della Prima guerra mondiale, testimoniano la centralità delle contraddizioni della dimensione mondiale nell’analisi e nella prospettiva strategica del pensiero rivoluzionario;

c) che questo sistema mondiale sia dinamico, presenti diverse configurazioni storiche che però comportano sempre la riproduzione interdipendente dell’ineguaglianza dei livelli di sviluppo socioeconomico  e della potenza politica, ideologica e militare (quel che si usava definire sviluppo ineguale e combinato del capitalismo). Il concetto di imperialismo richiede dunque che si definiscano storicamente l’articolazione e le contraddizioni tra le particolarità nazionali e la dinamica complessiva del sistema mondiale;

d) conseguentemente, il nemico non è individuato in una particolare politica o in un particolare schieramento partitico, ma nella classe capitalistica e negli Stati che costituiscono il sistema mondiale. E se il sistema capitalistico è mondiale, il processo di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali deve essere pure inteso come processo mondiale. La burocrazia «socialista» può usare il termine imperialismo come arma ideologica, ma la sua posizione è sempre quella dell’autodifesa nazionale e conservatrice della propria posizione, una prospettiva geopolitica statocentrica.


La nozione di globalizzazione invece non è altro che la proiezione su scala mondiale del concetto neoclassico del mercato perfettamente concorrenziale, concepito per mercati particolari e nazionali. Essa combina la descrizione (almeno come operatività della tendenza) con la prescrizione: presuppone che livello socioeconomico intermedio o statale-nazionale sia assorbito e tendenzialmente «sciolto» nell’unico mercato globale integrato, lasciando come residuo solo il locale e così causando l’obsolescenza delle politiche economiche e sociali nazionali.

Nella pratica l’orientamento politico non scaturisce meccanicamente dall’analisi, ma il successo a sinistra della nozione di globalizzazione neoliberista ritengo risieda proprio nella sua ambiguità: essa facilita la collaborazione, certo in varie forme (dal voto alla partecipazione governativa) e a vari livelli (nazionale e/o locale-regionale), con la «sinistra di governo» o il centrosinistra, in contrapposizione alla cd. cosiddetta «destra neoliberista»; inoltre, si presta bene a giustificare argomentazioni complottistiche e orientamenti nazionalisti, contro il potere dell’oligarchia finanziaria transnazionale, Bruxelles, i vari think tanks, il Fmi ecc. Se l’assunzione della tesi della globalizzazione è una forma in cui si esprime l’egemonia intellettuale capitalistica sulla sinistra, la collaborazione col centrosinistra o le speranze in esso riposte esprimono concretamente l’egemonia politica della stessa casta partitico-statale dominante sulla sinistra.

Giustamente Bernocchi enfatizza la persistente centralità dello Stato nei capitalismi più avanzati. Il punto cruciale è che se a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso sono cambiati il contenuto e gli strumenti delle politiche economiche e sociali, non si sono invece ridotti in assoluto i poteri di intervento socioeconomico degli Stati dei paesi capitalistici avanzati. Così dovrebbe invece essere secondo la formula liberale, fatta propria dai critici del cd. neoliberismo, per cui più mercato equivale a meno Stato e viceversa, assimilando per lo più lo Stato all’interesse generale: come se quello tra Stato e mercato fosse un gioco a somma zero e non una sinergia tra gli istituti fondamentali del potere nel capitalismo. Se quella formula fosse vera, allora l’attuale configurazione mondiale del capitalismo sarebbe potuta entrare in una situazione critica già da molti lustri e dal 2007-2008 avrebbero dovuto verificarsi una depressione grave e generale, tipo anni Trenta, e il crollo del cd. neoliberismo e delle relative espressioni politiche, o mediante profondo rinnovamento dei partiti dominanti o mediante la loro sostituzione con altri. Al contrario, per quanto gravi e duramente pagate dai lavoratori, specialmente in alcuni paesi, negli ultimi decenni le crisi sono rimaste a lungo circoscritte proprio a causa dell’intervento degli Stati e delle banche centrali. Non siamo negli anni Venti del secolo scorso. Concordo quindi pienamente con la tesi per cui la politica economica e sociale dei paesi a capitalismo avanzato sarà pure liberista quando si tratta di diffondere precarietà e flessibilità nel mercato del lavoro e nelle aziende o di ridurre la spesa sociale ma, nel suo insieme, è invece caratterizzabile come neomercantilista: volta a promuovere il capitale interno nell’economia mondiale.

