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Nazione e stato nazionale nell'epoca della sussunzione totalitaria del mondo al capitale

Sebastiano Isaia

enhanced-4871-1411764722-1La nazione come area di sfruttamento locale (o regionale) da parte di un Capitale privo, sostanzialmente, di attributi nazionali. Lo Stato nazionale come potere locale posto al servizio di una Potenza sociale mondiale: il Capitale, appunto. Alla base di questa concezione insiste il concetto di Capitale come rapporto sociale, e non come cosa, come tecnologia economica posta al servizio della società. Sono questi i concetti, peraltro già altre volte da me trattati, che intendo sviluppare nelle righe che seguono, sperando di introdurre nell’argomentazione nuovi spunti di riflessione intorno a vecchi temi, di offrire nuove prospettive dalle quali approcciarli. Mi scuso per la sintesi di alcuni passaggi storici e logici cui sono stato costretto nel tentativo di rendere quanto più stringato possibile il discorso posto all’attenzione del lettore.

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Creare un ambiente favorevole (friendly) agli investimenti del «capitale straniero: di qui,la necessità di «riforme a tutto campo», a «360 gradi», della sempre più decotta Azienda Italia (vedi i pessimi e depressivi dati sull’economia italiana resi noti l’atro ieri dal Ministro Padoan e dal moribondo Cnel).

È, questo, un mantra che dilaga su tutti i media del Paese. Un mantra tutt’altro che di giornata, per la verità; anzi piuttosto annoso e rancido, visto che sto invecchiando avendo sempre nelle orecchie quel cattivo motivetto “riformista”. Riforme, si badi bene, tanto di «struttura» (ad esempio quelle tese a modificare il mercato del lavoro e il welfare) quanto di «sovrastruttura» (ad esempio, quelle volte a modernizzare la Giustizia, penale e civile, e la politica). Sempre che tutte queste distinzioni conservino un residuale significato nell’epoca del dominio totalitario della società al Capitale. Basti pensare che gli stessi sociologi ed economisti mainstream parlano della politica e della giustizia civile nei termini di «infrastrutture economiche», ossia di servizi immateriali chiamati a supportare lo sviluppo economico di un Paese. Com’è noto, i tempi della politica, della burocrazia e della Giustizia trovano una puntigliosa traduzione in termini economici in chi intende investire capitali in vista dell’agognato e vitale profitto.

A proposito di profitto! All’ultima Direzione del PD Paola Concia, entusiasta del «dinamico» modello capitalistico tedesco, ha sostenuto che per un’impresa fare profitti «è un dovere», perché senza profitti le imprese chiudono e i lavoratori perdono la loro unica fonte di reddito. «Occorre in Italia una rivoluzione culturale che faccia capire che un’impresa ha il diritto di esistere solo se fa profitti, naturalmente se fatti in modo onesto e lecito». Naturalmente. Il profitto come assoluto imperativo categorico, e il cinismo come linguaggio della verità: pane duro per i denti di chi crede in un Capitalismo «dal volto umano». Di qui, per riprendere il filo del discorso, l’urgenza di approntare efficaci «riforme» che tutelino non il posto di lavoro, ma il lavoro, attraverso la creazione, appunto, di un ambiente sociale capitalisticamente favorevole: dalla formazione scolastica a un welfare orientato a difendere non quel lavoro ma il lavoro. «Basta con la cassa integrazione pagata attraverso la fiscalità generale che tutela un posto di lavoro che ormai non c’è più e che rende impossibile una virtuosa mobilità sociale»: è stata questa una delle tesi più ripetute nella citata Direzione del PD.

Tutto vero. È il Capitale (non la Germania, o la famigerata troika, se non per conto del Capitale) che ce lo chiede. Ma, ed è su questo aspetto che intendo attirare brevemente l’attenzione del lettore, di quale Capitale stiamo parlando: di quello nazionale? di quello cosiddetto straniero? di quello tedesco? Di quello europeo? Detto in altri termini, in che senso è legittimo parlare, senza cadere in una concezione ideologica del processo sociale, di «capitale nazionale» e di «capitale straniero»? Riconosco che la domanda posta è suggestiva, nel senso che suggerisce al lettore la risposta che ho già in testa. Ma facciamo finta che così non sia e articoliamo il discorso prendendo le mosse da un personaggio che di Capitale un po’ ne capiva. Si tratta del solito ubriacone di Treviri? Non vedo alternative (soprattutto dopo aver letto Il Capitale di Piketty)!