Ed è proprio tenendo conto della persistente capacità d’intervento degli Stati centrali e della realtà di una politica di taglio neomercantilista, invece che meramente liberista, che già nel 2008 si poteva ritenere improbabile (non impossibile) un crollo sistemico analogo  a quello del 1929 e prevedere il rinnovarsi di una dura offensiva contro i diritti socioeconomici dei lavoratori e dell’intera cittadinanza, mentre i partiti di destra e di sinistra si alternano al governo o si uniscono in coalizione.


La postdemocrazia e l’obsolescenza del parlamentarismo


Pieno accordo sulla valutazione del grado d’involuzione dei sistemi politici, fino alla «impossibilità di esercitare una vera democrazia all’interno delle istituzioni esistenti» (p. 217), e sul ruolo della Cgil. Il discorso sui partiti tracciato nelle pp. 226-235 corrisponde alla mia ricostruzione dell’involuzione dei regimi liberaldemocratici in Capitalismo e postdemocrazia (Massari editore 2012, di cui è parte anche l’articolo citato prima). L’avvento della postdemocrazia è un fatto internazionale, strutturale e irreversibile, nel quale i partiti dalla ex «sinistra storica» non sono vittime ma agenti a tutti gli effetti: è un regime politico che segna l’obsolescenza del parlamentarismo.

Le radici della postdemocrazia sono strutturali e internazionali, conseguenti proprio dall’espansione dell’intervento statale nei rapporti sociali, qualcosa che spesso è stato fatto passare come conquista delle lotte dei lavoratori e che, in alcuni casi fu proprio questo. Tuttavia, qualsiasi conquista parziale mediante la lotta, pur importante, è destinata ad essere assorbita, neutralizzata, mutilata o rovesciata dallo Stato e/o dal padronato, a meno che non sia che una tappa in un processo di radicalizzazione politica e di mobilitazione sociale che sbocchi nel rovesciamento dei rapporti di potere di classi e delle istituzioni, l’impresa e lo Stato, in cui essi si materializzano. Se con la mente si torna alla discussione intorno al «revisionismo» di fine ‘800, ci si può rendere conto che qui è la differenza tra la prospettiva di un’evoluzione graduale dal capitalismo al socialismo a mezzo di riforme e di pressioni dl basso, da una parte, e le ragioni di una dialettica della radicalizzazione di massa contro le istituzioni del potere di classe.

Un’ottima e preveggente lettura del incipiente fenomeno d’involuzione dei regimi liberaldemocratici la diede Nicos Poulantzas circa 35 anni or sono (L'état, le pouvoir, le socialisme, Puf 1978, trad. ital.  Il potere nella società contemporanea, Editori riuniti 1979). Egli insisteva sull’osmosi tra partiti di governo ed apparato amministrativo-statale, sull’obsolescenza del potere legislativo e sulla sostanziale convergenza programmatica tra i partiti, fino alla formazione di un partito unico e statalizzato di fatto, sia pur in forma di bipartitismo: che è esattamente quel che è successo da allora e che è parte della spiegazione della fine del «keynesismo» di tipo socialdemocratico ma, anche, dell’accentuato neocorporativismo dell’apparato dei grandi sindacati. Un modo in cui ora si esprime lo stesso concetto nella letteratura è quello di postdemocrazia.

Se prese sul serio, le tesi complementari e convergenti dell’obsolescenza del parlamentarismo rispetto alla burocrazia partitico-statale, dell’integrale statalizzazione dei partiti e della loro convergenza programmatica, sono devastanti per l’orientamento elettoralistico e il riformismo parlamentare della sinistra, più o meno rossa o «alternativa». È diventato assolutamente insensato o indice di un irrimediabile opportunismo cercare di collaborare con l’ala di «sinistra» di quello che è di fatto un sistema partitico unificato, un’unica casta partitica dello Stato capitalista.

Di più: diviene inutile anche l’autonoma partecipazione alle elezioni politiche. Nell’odierno regime postdemocratico e nel quadro delle capacità manipolatorie della società dello spettacolo sono cadute le ragioni del tradizionale elettoralismo di sinistra: sia perché non esistono più «partiti operai» su cui far pressione sia perché le campagne elettorali non possono più neanche fungere da occasione di propaganda «rivoluzionaria». Al contrario, la partecipazione elettorale alimenta l’illusione che sia possibile invertire il corso storico postdemocratico per via istituzionale, magari richiamandosi alla Costituzione,  e in pratica avalla la procedura postdemocratica di legittimazione formale della casta partitico-statale.

Comunque la si volti e la si giri, la pretesa di rappresentare i movimenti non è che la foglia di fico attraverso cui si cerca di entrare o rientrare nel gioco del sistema dei partiti in posizione del tutto e a priori subordinata.


La specificità del caso italiano, esemplare della postdemocrazia e della involuzione dei partiti di sinistra


Piero fa bene anche a sottolineare la specificità del caso italiano, in un senso molto diverso da quello corrente nella sinistra. In sintesi, direi che la ciò che caratterizza la politica italiana è di essere, ancora una volta ma perversamente, all’avanguardia: all’avanguardia della postdemocrazia, esemplare nel mostrarne con evidenza i tratti peggiori e involutivi, sia a destra sia a sinistra.

La ragione paradossale di questo fatto risiede proprio in ciò che un tempo era motivo d’orgoglio per la sinistra: quello d’essere la più forte e la più articolata dei paesi a capitalismo avanzato e, in particolare, d’essere in gran parte una sinistra comunista, considerando insieme il Pci e la ex nuova sinistra. Ebbene, è proprio perché questa sinistra era tanto forte e diffusa, che la sostanziale convergenza programmatica tra i mutanti del Pci e la «destra» evidenzia i tratti caratteristici della postdemocrazia. Bisogna dire che da maggio 1994 a maggio 2001 il centrosinistra governò il paese (senza dimenticare le Regioni) per un arco di tempo dieci volte superiore a quello di Berlusconi e del centrodestra: 2211 giorni contando anche il governo Dini, 1816 senza, contro i 226 giorni del centrodestra; è stata proprio questa ex sinistra, complice i sindacati confederali, a realizzare tutte le più importanti misure di segno neoliberista, dalle privatizzazioni alla precarizzazione del lavoro all’indirizzo della politica sociale e alla repressione dell’immigrazione, riuscendo anche a far la guerra avendo nel governo ministri «comunisti» e verdi.

E questo è l’altro punto dolentissimo. Sulla «sinistra radicale istituzionale» nelle varie configurazioni elettoralistiche, condivido il giudizio di Bernocchi:

«essa non ha mai voluto mettere tra sé e i partiti e sindacati social-liberisti la stessa distanza politica e culturale che ha posto nei confronti della destra berlusconiana, dimostrando non solo la propria subordinazione a tale sinistra di Sistema, ma anche la sua dipendenza cronica dalla presenza istituzionale, che l’ha portata a cercare, senza successo, di restare disperatamente agganciata al carro della sinistra liberista – nel timore di una propria scomparsa/irrilevanza, se stabilmente priva di rappresentanza parlamentare - seguendola in tutte le sue involuzioni dell’ultimo trentennio, fino alla catastrofe del secondo governo Prodi (dopo aver partecipato anche al primo), in cui è stata pesantemente coinvolta nella gestione del sistema e in numerose scelte antipopolari» (p. 26).