Com’è noto a chi frequenta, anche solo occasionalmente, gli scritti marxiani, per il comunista di Treviri quello capitalistico è un modo di produzione essenzialmente internazionale, non nazionale (se non come momento storicamente transitorio). L’internazionalismo marxiano non ha nulla di ideologico proprio perché è radicato nel concetto di Capitale come potenza sociale mondiale, idea che il processo storico ha ampiamente confermato. Per Marx il Capitalismo è il primo modo di produzione davvero mondiale che sia apparso sulla faccia della terra. A differenza delle altre formazioni storico-sociali che hanno conosciuto una notevole propensione espansiva (pensiamo alla civiltà romana, o a quella islamica), quella capitalistica ha la peculiare prerogativa di estendere il rapporto sociale che la rende possibile alle aree con cui entra in contatto. Presto o tardi, un’area che ha avuto la ventura di incrociare il Capitale subisce una rivoluzione nella sua struttura sociale, e il suo “vecchio” modo di produzione deve necessariamente lasciare il posto a quello nuovo. Chi tocca il Capitale muore, cioè si “capitalizza”.

Sotto il regime sociale capitalistico non è possibile la coesistenza, gli uni accanto agli altri, di diversi modi di produrre e distribuire la ricchezza sociale: nella sua illimitata ricerca del massimo profitto il Capitale ha bisogno di assoggettare alle sue necessità l’intero spazio sociale offerto da una determinata regione del pianeta. Prima sfrutta i modi di produzione che trova sul suo cammino, e poi li dissolve. Il capitale agisce da solvente delle vecchie strutture sociali. In questo ristretto senso, frainteso da più parti, Marx parla del Capitalismo come di un modo di produzione rivoluzionario.Ma insieme alla conquista dello spazio sociale declinato in termini geosociali, il Capitale ci ha fatto assistere anche alla sua conquista dell’intero spazio esistenziale degli individui, trasformati in entità economicamente sensibili, in risorse (o «capitale umano», o bio-merci) da mettere a profitto in diversi modi. È qui che a mio avviso trova la sua più pregnante espressione il concetto, oggi molto inflazionato e banalizzato, di globalizzazione: il dominio del Capitale è globale, ossia totale (sociale, geosociale, esistenziale), e quindi totalitario – nell’accezione storico-sociale, e non politico-giuridica, qui proposta. La cosiddetta omologazione antropologica (culturale, ideologica, psicologica, somatica, ecc.) della popolazione mondiale di cui tanto parla la sociologia da parecchi anni, e a cui fa “dialettico” riscontro l’impotente reazione identitaria, trova il suo reale significato nei fenomeni sociali qui solo accennati. Per un approfondimento di questi temi “esistenzialisti” rinvio il lettore a Eutanasia del Dominio e all’Angelo Nero sfida il Dominio.

L’ambito nazionale (la formazione di un mercato nazionale, la solidificazione di uno Stato nazionale espressione di una classe borghese radicata su un dato territorio omogeneo sotto diversi aspetti) è dunque da Marx concepito non come il punto d’arrivo del processo storico, ma come una fase, un momento dello sviluppo capitalistico. Il capitale deve necessariamente affermarsi prima in una dimensione nazionale, attraverso il superamento non solo dell’antico assetto sociale feudale, ma della stessa trama di piccole imprese generata nella fase precoce del suo sviluppo: di qui quei processi capitalistici di concentrazione e di centralizzazione che hanno consentito al Capitalismo di allargare progressivamente il suo dominio al mondo intero. Come mi permetto di chiosare in diversi scritti, quella mondiale è la dimensione più adeguata al concetto e alla prassi del Capitale.Considerata da questa prospettiva storica, l’acquisita dimensione nazionale del Capitale, che ha avuto tempi e forme diverse nelle differenti aree geopolitiche del pianeta, appare in realtà come un momento della sua necessaria internazionalizzazione.

Necessaria, occorre chiarirlo, non nel senso – teleologico – di un progresso storico che prepara l’ineluttabile ascesa del Capitalismo, magari concepito come base materiale di un’altrettanto ineluttabile nuovo e superiore modo di produrre e scambiare la ricchezza sociale. Necessaria internazionalizzazione, invece, nel senso che posto il rapporto sociale capitalistico la conquista del pianeta da parte del Capitale è inscritta, per dirla hegelianamente, nella cosa stessa. La genesi dello Stato nazionale va inserita nel processo storico-sociale qui appena abbozzato; essa va riferita a un momento storicamente determinato dello sviluppo della «società civile» assoggettata agli interessi dalla nuova classe dominante: la moderna borghesia. Nelle pagine dedicate alla Cosiddetta accumulazione originaria (Il Capitale, I), Marx mise in luce il fondamentale ruolo che lo Stato ebbe nella genesi del rapporto sociale capitalistico, ossia nel lungo e contraddittorio processo che si concluse con la formazione, ad un polo, di una classe di nullatenenti costretti a vivere di salario perché privi dei mezzi di produzione (e per questo allontanati dal prodotto del loro lavoro), e di una classe di capitalisti in possesso a vario titolo delle condizioni materiali della produzione della ricchezza sociale, al polo opposto.  Questo atto genetico, questo vero e proprio peccato originale che ha reso possibile l’inferno capitalistico, si ripete sempre di nuovo, giorno dopo giorno, su tutto il pianeta. La cosa è talmente radicata nella nostra realtà sociale, che non ce ne accorgiamo neanche, mentre agli albori del Capitalismo filosofi, economisti, teologi e moralisti d’ogni tendenza politica scrissero molte pagine, alcune delle quali molto acute, sul dramma sociale creato dal nuovo modo di produzione. Il lavoratore-merce appare cosa banale, non degna di serie riflessioni, all’individuo ad alta composizione organica del XXI secolo.La considerazione appena fatta sul ruolo dello Stato nella genesi del Capitalismo, una funzione che non si è esaurita pur avendo di molto mutato aspetto, vuole anche scagliare una freccia critica contro quelle ideologie che tendono a vedere in termini antinomici Stato e mercato, interventismo e liberismo, economia e politica, dimostrando così di non comprendere l’essenza della Potenza sociale che ci sovrasta.

Come Leviatano lo Stato è chiamato a mantenere l’ordine sociale senza il quale vengono meno per il Capitale le condizioni minime di agibilità economica. Come «infrastruttura economica» esso deve farsi carico di favorire lo sviluppo di un’organizzazione sociale (dal sistema formativo al mercato del lavoro, dalla ricerca scientifica al welfare) quanto più fertile possibile dal punto di vista della redditività capitalistica. Non solo, ma nei momenti di catastrofe economica lo Stato è costretto ad assumersi in prima persona compiti economici che nei tempi “normali” sono di esclusiva pertinenza dei privati. Facendo questo lo Stato non esce fuori dai suoi “naturali” binari, né mette sotto tutela il Capitale piegandolo al «bene comune» e salvandolo dalle sue stesse contraddizioni, come sostengono i teorici del primato della politica e gli ideologi dello statalismo (di “destra” e di “sinistra”); semplicemente lo Stato serve la potenza sociale che tutto e tutti domina nel modo più consono all’eccezionalità del momento. Come sempre, l’eccezione mostra la vera natura della regola, confermandola.

Il pensiero che non ha radicalità naturalmente prende molto sul serio ciò che i protagonisti dell’evento eccezionale pensano di sé e del mondo che dicono di avere «saldamente in pugno», di stringere in una morsa di «pura volontà»; a questo pensiero, che è poi il pensiero dominante, non passa neanche per la testa che ci si possa trovare dinanzi a delle mosche cocchiere, salvo poi costatare la miserabile fine di personaggi come Mussolini e Hitler.

Come sostenne Marx rovesciando “dialetticamente” Hegel, la «società civile», questo vero e proprio mondo hobbesiano (secondo lo stesso filosofo di Stoccarda), lungi dall’essere una forma storica di comunità resa possibile dall’esistenza dello Stato (anzi: del concetto di Stato, che poi si invera in uno Stato profano, cioè politico), va invece considerata come la matrice dello Stato moderno, il quale è appunto la più alta espressione dell’antagonismo sociale che la «società civile» genera sempre di nuovo a cagione della sua struttura classista. Il punto di partenza storico non è lo Stato, ma la multiforme prassi sociale umana, la quale potrebbe benissimo fare a meno, e non solo in linea teorica, di quel tipo di organizzazione politico-ideologica. L’ideologia pattizia, che pone lo Stato (con tanto di spada sguainata per scoraggiare i nemici interni ed esterni della Civiltà) come supremo garante del Contratto sociale, cela la natura di classe dello Stato borghese. Sotto questo aspetto, la forma democratica dello Stato è quella che meglio si presta a mistificare la realtà del Dominio. Ma qui non è il caso di sviluppare ulteriormente questi fondamentali concetti – fondamentali a prescindere da chi ne fa oggetto di una più o meno  intelligente riflessione.