Il punto è che la sinistra post-Pci nacque già vecchia e in vent’anni è però riuscita ad assorbire  e tritare nuovi militanti, neutralizzando le possibilità di ricostruire una prospettiva coerentemente anticapitalistica, riuscendo perfino a cooptare nelle istituzioni nuovo personale politico, attraverso svolte e svoltine volte a convertire lo pseudo movimentismo, di cui maestro indiscusso fu e rimane Fausto Bertinotti, in voti e nella continua ricerca dell’accordo col centrosinistra, a livello nazionale e regionale. Una prassi rovinosa, che nella sua mediocrità e nella divaricazione tra i fini ideologici postulati (la «rifondazione del comunismo», un «altro mondo») e la prassi di sostegno di governi imperialisti, ha contribuito, fatte le proporzioni, al regime postdemocratico.

La forte crescita dell’astensione e, a suo modo, anche il voto per il M5S, sono indicativi del fatto che molti milioni di cittadini, anche se pochi degli intellettuali e dei politici di sinistra, hanno deciso di non prestarsi più al rito di legittimazione della casta politica del regime postdemocratico, di rigettare la logica del «meno peggio», di non credere più nelle giravolte per accreditarsi come collegamento tra piazza e Palazzo. Anche i partiti post-Pci sono giustamente percepiti da gran parte dei loro ex elettori come una frazione subordinata, e oramai periferica, della casta politica. È un atteggiamento sano e realistico, che esprime il bisogno di coerenza tra il dire e il fare.


Statalizzazione, benicomunismo e socializzazione


Torno sulla peculiarità strutturale del capitalismo rispetto ad altri modi di produzione: la relativa separazione delle sfere dell’economia e della politica, ovvero lo sdoppiamento e la spersonalizzazione del dominio di classe in due tipi di apparati, entrambi gerarchizzati, l’impresa privata, la cui rete di rapporti costituisce il mercato, e lo Stato. Anziché indebolire il dominio della classe dominante, lo sdoppiamento del potere in due insiemi di apparati ha conferito al capitalismo una capacità espansiva e una flessibilità senza precedenti. Inoltre, nessun sistema sociale prima del capitalismo ha concentrato in modo così spinto i poteri economici, realizzando la gestione diretta, monocratica e «scientifica» del processo di lavoro, dal che deriva lo straordinario sviluppo delle capacità di manipolazione delle forze naturali. E nessun altro modo di produzione ha concentrato e sviluppato in modo così spinto la potenza politica e militare nelle mani di apparati specializzati e «separati» nel quadro della struttura diseguale, per potenza politica ed economica, del sistema internazionale degli Stati. Il dinamismo senza precedenti del capitalismo si esprime in una straordinaria combinazione di progresso e di barbarie, di contraddizioni anch’esse inedite per scala e intensità: nello sviluppo combinato ma fortemente ineguale di un’economia mondiale; nella determinazione di problemi ecologici fino alla scala planetaria; nella costruzione di arsenali nucleari che potrebbero por fine alla civiltà, se non alla storia umana. Ciascuna di queste contraddizioni mondiali costituisce un ottimo motivo per battersi contro il capitalismo.

E, sempre in termini macrostrutturali, si pone il problema di sottrarre i rapporti socioeconomici alla dinamica del mercato e all’imperativo della massimizzazione del profitto, ovvero della ricomposizione dei poteri economici e politici, della democrazia nel suo senso più ampio. Ma in che modo, da parte di chi, in qual misura e in quale direzione può attuarsi questa ricomposizione? 

La tradizionale risposta di sinistra è univoca: si tratta di rafforzare il potere statale relativamente al mercato. Questo rafforzamento dello Stato può prospettarsi secondo due vie, opposte ma per un certo verso complementari: o riformando il capitalismo attraverso l’espansione del sistema parlamentare e del settore pubblico, magari combinato con la «partecipazione» agli utili, la cogestione, un terzo settore cooperativistico o non-profit; oppure rovesciando lo Stato borghese e costruendo una struttura statale che si dice socialista, perché statalizza le attività economiche. Il potere statale, però, così come è gestito nei suoi diversi apparati e livelli gerarchici, è sempre quello di un ceto di professionisti della politica: ragion per cui la concentrazione dei poteri economici e politici in una casta o classe strutturata nel partito-Stato è la forma concentrata dell’alienazione politica, l’esatto contrario del socialismo che consiste nella diffusione-socializzazione del potere.