La nazionalità di un investimento capitalistico (ad esempio, quello che si manifesta in un marchio automobilistico tedesco, piuttosto che americano o giapponese) ci dice molto della struttura sociale che lo ha reso possibile, del cosiddetto orgware di un Paese, ossia delle condizioni sistemiche che rendono appetibile l’investimento in una data area di sfruttamento. Lo slogan pubblicitario che assicura sul fatto che l’automobile esibita «è tedesca», comunica di fatto al potenziale consumatore questo messaggio: la società tedesca mette il Capitale nelle condizioni di sfornare merci eccellenti, sotto tutti i punti di vista. È un fatto che da sempre la nazione tedesca, ossia l’area di sfruttamento chiamata Germania, mette a disposizione del Capitale un ambiente sociale favorevole allo sfruttamento della capacità lavorativa.  Invece di concentrarci sul passaporto dell’automobile esibito con tanta arroganza nello spot pubblicitario, come fa il sovranista schiumando bile nazionalista, dovremmo piuttosto chiederci, ad esempio in rapporto al Bel Paese, cosa rende così friendly per il capitale la società tedesca. Solo così possiamo affrancarci dall’avvilente discorso intorno all’eterna e funesta volontà di potenza della Germania.

In effetti, quando la Germania fa la voce grossa contro i Paesi dell’Unione europea (vedi Francia e Italia) che non intendono fare i famosi «compiti a casa», o che cercano di truccare la partita della convergenza sistemica (che ha nella società tedesca il suo “naturale” punto di riferimento), essa, più che fare gli interessi del «Capitale tedesco» (d’altra parte, quale interesse capitalistico nazionale dovrebbe difendere la Germania?), o della nazione tedesca globalmente considerata (vale la considerazione di sopra, assai indigesta per certe anime belle europeiste tipo Barbara Spinelli), fa in primo luogo gli interessi del Capitale, nell’accezione di Potenza sociale mondiale più volte evocata in queste righe e che riprenderemo tra poco. Il tanto bistrattato (dai Paesi del Mezzogiorni europeo) «rigorismo tedesco» costringe infatti le altre aree di sfruttamento locale a diventare più attraenti per gli investitori, locali e internazionali. Ma in tal modo la Germania soffia, anche suo malgrado (“oggettivamente”), sul fuoco delle contraddizioni sociali di quei Paesi (o aree di sfruttamento locali) chiamati a non rimandare oltre le famigerate «riforme di struttura». Lo scontro politico di questi giorni tra Parigi e Berlino (con Roma che cerca come sempre di vedere da quale parte pende la bilancia prima di azzardare una mossa) non ha altro significato. La «prova di coraggio» esibita in queste ore dal governo francese a proposito del pareggio di bilancio e della stessa “filosofia dell’austerità” non esprime forza, o Grandeur, ma debolezza ed estrema preoccupazione, nonché la misère del cosiddetto modello sociale francese.