L’esperienza storica dimostra che se non si verifica l’espansione qualitativa delle più varie forme di esercizio del potere democratico, da quelle assembleari alle delegate secondo i casi, su tutte le scale spaziali e in tutti i campi, se non progredisce l’autogestione dal basso verso l’alto, se non si ampliano le libertà e le sue garanzie, si riproducono l’ineguaglianza sociale, i privilegi derivanti dallo status, lo sperpero irrazionale di vite e di risorse materiali, perfino in dimensioni e con modi peggiori di quanto accada nei paesi capitalistici più avanzati.

La statalizzazione dell’economia modifica i modi di gestione del lavoro sociale, ma non per questo lo rende direttamente sociale: esso è, infatti, diretto da una casta o classe dominante secondo gli interessi dello Stato. La gestione direttamente sociale del lavoro non può essere semplicemente decretata, imposta con la forza in tutti i livelli dell’attività economica e in ogni contesto, né può compiersi entro ristretti confini nazionali.  Inversamente, non la pianificazione statale come tale e dall’alto verso il basso, ma la pianificazione come processo democratico e sperimentale, non la mera statalizzazione della proprietà ma l’autogestione dal basso verso l’alto e la socializzazione della discussione e della decisione politica, con le contraddizioni e i conflitti che implicano la democrazia e il coordinamento internazionale, sono assolutamente indispensabili per orientare la dinamica di trasformazione dei rapporti socioeconomici verso il superamento degli scambi di valore e la gestione direttamente sociale del lavoro.

La ricomposizione dei poteri economici nella forma della loro socializzazione non è qualcosa per cui attendere tempi migliori, ma un presupposto essenziale della lotta contro le vecchie forme di alienazione soggettiva e oggettiva e la prevenzione del formarsi di nuove forme di dominio.

L’accordo con Bernocchi è completo sulla critica dello statalismo, sulla necessità di una democrazia integrale, sul fatto che questa democrazia non può essere frutto della pacifica evoluzione del capitalismo, sulla consapevolezza che la socializzazione non esclude il conflitto. E questo è l’essenziale.


Tuttavia, sono perplesso sull’uso del termine benicomunismo e su alcune sue implicazioni che, a mio parere, non giovano alla causa comune.

Bernocchi definisce il benicomunismo come «una sorta di grande e innovativo nuovo Welfare globale, associato a nuovi diritti sociali universali e ad un “capitale” collettivo universale» (p. 216). Tuttavia, se l’estensione dei diritti sociali è ovviamente imprescindibile, la struttura e la dinamica di un processo di transizione non si risolvono nello Stato sociale. Non solo per quanto già detto sul potere della burocrazia statale ma per la stessa sostanza sociale, la dinamica, la vitalità del processo di transizione.

Intendo dire che fino a quando la capacità di lavorare sarà una merce, fino a quando esisterà il lavoro salariato, esisteranno anche le merci, i vincoli e le pressioni derivanti dagli scambi di valore, sui mercati del lavoro e dei beni e dei servizi. Un sistema universale di diritti sociali può progredire solo insieme all’elaborazione di un sistema di valutazione e soddisfazione dei bisogni sociali e di produzione di valori d’uso che sostituisca gli scambi di valore, quindi anche il salario. In definitiva, l’esito della lotta contro la mercificazione universale e per l’estensione e l’approfondimento dei diritti sociali dipende dalla lotta contro gli scambi di valore e per il superamento del lavoro salariato, la vera «merce numero uno». Questo concetto, qui appena abbozzato, implica però una serie di problemi strutturali, a riguardo dei rapporti tra differenti forme di proprietà; del raccordo tra le diverse scale e ambiti della decisione politica; dei rapporti tra l’autogestione microeconomica e la politica macroeconomica; dei rapporti con l’estero capitalista e con altri paesi in transizione (sorvolando su sprechi e distorsioni derivanti dalla pressione del nemico; sia per motivi politici che economici il dinamismo di un processo di transizione dipende dalla sua estensione internazionale).

Si tratta di un campo di discussione pertinente il rapporto sociale di produzione come totalità (che implica e in parte supera la dicotomia tra produzione e consumo, lavoro-lavoratori/non lavoro-non lavoratori, nonché tra la sfera dei rapporti economici e quella dei rapporti politici).

Ora, ritengo che l’enfasi sui «beni comuni» e sul welfare possa ridurre l’insieme dei problemi inerenti a una società di transizione e alla demercificazione e generare confusione, potendo essere intesa come lotta contro il cosiddetto neoliberismo (nozione che Bernocchi giustamente critica) piuttosto che contro il capitalismo (questo a prescindere dalla giustezza dalla lotta alle privatizzazioni). È chiaro che il discorso di Bernocchi non resta entro tali limiti; anzi direi che l’obiettivo è proprio superarne la ristrettezza. Però la definizione non giova all’obiettivo.

Inoltre, metodologicamente sono contrario all’invenzione di neologismi quando non sia strettamente necessario.

Bernocchi sa benissimo, essendosene occupato in libri sull’Urss, la Polonia di Solidarność e la Ddr (Le "riforme" in URSS, La Salamandra, 1977; Capire Danzica, Edizioni Quotidiano dei lavoratori, 1980; Oltre il muro di Berlino. Le ragioni della rivolta in Germania Est, Erre Emme 1990), che la discussione sui rapporti tra piano e mercato, tra democrazia politica e socialismo, ha una storia lunga e che non mancano punti di riferimento positivi, sia teoricamente sia come esperienze storiche di massa. Tra queste cito quelle autogestionarie e del movimento libertario in Spagna durante la guerra civile, prima che venissero soffocate dallo statalismo di marca borghese e stalinista che, insieme alla rivoluzione, uccise pure la possibilità di vincere la ribellione franchista; e quella di Solidarność, che mi pare dimenticata ma che resta a noi la più vicina, non solo nel tempo, e, ritengo, il livello più alto raggiunto da un movimento di massa dei lavoratori nel secondo dopoguerra, sia quanto a mobilitazione sia per le prospettive delineate al suo interno. I problemi e le linee essenziali del benicomunismo sono già stati ampiamente trattati e descritti nella discussione internazionale su modelli di società di transizione alternativi a quelli totalitari, variamente caratterizzati come forme di democrazia socialista, socialismo democratico o autogestionario, comunismo libertario e via dicendo.

Il punto mi è confermato proprio dalla giusta critica del benecomunismo al singolare per le sue implicazioni totalizzanti, omogeneizzanti, moralistiche, e dalla precisazione per cui «i beni comuni sono tutto ciò che la larga maggioranza della popolazione di un paese considera tali». Benissimo, anche perché per «beni comuni» nel senso rigoroso dell’espressione dovrebbero intendersi solo quei beni effettivamente indivisibili. E però così si dissolve la specificità del benicomunismo: quel che si indica nel libro altro non è che il contenuto, democraticamente determinato, di un processo di socializzazione socioeconomica che va oltre la gestione pubblica o comunitaria dei «beni comuni». Non c’è bisogno di un neologismo. Pur minoritaria nella storia del pensiero rivoluzionario del XX secolo, esiste una corrente libertaria e autogestionaria, sia in campo marxista che anarcocomunista, da riprendere criticamente: almeno dal punto di vista intellettuale non è che si debba iniziare da zero.

Comunque, quel che conta veramente è intendersi sulla sostanza, sviluppare la ricerca, farla vivere coerentemente nella pratica.

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