Se così stanno le cose, chiedere al Capitale di esibire alla metaforica dogana la sua carta d’identità nazionale significa semplicemente non capire con che sostanza sociale si ha a che fare. Il capitale, infatti, non è una cosa, non è una tecnologia economica posta al servizio della «società civile», e non è nemmeno un rapporto giuridico: esso è fondamentalmente un rapporto sociale. Ha senso interrogarsi sulla nazionalità di un rapporto sociale che ormai domina il mondo? Non credo proprio. Per questo pretendere che lo Stato nazionale faccia in primo luogo gli interessi del «capitale nazionale» significa manifestare un anacronismo “a 360 gradi”. La classe dirigente di un Paese è chiamato dalla realtà a creare un clima favorevole all’investimento capitalistico, a prescindere dalla provenienza nazionale (o locale) del Capitale. Sotto questo aspetto, il Capitalismo con caratteristiche nazionali (ad esempio, il capitalismo con caratteristiche cinesi) va concepito come l’articolazione/fenomenologia locale, o regionale, del Capitale in quanto rapporto sociale. In effetti, le nazioni oggi vanno concepite come aree di sfruttamento localizzate, come nodi di una rete mondiale. Il nazionalismo come efficace strumento di controllo sociale è dunque posto al servizio di una Potenza sociale che non ha né confini, né sesso, né razza, né religione, e la cui prassi sfugge, per l’essenziale, al controllo degli individui, nonostante siano essi a renderlo possibile, in primo luogo attraverso le attività lavorative. Con molto zelo alimentiamo tutti i santi giorni il Moloch che ci sovrasta ma che non riusciamo a vedere proprio per la sua impalpabile natura di rapporto sociale: per dirla con un tormentone della TV dei ragazzi dei miei tempi, «il trucco c’è ma non si vede». Oppure, più “filosoficamente”, il Dominio sociale cammina sulle gambe di uomini che guardano ma non vedono, che ascoltano ma non intendono.

Lo Stato nazionale va a sua volta concepito come un potere locale posto al servizio di una Potenza sociale mondiale: il Capitale, c’è bisogno di dirlo? Ed è altrettanto inutile dire che questa tesi irrita alquanto i nazionalisti d’ogni confessione politica, i sovranisti che militano tanto a “destra” quanto a “sinistra” dello scacchiere politico, molti dei quali sventolano orgogliosamente le bandiere del protezionismo come unica strada per uscire dal “tunnel” della crisi economica e «salvare il capitale nazionale dagli assalti del capitale straniero». Lo Stato nazionale è a tutti gli effetti il cane da guardia chiamato a difendere il rapporto sociale capitalistico in una data area di sfruttamento del pianeta. Per questo esso non può prescindere dal retaggio storico che connota quella peculiare area (chiamata Italia, o Cina, o Germania, ecc.): dalla sua concreta struttura sociale, dalla sua tradizione politica, culturale e via di seguito. Lo Stato nazionale conserva una funzione proprio perché la società mondiale non è omogenea in tutte le sue aree di sfruttamento e nelle sue articolazioni geopolitiche. Lo stesso carattere ineguale dello sviluppo capitalistico, che si riproduce in forme sempre nuove (la sua fenomenologia è completamente diversa, ad esempio, da quella analizzata prima da Marx e poi da Lenin), e la stessa natura concorrenziale del Capitale (vale la considerazione appena fatta) riproducono incessantemente le condizioni che consentono allo Stato nazionale di sopravvivere e di svolgere la sua funzione di potere politico-ideologico locale. Per questo i concetti di Superimperialismo e di Stato Unico Mondiale, per quanto suggestivi e apparentemente in sintonia con le tendenze di fondo della società capitalistica mondiale, non colgono tuttavia la natura profondamente contraddittoria e antagonista (a tutti i livelli: sociali, economici, geopolitici) del processo capitalistico di sfruttamento di risorse umane e naturali.

La scarto tra il carattere mondiale del Capitale e la disomogeneità della società capitalistica mondiale genera una tensione che trova puntuale riscontro anche nel confronto interimperialistico tra le maggiori aree capitalistiche del pianeta. Ma è d’altra parte lo Stato imperialista, nella misura in cui esso cerca di promuovere con ogni mezzo adeguato allo scopo (guerre incluse) la proiezione internazionale del cosiddetto capitale nazionale, la forma politico-ideologica più adeguata del Capitale altamente sviluppato.

La forza delle Potenze mondiali non sta, innanzitutto, nella canna del fucile, per dirla con il fondatore della Cina moderna, ma nella potenza del loro sistema economico, e ciò spiega anche l’esito della Guerra Fredda. La chiave più importante per capire la politica internazionale, per non rimanere accecati dalla spessa fumisteria politico-ideologica che tradizionalmente l’avvolge (soprattutto per confondere le idee alla cosiddetta opinione pubblica internazionale), rimane a mio avviso la competizione capitalistica mondiale. Oggi più di ieri.

Sbaglia dunque chi pone a fondamento della propria analisi del processo sociale (nazionale e mondiale) il momento politico-ideologico (lo Stato nazionale) e l’area di sfruttamento locale (la nazione), mentre è dalla natura sociale del Capitale, dal Capitale come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, che l’analisi deve, almeno a mio avviso, iniziare.

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